Almeno per quel che riguarda l’aspetto topografico, l’idea del seminario Il confine orientale d’Italia dall’epoca romana al Trattato di Osimo, tra realtà e ideologia, tenutosi a Bologna il 5 novembre 2021, deriva dalla consultazione vicina nel tempo di due carte del confine orientale d’Italia: quella prodotta da Attilio Degrassi nel suo capitale lavoro (1954) – pur aggiornato dai rinvenimenti successivi, come si vedrà nei diversi articoli che qui si raccolgono – sull’età romana e una, facilmente reperibile in rete, sulle diverse linee di confine proposte dai vincitori della Seconda guerra mondiale per il confine italo-jugoslavo [1].
Sebbene a distanza di venti secoli vi siano differenze motivazionali e culturali sul concetto di confine in sé e sul valore strategico dello stesso, come emerge dai vari contributi, a un primo sguardo le consonanze appaiono stringenti: in particolare, la linea Wilson del 1919, ripresa poi dagli americani e dagli italiani nel 1946 alla Conferenza di pace, segue nella sua parte finale esattamente lo stesso corso d’acqua, il fiume Arsa/Raša, che Plinio il Vecchio [2] indica come il limite orientale dell’Italia di età imperiale. Già tra Ottocento e Novecento, d’altronde, esso è stato individuato da studiosi e politici – talora le due categorie non sono facilmente scindibili – alla ricerca dei cosiddetti confini naturali della patria, chiaramente sottomettendo la realtà antica, dominata da circostanze etniche e concetti non sovrapponibili, a quella delle diverse nazionalità inquiete nell’Impero austro-ungarico.
L’obiettivo della giornata – e di questo dossier che ne segue – è stato quello di mettere in luce, pur con tutti i caveat necessari in un lavoro comparativo del genere, similarità e differenze tra l’antichità e l’età contemporanea nell’approccio globale – topografico, strategico, culturale – alla frontiera orientale che divideva l’Italia – quale che ne fosse lo statuto e l’effettivo governante – da una realtà “altra” e coerente, che si estendeva dalla conca di Tarvisio al mare. Non è affatto un caso che gli irredentisti si rifacciano alla situazione dell’Italia romana – talora accompagnata dalla celebre citazione dantesca “Sì com’a Pola presso del Quarnaro / ch’Italia chiude e i suoi termini bagna” [3] – perché quello è il momento unico in cui in effetti viene tracciata, pur con una valenza del tutto differente da quella contemporanea, una linea che dallo spartiacque delle Alpi Carniche al mare separa una realtà politica corrispondente alla Penisola e un’entità altra, le province di Pannonia e Norico in quel caso.
Difatti, a partire dall’età di Giustiniano e poi con l’ascesa della potenza veneziana cambia totalmente la situazione, cessa di esistere un’unitarietà tra litorale e retroterra e si crea “un dualismo, o, volendo, una dicotomia politica e sociale […] tra costa e interno su entrambi i litorali”, come ha recentemente scritto Egidio Ivetic (2019, 87). Di conseguenza, non esiste più una frontiera politica estesa dalla conca di Tarvisio al mare a distinguere l’Italia settentrionale e le terre d’Oltralpe. L’Adriatico come lago bizantino dura per pochi decenni – rimanendo solo su un livello molto superficiale e per questo si rimanda al contributo dettagliato di Francesco Borri – poiché la calata dei Longobardi conduce a profonde modifiche territoriali in Italia: nello specifico, sono conquistati il Friuli – basti pensare al Tempietto longobardo di Cividale, iscritto nel patrimonio UNESCO – e il resto dell’Italia settentrionale – che, come in età romana, è separata dall’attuale Slovenia, definita ancora Pannonia –, ma l’Impero d’Oriente mantiene il controllo di una fascia costiera che si allunga per l’intero arco dell’alto Adriatico, da Ravenna a Pola, per saldarsi poi all’intera Dalmazia. Lì con le invasioni slave si va delineando una frattura sempre più netta tra litorale e isole da una parte e l’entroterra dall’altra. Nonostante una provvisoria unità dell’Italia nord-orientale, dell’Istria e della Dalmazia durante il regno di Carlo Magno, la strada ormai è segnata, la potenza bizantina cede il passo e progressivamente, tra IX e XIII secolo, l’Adriatico appare sempre più come il golfo di Venezia. Di conseguenza, sulla costa orientale la configurazione politica muta profondamente, con un limes fissato tra la fascia litoranea con isole antistanti saldamente sotto il leone di San Marco e le realtà altre – su tutte ricordiamo l’Impero ottomano e quello asburgico – alle spalle. La zona oggetto della nostra riflessione diventa allora quasi un campo neutro non interessato più da un confine tra due etnie e/o due realtà politiche ben distinte.
