Premessa
Rivolgendo il mio interesse all’analisi comparativa del processo di formazione degli stati in età antica – e in particolare mettendo a confronto gli imperi romano e cinese – mi sono principalmente occupato del periodo riguardante il cambio di tipologia della gestione politica e amministrativa dei due imperi, con particolare attenzione all’operato dei fondatori, Augusto (63 a.C.-14 d.C.) e Qin Shi Huangdi (260-210 a.C.), entrambi arrivati al potere dopo periodi di sanguinose guerre intestine [1].
La comparazione esterna tra i due imperi è un tema di ricerca che ha una solida base storiografica alle spalle: già nel 1939 se ne occupò Frederick J. Teggart in un lavoro focalizzato sul parallelo tra l’impero romano e quello Han (Teggart 1939); venendo a tempi più recenti, tra gli studi più rilevanti sull’argomento vanno sicuramente ricordati Mutschler e Mittag 2008, Scheidel 2009 e Scheidel 2015 [2].
La comparazione ha offerto notevoli spunti di riflessione, utili alla comprensione delle dinamiche che accompagnarono nascita e infanzia di Roma e Cina imperiali e interessanti in un’ottica storiografica globale, che non limiti il suo campo di ricerca a un solo organismo statale, ma che estenda la portata dell’analisi a una prospettiva più ampia. Utilizzando l’analogia come tramite tra ciò che ben conosciamo e ciò che invece ci è meno noto (Canfora 2010, I) e partendo, dunque, dalla notissima vicenda romana, una possibilità offerta da questo processo conoscitivo è senz’altro stata quella di riuscire a meglio comprendere gli analoghi sviluppi della storia cinese, ancora relativamente poco dibattuti nel nostro paese e spesso tenuti in ombra da una tendenza storiografica tipicamente eurocentrica.
Tuttavia, è legittimo chiedersi se la lente della comparazione si possa applicare anche a un aspetto del tutto peculiare come quello delle titolature imperiali dei due fondatori, che a un primo sguardo appaiono tanto diverse. Sorprendente rilevare, invece, che proprio in quest’ottica già nel 1983 Keith Hopkins e Graham Burton sottolineavano, all’interno di uno studio sul ruolo dell’aristocrazia senatoria sotto gli imperatori romani, come ci fosse una tangenza semantica importante tra il titolo di Augusto – attribuito a Ottaviano nel 27 a.C. – e quello di Qin Shi Huangdi (Hopkins e Burton 1983, 120; ripreso in Bang e Turner 2015, 37-38). L’analisi dei due storici non si addentra nello specifico, avendo scopi differenti [3].
Il mio intento, partendo dalla riflessione proposta all’inizio e prestando attenzione a non incorrere in ovvietà e semplificazioni eccessive, è quello di analizzare puntualmente le vicende che condussero alla formazione delle titolature dei due primi imperatori, delineandone tempistiche e motivazioni. Cercherò poi di sviluppare la comparazione andando oltre la nomenclatura in sé, per ricondurre il discorso su un più ampio piano di analisi, che consideri i titoli come programmatici dell’agire politico dei due fondatori di imperi.
Imp(erator) Caesar divi filius: la titolatura di Ottaviano
fino al 27 a.C.
Prendendo le mosse dalla meglio nota situazione romana, fondamentale sarà distinguere due fasi all’interno del principato augusteo, con spartiacque posto al 27 a.C., anno in cui il princeps riceverà il cognomen di Augustus. Iniziamo dunque con la titolatura che accompagnerà il giovane Ottaviano fino a tale data: Imperator Caesar divi filius.
Non riscontriamo particolari problemi nel comprendere l’utilizzo del titolo Imperator: eredità diretta dell’antica res publica, il termine era solitamente utilizzato per indicare sia il magistrato titolare dell’imperium, sia il generale vittorioso e trionfante (Poma 2009, 155); è ben facile quindi immaginare come Ottaviano, tramite l’utilizzo del titolo, avesse la volontà di reclamare perpetuamente per sé la naturale predisposizione alla vittoria dei Romani e della sua stessa figura (Eck 2010, 51). Oltre a questa connotazione militare, l’imperium è giuridicamente alla base del potere augusteo: non a caso il giorno in cui si celebra l’inauguratio imperii è il 7 gennaio del 43 a.C., data cruciale nella quale il Senato aveva assegnato a Ottaviano il comando della guerra contro Antonio. Il fatto è stato messo in rilievo anche da Gabriella Poma, citando l’iscrizione dell’ara di Narbona con dedica al numen di Augusto (Poma 2009, 157).
È ipotizzabile che, nel sottile disegno politico di Ottaviano, l’assunzione di questo titolo volesse certamente segnare una sorta di continuità con il passato – considerando la posizione di restitutor rei publicae nella quale egli si era posto – ma, al contempo, enfatizzasse strategicamente la funzione di comando di legioni. L’utilizzo di Imperator come prenome, in quella che sembra essere una posizione essa stessa enfatica [4], induce a pensare a una scelta lungimirante: esaltare quel ruolo di comandante vittorioso delle truppe che pare, dal periodo delle guerre civili in avanti, ricoprire un valore sempre maggiore all’interno del panorama dell’Urbe e che rappresenterà un cardine fondamentale del consenso e del potere dell’imperatore. Attribuendo alla persona stessa di Augusto questa virtù immanente, esso diviene elemento del nome che lo individua.
