Ben poco, io credo, sarò in grado di aggiungere ai contributi del presente dossier; mi limiterò infatti solo a qualche ulteriore riflessione per quel che concerne la porta orientale d’Italia e la visione che ne ebbero i Romani, più precisamente durante gli anni compresi tra la conclusione della Seconda guerra punica e la prima metà del II secolo a.C.
Già ho ripetuto più volte la mia ricostruzione ideale circa il periodo immediatamente successivo al bellum Hannibalicum. Il metus, la paura di una nuova invasione dell’Italia che influenza potentemente la politica della res publica già all’indomani di Zama e che la spinge a condurre due guerre preventive contro la Macedonia e contro la Siria seleucide, allora principali potenze nel Mediterraneo, distruggendone poi, dopo quella di Cartagine, entrambe le flotte, induce infine Roma, nell’anno 187, a compiere un ulteriore passo che garantisca definitivamente la sicurezza della penisola italica. Con la scomparsa dell’ultima forza marittima ostile, quella siriaca, l’Urbe è ormai al riparo da qualunque irruzione proveniente dal mare; e tuttavia non si considera ancora del tutto al sicuro. Resta, all’insidia, un ultimo varco possibile, quello per via di terra attraverso la cerchia delle Alpi. Le orientali, tuttavia, poiché non esiste ancora alcuna vera minaccia da parte dei barbari d’Occidente o del centro Europa; mentre, viceversa, si teme un attacco non spontaneo, ma orchestrato dalla monarchia ellenistica ancora non doma, quella Macedonia che, dopo un breve periodo di intesa, è tornata ostile. Da parte sua si sospetta, nella circostanza, l’innesco di un’azione da est, attraverso i valichi di quelle che verranno poi chiamate Alpi Giulie. Pur frainteso, il primo sintomo percepito risale al 186-183 [1] e porterà alla fondazione di Aquileia nel 181. Poi, poco dopo questo momento, le nozze tra Perseo, l’erede al trono antigonide, e una principessa dei Bastarni faranno sospettare, di nuovo, che Filippo V voglia, come dice Livio, spostare quella gente, forse di stirpe germanica, e sedibus suis, dal cuore dei Balcani, ut in Italiam irrumperent [2], perché invadano l’Italia (Brizzi 1979, 391-394; Bandelli 2003, 51-55).
Partendo da questa situazione politica e dal metus che angustia la res publica si può dunque interpretare la genesi della via Emilia e del primo impianto che sorge a integrarla sotto una luce del tutto particolare. Non potendo sostituire completamente le popolazioni indigene attraverso una colonizzazione di massa, ormai inattuabile per un’Italia spopolata dalla guerra annibalica, il mutato atteggiamento del potere romano mira a trasformare i Galli cisalpini in alleati fedeli, quali saranno poi sempre d’ora in avanti, inducendoli a resistere a eventuali invasori venuti da oltralpe invece di sommare, come hanno fatto più volte in passato, le proprie forze a quelle che minacciano Roma (Brizzi 2000; Martin e Brizzi 2010, 28-31). Si impone così, certo, un trattamento benevolo; non al punto però da aprire ai Celti l’accesso alla civitas, passo giudicato evidentemente prematuro. Come stabilisce il foedus iniquum stipulato secondo Cicerone [3] con quelle genti, la cittadinanza resta nei loro confronti assolutamente preclusa; una barriera, questa, che fissa il primo vero limite politico dell’Italia romana in quanto tale.
Si stabilisce così un vero e proprio confine, lungo il quale corre, parallela, una strada: la via Emilia, appunto (Brizzi 1979, 387-390; Brizzi 2009; Brizzi 2019; Brizzi 2020, 93-102). Su questo asse sorgono delle colonie, sei in tutto; e vengono così insediati contingenti almeno potenziali di truppe, quei coloni che saranno chiamati a impugnare le armi in caso di pericolo. Tibiletti (1984, 131) al proposito scriveva: “la colonia latina di Ariminum composta di 6000 famiglie … [dà] con certezza, nel caso di mobilitazione generale, 6000 soldati, pari a una legione a ranghi pieni”. Sorge dunque per la prima volta, sul terreno della regione cispadana, una particolarissima struttura, una barriera che sottintende una ben precisa forma mentis romana. Nasce così un limes nell’accezione più consueta attribuita al termine, quella cioè di frontiera presidiata: secondo uno studio divenuto canonico, tale struttura si compone sempre essenzialmente di “una strada o di una rete di strade vigilate da truppe che si muovono su di esse e per loro mezzo assicurano il collegamento tra le diverse unità” (Forni 1959, 1086). Le componenti essenziali sono queste soltanto; e, presenti e identificabili tutte già nell’impianto strutturato attorno alla via Emilia, fanno di questo complesso il primo realizzarsi sul terreno di un’idea, elevata poi a sistema per tutta la serie di assetti strategici permanenti sorti in seguito lungo le sterminate frontiere imperiali.