Tornando – brevemente, in quanto i contributi dei colleghi antichisti sono ben esaustivi e non è nostro compito in questa sede ripercorrere analiticamente l’estensione dell’Italia – alla realtà romana, ci sia consentito solo di fare due brevi notazioni: la prima è che le fonti letterarie dichiarano distintamente dove corre il confine lungo la costa – senza dubbio il percorso e la zona più praticati –, mentre nulla dicono in merito al suo andamento nel settore superiore, quello delle Alpi Giulie. Utilizziamo quest’ultima definizione spontaneamente, quasi senza rifletterci, condizionati come siamo dalla “nostra” sensibilità contemporanea, che ci porta a vedere la linea confinaria in un territorio montuoso e magari pure sulla linea di displuvio. Invece, un recente e fortunato ritrovamento di un cippo iscritto [4], ripreso in questa sede nel contributo di Claudio Zaccaria, ha condotto gran parte della letteratura ad accettare – ci si passi il termine – contrariamente alla tradizione del Degrassi, molto radicata, che il limite augusteo dell’Italia non corra sullo spartiacque, almeno nella parte terminale delle Alpi Giulie, perché il territorio di Aquileia comprende il borgo di Nauportus (att. Vrhnika) nei pressi di Lubiana, dove sorge la colonia di Emona che appartiene con il suo ager alla regio X (Šašel Kos 2002). Questo significa che tutta la conca dell’attuale capitale slovena è parte dell’Italia e che quindi il suo confine orientale ricade interamente nel bacino danubiano.
La seconda notazione, invece, è in qualche modo “continuista”, perché a leggere il contributo di Lorenzo Ielen sulla soglia di Gorizia a un antichista viene in mente il terrore che Roma elabora a partire dalla catastrofe annibalica, il metus Punicus: qualche lettore potrebbe chiedersi per quale motivo abbiamo inserito in un’introduzione sul confine orientale una riflessione partita dall’azione del grande comandante cartaginese. La domanda non è affatto peregrina, ma la risposta è motivata dal fatto che, dopo la sorpresa dell’invasione punica attraverso le Alpi occidentali, la Dominante è diventata timorosa veramente di qualunque movimento, che interpreta come potenzialmente minaccioso (Brizzi 2016, 154-168). Il timore di una nuova invasione della Penisola con il richiamo delle esperienze patite con Pirro prima e soprattutto con Annibale è, infatti, l’argomento principale con cui nel 200 a.C. il console P. Sulpicio Galba convince i comizi, riluttanti, a dichiarare guerra al regno macedone [5]. La paura, quindi, aumenta fino a divenire una sorta di psicosi collettiva a partire dal 195 a.C., quando Annibale, il pericolo numero uno, è esule alla corte di Siria e suggerisce ad Antioco III piani per uno sbarco nell’Italia meridionale. Forse già dopo la Pace di Apamea del 188 a.C., però, si diffonde a Roma la notizia di un estremo piano annibalico di invasione della Penisola dalle Alpi orientali (Šašel 1976, 76; Brizzi 1992, 113). Il pericolo appare più fondato nel 184 a.C. a proposito di una temuta invasione della tribù dei Bastarni spinti da Filippo V di Macedonia e poi dal successore Perseo [6], ed è in quel momento che per la prima volta, almeno a nostra conoscenza, si allude al concetto di porta orientale d’Italia – definizione poi riutilizzata in tono retorico in epoca ben più vicina a noi: è chiaro che già nella media Repubblica si è identificato quel settore delle Alpi Giulie alle spalle di Gorizia come una sorta di ventre molle, imposto dalla conformazione geografica, da cui possono penetrare i nemici provenienti da Oltralpe.
In quel frangente politico, questi ultimi probabilmente riescono pure nel loro intento: si allude a un altro episodio riferitoci da Livio [7], quello un po’ misterioso dei Galli Transalpini transgressi in Venetiam nel 186 a.C. che provocano grande turbamento a Roma, al di là del loro reale potenziale di minaccia. Tre anni dopo, infatti, quando questi rientrano alle loro sedi, gli inviati del Senato ammoniscono i notabili celtici che le Alpi rappresentano un confine quasi insuperabile tra i due popoli [8] e la Repubblica decide la deduzione della colonia aquileiese, come “prima sentinella alla porta orientale d’Italia” (Stucchi 1945, 342; si veda anche Brizzi 1992, 113-114), che, peraltro, è ben individuata anche da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, come mostra Francesco Borri nel suo contributo, che pure suggerisce una non casuale analogia con la descrizione delle Alpi in merito al passaggio di Annibale.
