Storicamente. Laboratorio di storia

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Bryan Ward-Perkins, The Fall of Rome and the End of Civilization

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A partire dal lavoro di Peter Brown negli anni ’70, si è assistito a quella che Andrea Giardina ormai dieci anni fa ha definito una «esplosione di tardoantico» (A. Giardina, Esplosione di tardoantico, «Studi Storici», 40 (1999), 157-180). Il saggio dello storico italiano, incentrato principalmente su questioni relative alla periodizzazione, ha sistematizzato e quindi riacceso la discussione intorno ad alcuni nodi focali del dibattito relativo alle categorie interpretative applicate alla lettura di fenomeni ed eventi dell’epoca tardoantica, in particolare alla questione della fine dell’impero romano d’Occidente. ‘Declino’, ‘crollo’, ‘crisi’, ‘fine di una (per alcuni della) civiltà’ sono temi che hanno appassionato storici e intellettuali per secoli, a cicli alterni. Negli anni ’70 e ’80 del Novecento il cosiddetto ‘modello Peter Brown’, ma anche la più generale influenza della scuola delle «Annales», aveva fatto virare la storiografia – in particolare, ma non solo, del tardoantico – verso concetti alternativi quali ‘transizione’, ‘trasformazione’ o ‘continuità e mutamento’. Non è un caso che soprattutto dopo il 2001 si sia assistito, viceversa, a un’ondata di nuovi saggi di segno opposto, di cui quello di Ward-Perkins è forse il più significativo tra quelli più recenti dedicati alla storia tardoantica.
Il volume, che è indirizzato a un pubblico colto non esclusivamente accademico e che ha avuto rilievo sulla stampa internazionale, è suddiviso in due parti che riprendono il titolo: The Fall of Rome e The End of a Civilization. Il primo punto che l’a. affronta è un evento, la caduta di Roma nel 476. Riallacciandosi a Gibbon, Ward-Perkins attribuisce a tale data un significato importante (e catastrofico), in opposizione ad altre correnti storiografiche che invece hanno teso e tendono tuttora a minimizzare la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre e del suo esercito, collocandola in un contesto di lungo periodo, in cui l’eredità romana passa ad altre istituzioni e culture, quali, ad esempio, Bisanzio. La prima parte del volume è dunque concentrata principalmente sulla questione delle invasioni barbariche e delle ripercussioni da esse provocate sulla qualità della vita degli abitanti dell'impero romano d’Occidente. L’a. ritiene che la storiografia dell’ultimo trentennio del ’900 abbia progressivamente operato una sostituzione dei concetti di decay con transformation e di invasion con accommodation. Ciò ha fatto sì che si perdesse di vista il portato delle invasioni barbariche sul tessuto economico e sociale dell’Impero romano d’Occidente. Al contrario, Ward-Perkins interpreta il tardoantico come un’epoca di guerre violente e quindi di un dominio oppressivo da parte dei nuovi governanti ‘barbari’ sulla popolazione romana: l’accomodamento, secondo Ward-Perkins, fu totalmente negativo per le popolazioni ‘native’. La seconda parte del volume esamina le condizioni economiche, politico-istituzionali e sociali della pars Occidentis in seguito alle invasioni. Il ritratto delineato è sconfortante: la valutazione dell’a. è che una civiltà sia morta per essere sostituita da un'epoca buia (Dark Ages).
Il volume è stimolante e soprattutto provocatorio: certo l’impostazione di tipo pamphlettistico produce alcune semplificazioni. La definizione, ad esempio, di crisi economica utilizzata dall’a. è molto tradizionale; il concetto di civilization viene usato senza alcuna discussione critica e mi pare sottendere anche una scala di valutazione all’interno delle civiltà, sulla quale l’a. forse avrebbe dovuto fornire qualche ragguaglio. Le righe finali del saggio mi paiono chiarificatorie riguardo alle motivazioni sottese alla pubblicazione del saggio: «The end of the Roman West witnessed horrors and dislocation of a kind I sincerely hope never to go through; and it destroyed a complex civilization, throwing the inhabitants of the West back to a standard of living typical of prehistoric times. Romans before the fall were as certain as we are today that their world would continue for ever substantially unchanged. They were wrong. We would be wise not to repeat their complacency» (183).