Oltre questo confine, di carattere palesemente politico poiché al di là di esso la cittadinanza romana non era conseguibile, esisteva però, costituita dopo la definitiva pacificazione delle genti transpadane, una vasta area cuscinetto formata dalle terre abitate principalmente dai Celti e dai fedelissimi socii Veneti e chiusa dall’avamposto di Aquileia; che, quando sorse, delle due nature attribuite sovente alle colonie, aveva quella di claustrum piuttosto che quella di porta. A questo territorio mancava ancora, come era invece accaduto già per la Sicilia e la Sardinia et Corsica, una vera e propria redactio in formam provinciae; non si era compiuto cioè il passo attraverso il quale un territorio acquisito veniva organizzato in vista di una sua gestione diretta e continuata. Quando, come talvolta accade, si trova menzionato in riferimento a questo spazio il ricordo di una provincia Ariminum, la definizione allude a un campo meramente giurisdizionale, richiama cioè la sfera operativa del magistrato cum imperio incaricato occasionalmente (e in via transitoria…) di gestire le emergenze al suo interno, non la presenza stabile di un governatore eletto anno per anno (Susini 1984). Secondo alcuni, la Cisalpina non divenne una provincia nel senso consueto del termine fino al 72 a.C., momento in cui è attestato il primo governatore romano [4], o, almeno, fino al 90/89 a.C., poiché “in ogni caso la redactio in formam provinciae non può essere anteriore alla lex Iulia e Plautia Papiria de civitate del 90 a.C.” (Luzzatto 1985, 136). Secondo ipotesi recenti (Sisani 2016; Cresci 2023), invece, sarebbe divenuta provincia negli ultimi anni del II secolo. Fino a quel momento il rapporto con Insubri e Cenomani fu dunque regolato dal foedus iniquum ricordato sopra, che interdiceva loro l’accesso alla cittadinanza.
E tuttavia per l’Italia un secondo confine era venuto ormai sicuramente già configurandosi nei fatti, almeno secondo la riflessione degli storici e dei politici, non oltre mezzo secolo dopo la creazione della via Aemilia. A esso, parlando di una regione estesa fino alle Alpi, fanno riferimento sia Catone il Vecchio nelle Origines, sia soprattutto Polibio. Secondo lo storico greco
l’Italia, nel suo insieme, ha la forma di un triangolo … L’ultimo lato, a settentrione, di fronte all’Europa continentale, lo limita da un capo all’altro la catena delle Alpi, che prende origine da Massalia e dalle località che stanno al di sopra del mare dei Sardi. Questa si estende fino al recesso ultimo del mare Adriatico, senza interruzione salvo un piccolo intervallo che lascia aperto prima di giungere al mare [5],
quello stesso a sorvegliare il quale fu fondata appunto, nel 181, la colonia latina di Aquileia (Brizzi 1979, 393; Bandelli 1988, 21-31; Bandelli 2003, 51-63).
Ora, è chiaro che, come è stato detto (Tozzi 1976; Vattuone 1987), nel passo polibiano in questione [6] si possono distinguere piani diversi, uno economico, uno geografico e uno politico-militare; e che nel caso della regione transpadana questi ultimi due aspetti soprattutto finirono, agli occhi di Roma, per coincidere. Pur non ancora Italia, questo rimaneva dunque un settore delicato per la res publica, che fu ben presto costretta a occuparsene, anche se, forse, di malavoglia.
Come già si è accennato, l’allarme era scattato già almeno una volta in quei primi anni, quando un gruppo di imprudenti Galli transalpini, Istri o Carni, transgressi in Venetiam [7], passati cioè nelle terre dei Veneti con l’intenzione di occupare l’angulus Venetorum, un settore della regione rimasto deserto, venne probabilmente scambiato per l’avanguardia della temuta invasione dai Balcani (Sartori 1960; Cecovini 2013). I contatti subito presi oltralpe con le comunità d’origine dissiparono questo primo timore, scongiurando la guerra: riportati indietro gli improvvidi invasori, i Romani fondarono allora, oltre le terre dei Veneti, alleati e consanguinei (perché anch’essi di ceppo troiano [8]), la latina Aquileia, un remoto avamposto rispetto al sistema-Emilia.