Per ragioni contingenti, nella nostra raccolta di studi la fase medievale e quella moderna sono meno rappresentate rispetto all’età antica e contemporanea, ma ciò non significa che i diversi secoli ricompresi in queste due età non abbiano una rilevanza centrale negli sviluppi della tematica, anche nella lunga durata (una rilevanza ben sottolineata nell’ancora capitale monografia Valussi 1972 e nel più recente Ivetic 2019).
Si è già accennato alla cesura provocata dalla conquista dei Longobardi che, dal polo di Cividale, controllano tutta l’area della pianura friulana; al di là dello spartiacque alpino (che peraltro in questa area risulta nettamente tracciato solo nel suo settore più settentrionale, in corrispondenza con le Alpi Carniche), apparentemente sono stanziate in questo periodo dell’alto Medioevo popolazioni poco organizzate e forse sotto l’egemonia degli Avari; la fascia costiera della regione romana della Venetia, come anche l’Istria, resta invece sotto l’egemonia bizantina: in definitiva, il confine orientale dell’Italia finisce per intersecarsi, non senza conseguenze di lungo periodo, a un altro confine, tra la costa adriatica e le aree interne, a determinare il quale le relazioni economiche sembrano essere più rilevanti che le identità culturali.
È di questo periodo anche la comparsa sulla scena di una componente etnica che avrà una rilevanza fondamentale per la regione nei secoli a venire, quella slava, con la formazione del Principato di Carantania e l’insediamento di Slavi nella regione storica della Carniola: l’arrivo degli Sloveni nelle vallate alpine orientali e dei Croati nell’Istria decreta la fine di quell’unità etnica e culturale della regione che potremmo definire “romana”.
Le conquiste di Carlo Magno ricompongono temporaneamente l’unità politica tra i versanti est e ovest delle Alpi, ma non colmano la frattura con le aree costiere della Venezia, che gradualmente acquisiscono autonomia rispetto a Bisanzio. Alla dissoluzione dell’Impero carolingio le aree interne ricadono sotto il controllo dell’Impero romano-germanico degli Ottoni e poi dei Salii (con effetti importanti sulla composizione etnica dell’area: la presenza dell’elemento tedesco, non numeroso, ma rilevante dal punto di vista sociale, poiché viene a costituire la classe dirigente), con un’articolata partizione politico-territoriale, che vede a ovest protagonisti la Marca del Friuli e poi il Patriarcato di Aquileia, a est il ducato di Carinzia – erede della Carantania – e il ducato di Carniola; nel frattempo Venezia consolida la sua egemonia sulla fascia costiera.
Una svolta si ha nella prima metà del XV secolo quando la Repubblica di Venezia, inserendosi nelle contese tra Cividale e Udine per la supremazia sul Patriarcato di Aquileia, riesce a portare sotto il suo controllo, dopo le comunità delle coste istriane, anche buona parte del Friuli: un passo importante nel già avviato processo di italianizzazione della regione. Trieste, libero comune che si era da tempo consegnato all’Austria, e Gorizia, con il territorio circostante – a comporre la Contea di Gorizia – restano nelle mani dell’Impero.
Questa nuova situazione trova sanzione nella Pace di Worms del 1521, dopo la quale si crea il primo vero confine politico dell’età moderna nell’Italia nord-orientale; si tratta peraltro di un confine frastagliato e incerto, punteggiato di enclaves ed exclaves, conseguenza della frammentazione avvenuta in età medievale. Tra la Pace di Worms e la fine del XVIII secolo la situazione è quella di una solo apparente stabilità, in realtà attraversata da gravi tensioni, testimoniate per esempio dalla costruzione nel 1593 da parte della Repubblica di Venezia della fortezza di Palmanova, nominalmente a difesa del Friuli dalle incursioni dei Turchi, ma percepita dagli Asburgo come una minaccia nei confronti della Contea di Gorizia, e dalla breve, ma rovinosa Guerra di Gradisca (1615-1617) combattuta tra Venezia e l’Arciduca d’Austria (con i suoi alleati, i pirati uscocchi del Quarnaro le cui scorrerie specialmente avevano indotto la Repubblica a scendere in conflitto aperto).