La vigilanza della colonia, tuttavia, parve dapprima insufficiente a scoraggiare la pressione delle popolazioni limitrofe. Negli anni compresi tra il 181 e il 169, quando Aquileia avrebbe infine ricevuto a rinforzo 1500 nuove famiglie [9], Roma dovette così intervenire militarmente più volte in questo settore (Bandelli 1988, 31-38; Bandelli 2003, 63-68). Prima, nel 178, fu il console A. Manlio Vulsone, sostenuto anche da una forza di Carni, a operare, non senza rischi ma infine vittorioso, contro gli Istri [10]. Il conflitto fu concluso l’anno seguente quando, dagli hiberna presso Aquileia, lo stesso Vulsone e M. Giunio, allora in qualità di proconsoli, intervennero di nuovo con le loro legioni, riportando prima un parziale successo contro la popolazione indigena; poi – dopo avere rifiutato con un pretesto di cedere il comando al console in carica, C. Claudio Pulcro, cui sarebbe spettato l’incarico di condurre le operazioni – ponendo l’assedio a Nesactium (Nesazio), dove aveva trovato rifugio Epulone, il regulo locale. A riportare la vittoria definitiva fu però il console stesso. Rientrato a Roma per ricevervi gli auspici, Claudio tornò subito al fronte alla testa di una nuova armata, congedò i proconsoli riottosi e ne licenziò le legioni; poi, passato all’offensiva, prese prima Nesactium e subito dopo espugnò gli oppida di Mutila e Faveria, catturando oltre cinque mila prigionieri e costringendo i nemici alla resa [11].
Non troppo gravose, le operazioni in Istria parevano definitivamente concluse. Forse convinto di sovvenire in tal modo alle difficoltà di Aquileia, in fondo inesistenti, forse cercando gloria a buon mercato, provvide per un momento a riaprirle in modo del tutto sconsiderato il console del 171 a. C. Cassio Longino; che, con il pretesto di spingersi in direzione della Macedonia, invase le terre di Carni, Istri e Iapodi, intraprendendo una serie di operazioni offensive contro di loro. Non era il tempo, tuttavia. Dapprima increduli [12], poi sdegnati e impensieriti per un’iniziativa che rischiava di aprire in loco una crisi di cui non si avvertiva il bisogno [13], i patres si riunirono frequentes in assemblea plenaria, e incaricarono il pretore Sulpicio di nominare tre legati. Questi, partiti il giorno stesso, dovevano raggiungere il console al più presto dovunque si trovasse; e dovevano intimargli ne bellum cum ulla gente moveat, nisi cum qua senatus gerendum censuerit [14]. Pare inevitabile constatare come, per il senato, fosse allora prioritario evitare, nel settore, qualunque improvvido avventurismo.
I patres andarono anche oltre. L’anno dopo, quando a Roma giunsero sia gli inviati di tutte queste genti, sia i messi di un re dei Galli, Cincibile (il sovrano del Norico?), decisi a protestare per le devastazioni e i guasti inflitti alle loro terre da Longino, i senatori risposero di non aver avuto sentore del fatto che ciò di cui i messi si lagnavano stesse per accadere; e che, se quelle violenze avevano avuto luogo davvero, non le approvavano assolutamente. Rimandarono tuttavia il giudizio poiché l’ex console operava allora in Macedonia in qualità di tribuno e non avrebbe potuto difendersi, ma assicurarono che al suo ritorno a Roma, se i querelanti avessero voluto accusarlo pubblicamente, il senato avrebbe esaminato a fondo le loro rimostranze e avrebbe fatto in modo da dar loro soddisfazione. Oltre a inviare messi presso le comunità offese (e quali messi, soprattutto nel caso del re gallico: Caio Lelio, l’amico di Scipione, e M. Emilio Lepido, allora princeps senatus per la seconda volta!) perché comunicassero ufficialmente le decisioni prese dal consesso, i patres ritennero addirittura giusto offrire ai legati importanti donativi in parziale riparazione per i torti subiti [15]. Concessero inoltre, a richiesta, di acquistare dieci cavalli ciascuno e di condurli fuori d’Italia, in deroga a una norma che vietava una prassi del genere per ragioni d’ordine militare (Kromayer e Veith 1928, 330).
Se è vero che nel 169 la consistenza della colonia aquileiese fu, come si è detto, accresciuta di 1500 famiglie [16], la situazione su quella lontana frontiera poteva però ormai considerarsi stabile e buoni erano senz’altro i rapporti con le genti limitrofe. A riprova di ciò Balano, un regulo gallico di area transalpina, offrì allora il suo appoggio a Roma contro lo Stato antigonide [17]; e la vicina monarchia del Norico rimase poi per lungo tempo, in seguito, fedele amica della res publica.
Non solo. Di una situazione in fondo invidiabile poté fruire da quel momento in poi l’intera regione a sud delle Alpi. Le genti locali non solo videro garantita la loro integrità territoriale (uniche eccezioni a un rispetto quasi assoluto, e in epoca molto più tarda, la colonia di Eporedia-Ivrea nel 100 a.C. e la distribuzione viritana attorno a Forum Licini, non lontana da Como), ma conservarono la loro moneta, la dracma padana, che continuò a circolare, affiancata e non sostituita dal denario, furono lasciate esenti dal tributo e da ogni controllo diretto a opera del potere romano ed ebbero addirittura il permesso di tenere le armi, largamente presenti nei corredi funerari del secolo successivo.
Sulle terre cisalpine rimasero dunque gli alleati Veneti e Galli. Rimasero in gran parte, io credo, anche i Boi della Cispadana; cui, dopo l’errore commesso con Bononia, colonia latina per il cui territorio si era improvvidamente scialato al fine di attirarvi i coloni col vantaggio economico, si venne opportunamente incontro malgrado la necessità di creare lungo l’Emilia ulteriori, cospicui centri destinati alla difesa (Brizzi 1979, 385-389; Brizzi 2000). Qui nacquero Mutina e Parma, colonie “Latin type”, come le ha definite il Toynbee (1965, 143-150), perché formate da duemila famiglie ciascuna; ma rimaste, scelta del tutto eccezionale, romane per statuto. Solo con il mantenimento della civitas optimo iure (concessione fino ad allora inaudita…) si poté chiedere ai capifamiglia di venire a stanziarsi nell’agro boico, malgrado una assegnazione di terre pari a un decimo soltanto di quella distribuita a ciascun Latino di Bononia; e si poterono lasciare così in loco significativi nuclei di indigeni (Brizzi 2000).
Come è stato ricordato in una pagina mirabile,
ad eccezione delle zone montuose [queste popolazioni si romanizzarono tanto rapidamente] da non distinguersi più dalle altre genti italiche per l’aspetto generale della vita. E ciò appare confermato, scendendo di qualche generazione … se poniamo a mente, ad es., al largo contributo che le genti della Padania diedero … alla produzione letteraria latina. Basti ricordare che alle terre dei Veneti appartennero Catullo, Emilio Macro, Vitruvio e Livio; alle zone della Gallia Cisalpina Cecilio Stazio comeda, i lirici Valerio Catone e Cinna di Brixia, Bibaculo di Cremona, lo storico Cornelio Nepote, il filosofo Catio, il retore novarese Albucio Silo, Virgilio mantovano, il comico Pomponio di Bononia e Accio di Pesaro (Pareti 1952, 544).
Nello spazio di una o due generazioni anche in Cispadana gli indigeni sopravvissuti dovettero sostanzialmente scomparire, non però annientati o espulsi, ma adscripti ai centri maggiori e assorbiti nelle identità locali.
Bibliografia
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Note
1. Liv., 39.22.6, 45.6-7.
2. Liv., 39.35.4 (da cui la citazione); 40.5.10, 57.2-9.
3. Cic., Balb., 14.32.
4. Liv., per., 96; Oros. 5.24.4. Cfr. Cic., fam., 5.1.2; Plin., Nat. hist., 2.67.170; Plut., Crass., 9.10; Cass. Dio, 37.33.4.
5. Plb., 2.14.4-6.
6. Plb., 2.14-17.
7. Liv., 39.22.6-7, 45.6-7, 54-55.
8. Venetos Troiana stirpe ortos auctor est Cato: Cato ap. Plin., Nat. hist., 3.19.130.
9. Liv., 43.17.1.
10. Liv., 41.1-5.
11. Liv., 41.9-11.
12. Ea res (…) incredibilis visa: Liv., 43.1.7.
13. Enimvero senatus indignari tantum consulem ausum, ut suam provinciam relinqueret, in alienam transiret, exercitum novo periculoso itinere inter exteras gentes duceret, viam tot nationibus in Italiam aperiret: Liv., 43.1.9.
14. Liv., 43.1.11.
15. Liv., 43.5.
16. Liv., 43.17.1.
17. Liv., 44.14.1-2.