In questo periodo si colloca anche la fine dell’unità religiosa della regione, sotto il controllo del Patriarcato di Aquileia: la dissoluzione del Patriarcato comporta infatti la nascita dei due nuovi arcivescovadi di Udine e di Gorizia, con giurisdizione rispettivamente sui territori della Repubblica di Venezia e dell’Arciducato d’Austria.
La situazione politica creata da Worms rimane comunque sostanzialmente invariata fino alle guerre rivoluzionarie della fine del Settecento: la caduta della Repubblica di Venezia porta tutta l’area sotto il controllo dell’Impero asburgico in una prima occasione nel 1797, con il trattato di Campoformido; la guerra della III coalizione, a seguito della quale l’Austria è costretta a cedere tutte le province venete alla Francia, ripristina sostanzialmente il vecchio confine, ma con una semplificazione, individuando la linea di frontiera nel corso dell’Isonzo: per la prima volta in età moderna si segue il principio dei confini naturali, tenendo al contempo conto delle esigenze militari. Dopo la guerra della V coalizione e la disastrosa sconfitta austriaca a Wagram l’Impero è costretto a cedere i territori della Dalmazia, dell’Istria, della Carniola e della Carinzia che andranno a costituire le Province Illiriche – con l’interessante recupero di un coronimo, illirico, di età roman – direttamente dipendenti dalla Francia: in questa nuova identità illirica sono forse da riconoscere i germi del nazionalismo slavo che si svilupperà nei decenni successivi.
Il crollo di Napoleone e il Congresso di Vienna del 1815 riportano il quadro alla situazione che si era a venuta a creare con la Pace di Campoformido: tutta la regione della frontiera orientale dell’Italia ricade sotto il dominio dell’Impero, anche se alcuni dei vecchi confini amministrativi interni si conservano (e in effetti il 1815 è il punto di partenza delle riflessioni di Michieli – Zelco 2008). Queste condizioni determinano la crescita di una coscienza nazionale “italiana” nella sezione occidentale della regione di frontiera, fondamentalmente nel Friuli, un dato che si motiva con la sostanziale continuità linguistica e culturale, eredità del dominio romano, e con il lungo dominio veneziano su queste terre. Il quadro è meno omogeneo nella sezione orientale dove la presenza “italiana” convive con una classe dirigente prevalentemente tedesca e con un importante popolamento slavo nelle campagne. Particolarissima è la situazione di Trieste, porto cosmopolita, dove tuttavia l’elemento italiano si rafforza nel corso del XIX secolo, sia come effetto dell’immigrazione dal Friuli, sia per la crescente diffusione della lingua italiana non solo tra la classe dirigente, ma anche tra i ceti popolari.
Il grande mutamento successivo risale al 1866, quando buona parte del Friuli è annessa al Regno d’Italia, mentre la vecchia Contea di Gorizia, come anche Trieste, l’Istria e Fiume, resta nelle mani dell’Impero, ora austro-ungarico: apparentemente una semplificazione, che tuttavia traccia un confine lungo una linea che non ha un particolare significato dal punto di vista geografico, militare e culturale e che lascia l’area in una situazione di netta contrapposizione tra due stati tra loro ostili e che, in definitiva sarà foriera delle gravi tensioni che segneranno il Novecento (la situazione che si apre nel 1866, con le sue conseguenze di lungo periodo sono state oggetto delle importanti riflessioni di Cattaruzza 2007; ma si veda anche Cecotti 2008).
Il tema geografico-politico del confine orientale italiano in effetti attraversa tutto il secolo breve, marcando l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, la nascita del Regno di Jugoslavia e il periodo interbellico, l’espansionismo imperialista del fascismo e il bipolarismo della guerra fredda, fino alla caduta del muro di Berlino e alle guerre jugoslave.
La questione di definire i limiti geografici dello stato si lega alle dinamiche di costruzione e consolidamento dello stato territoriale moderno, intersecando – soprattutto a partire dall’età del Risorgimento – la dimensione della nazione e delle nazionalità. Dagli ultimi decenni del secolo XIX, infatti, la disputa sul confine orientale si sovrappone all’emergente tema politico dell’irredentismo e dell’incompiuto processo di unificazione nazionale. Si tratta di un tema che animerà il dibattito politico e intellettuale anche come conseguenza dell’esacerbazione del sentimento nazionalista e imperialista, soprattutto a partire dai primi anni del nuovo secolo e che si estende ad ampi settori della società, interessando, oltre ai partiti politici, anche le organizzazioni della cultura e dell’educazione. L’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale si gioca, oltre che intorno alla questione del dominio coloniale e dei possedimenti d’oltremare, sul tema delle terre a nord-est: Trento, Trieste, l’Istria e la Dalmazia, nel tentativo di individuare e sostanziare il limite orientale dello Stato.
Sebbene la sconfitta dell’Austria-Ungheria determini il raggiungimento di una parte sostanziale degli obiettivi geografico-politici che avevano spinto l’Italia nel conflitto – nella sostanza l’annessione delle province di Trento, Bolzano, Trieste e Pola – la mancanza di alcuni obiettivi ritenuti sostanziali nell’allargamento del territorio nazionale verso est non pone fine al dibattito. È soprattutto intorno alla sovranità di Fiume che si esacerbano le tensioni fra movimenti ultra-nazionalisti italiani e il neonato Regno dei serbi, croati e sloveni. Ma ambigua è anche la visione sulla sovranità della Dalmazia, già ritenuta da alcuni la quarta terra irredenta sin dalla fine dell’Ottocento e sulla quale presto si solleverà la rivendicazione fascista. Fra le due guerre mondiali, dunque, il dibattito sul confine orientale viene assorbito nella più ampia questione adriatica, terreno di scontro fra le due sponde del mare intorno alla sovranità della costa orientale e oggetto del primo piano di espansione imperiale verso il Mediterraneo da parte italiana: un tema che sarà centrale anche per quanto riguarda le premesse e gli esiti del secondo conflitto mondiale e che è al centro della riflessione maturata nel saggio di Raoul Pupo anche per quanto riguarda gli esiti drammatici riguardo agli eccidi perpetrati fra la popolazione.
La sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e la perdita delle province orientali non fa però venir meno l’importanza del confine orientale nelle nuove geografie politiche della guerra fredda. Il saggio di Ielen si interroga sul ruolo del confine nel quadro dei piani di guerra e di deterrenza nucleare.
Bibliografia
- Brizzi, Giovanni. 1992. “La presenza militare romana nell’area alpina orientale.” In “Lo Scavo.” Vol. 1 di Castelraimondo: scavi 1988-1990, a cura di S. Santoro Bianchi, 111-123. Roma: L’Erma di Bretschneider.
- Brizzi, Giovanni. 2016. Canne: La sconfitta che fece vincere Roma. Bologna: Il Mulino.
- Cattaruzza, Marina. 2007. L’Italia e il confine orientale, 1866-2006. Bologna: Il Mulino.
- Cecotti, Franco. 2008. “Cartografie variabili: i confini orientali d’Italia fra Otto e Novecento.” Zapruder 15: 88-101.
- Degrassi, Attilio. 1954. Il confine nord-orientale dell’Italia romana: ricerche storico-topografiche. Bern: Francke.
- Ivetic, Egidio. 2019. Storia dell’Adriatico: un mare e la sua civiltà. Bologna: Il Mulino.
- Michieli, Roberta, e Giuliano Zelco. 2008. “Il confine mobile: il confine orientale dal 1815 al 1954.” In Venezia Giulia: la regione inventata, a cura di Roberta Michieli e Giuliano Zelco, 21-54. Udine: Kappa Vu.
- Šašel, Jaro. 1976. “Lineamenti dell’espansione romana nelle Alpi orientali e dei Balcani occidentali.” Antichità altoadriatiche 9: 71-90.
- Šašel Kos, Marjeta. 2002. “Il confine nord-orientale dell’Italia romana: riesame del problema alla luce di un nuovo documento epigrafico.” Aquileia Nostra 73: 245-260.
- Stucchi, Sandro. 1945. “Le difese romane alla porta orientale d’Italia e il vallo delle Alpi Giulie (1).” Aevum 19 (3-4): 342-356.
- Valussi, Giorgio. 1972. Il confine nordorientale d’Italia. Trieste: Lint.
Note
1. Per Mattia Vitelli Casella, la pubblicazione è stata realizzata da ricercatore con contratto di ricerca cofinanziato dall’Unione europea - PON Ricerca e Innovazione 2014-2020 ai sensi dell’art. 24, comma 3, lett. a), della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 e s.m.i. e del D.M. 10 agosto 2021 n. 1062.
2. Nat. hist., 3.129.
3. Inferno IX, 113-114.
4. AE 2002, 532.
5. Liv. 31.7.
6. Liv. 39.35.4; 40.57.
7. Liv. 39.22.6-7.
8. Liv. 39.54.12.