Differente è il discorso quando ci volgiamo al nomen, direttamente connesso con la nascita della nuova famiglia di Ottaviano. Caesar era, fino a quel momento, il cognomen di un ramo della gens Iulia e non vi era alcuna famiglia dei Cesari in senso proprio (Eck 2010, 51). La creazione di questa nuova casata lascia campo all’ipotesi verosimile che nella mente del princeps fosse già ben chiaro un programma dinastico: che senso avrebbe dare i natali a una famiglia se non si pensasse a una discendenza? La politica di adozioni e di associazioni al potere degli anni successivi pare confermare questa tesi e il “gentilizio” Caesar, garante di una successione pianificata, sarà utilizzato da Vespasiano in avanti per designare l’erede al trono (Giorcelli Bersani 2015, 154).
Lo slittamento morfologico del cognomen Caesar a titolo ha rischiato di creare non pochi problemi agli scrittori romani degli anni a venire, tra i quali Tacito: come Velleio Patercolo prima di lui, lo storico risolve la possibile ambiguità aggiungendo il nome personale (Nerone, Tiberio, Claudio, ecc.) prima di Caesar, che è dunque ormai sentito a pieno diritto come un titolo. Operazione non scontata, se prendiamo in esame, per esempio, gli scritti di Cicerone, dove Caesar non è ancora percepito dai contemporanei in quanto titolo e viene utilizzato esclusivamente come cognomen sia per Cesare che per Augusto, eventualmente anticipato da specificazioni quali, rispettivamente, pater o adulescens (Rubincam 1992). Penso, pertanto, che lo sviluppo diacronico del termine Caesar, sia in quanto utilizzo, sia in quanto percezione nei contemporanei, provi come da Augusto in avanti il cognomen sia divenuto titolo legato a un’idea di continuità dinastica della famiglia del princeps.
In chiusura, non mi dilungherò eccessivamente sull’appellativo divi filius, chiaramente riferito al legame adottivo di discendenza del nostro con Giulio Cesare. Come noto, il Senato aveva stabilito nel 42 a.C. che il “martire” delle idi di marzo diventasse Divus Iulius, e ne aveva ben donde, dal momento che la sua anima, nella forma di stella crinita, aveva sorvolato il cielo dell’Urbe durante i giochi in suo onore del luglio del 44 a.C. (Svetonio, Vita di Cesare, 88). La decisione dei senatori, dunque, rende legittimamente Ottaviano, adottato dal dictator, figlio di un dio [5].
La svolta del 27 a.C.: Imperator Caesar Augustus
Affidandoci alle parole di Svetonio, siamo indotti a pensare che a Roma tra il 29 e il 27 a.C.4 fosse in atto un dibattito vivacissimo riguardo la scelta del soprannome da attribuire a Ottaviano:
Postea Gai Caesaris et deinde Augusti cognomen assumpsit, alterum testamento maioris auunculi, alterum Munati Planci sententia, cum quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praeualuisset, ut Augustus potius uocaretur, non tantum nouo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicantur, ab auctu uel ab auium gestu gustuue sicut etiam Ennius docet scribens: “Augusto augurio postquam incluta condita Roma est” [6].
La soluzione adottata, proposta da Munazio Planco – probabilmente non del tutto sua sponte (Eck 2010, 51) – è centrale nell’idea che il princeps avrebbe avuto intenzione di dare di sé e, parimenti, tattica nel mantenere lontano dal Senato il sospetto di una possibile analogia pericolosa con il primo re di Roma: Romolo era un monarca in senso letterale e sarebbe stato un azzardo presentarsi di fronte alla civitas con l’appellativo di chi, con ogni probabilità, rappresentava nell’ideale dei Romani l’immagine stessa della monarchia. Questo argomento è stato sostenuto in modo particolare da Werner Eck in relazione alla tradizione riportata da Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, II, 56, 3-4) e Plutarco (Vita di Romolo, 27, 6) [7], secondo i quali i patres conscripti misero fine con una violenza inaudita alla vita di Romolo a causa della sua tendenza tirannica.
Nondimeno, si doveva considerare anche l’illustre precedente: Cesare stesso, come un nuovo Romolo, aveva visto la fine violenta dei suoi giorni proprio per l’azione di un gruppo di congiurati, spaventati dall’idea del tramonto della res publica. I tempi non erano maturi per scuotere nuovamente le fondamenta dello Stato e, almeno formalmente, Ottaviano e la sua cerchia dovevano muoversi in maniera cauta, evitando di compiere gli errori politici di Cesare e di fregiarsi di titoli che avrebbero provocato il panico nei più accesi partigiani della repubblica; bisognava trovare un giusto compromesso che, effettivamente, non tardò ad arrivare, secondo le parole dello stesso Augusto nelle sue Res gestae:
In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinxeram, per consensum universorum potitus rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. 2. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque civica super ianuam meam fixa est et clupeus aureus in curia Iulia positus, quem mihi senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque iustitiae et pietatis causa testatum est per eius clupei inscriptionem [8].
La celebre seduta del Senato svoltasi il 16 gennaio del 27 a.C. rappresenta un punto di svolta cruciale nella storia dell’intero principato augusteo [9] ed è uno snodo nevralgico nell’analisi della nomenclatura imperiale. È quella la circostanza in cui, come lascia scritto Ottaviano stesso, il Senato decide di insignire il princeps dell’appellativo di Augustus, completante i tria nomina adottati da ogni imperatore nei secoli a venire: Imperator Caesar Augustus [10].
Ma chi è per i Romani l’Augustus? Il termine – e la figura che implicitamente a esso viene a collegarsi – si presenta come una novità assoluta nel panorama dell’Urbe. Parliamo infatti di una titolatura mai utilizzata prima, tramite cui – quale che sia l’effettiva origine etimologica, ancora assai discussa – il princeps si lega alla sfera del sacro. Si constata che la sua auctoritas [11] gli consente di detenere un potere eccezionale ed egli è possessore di una forza sacra senza eguali, che predispone a buoni esiti le azioni che deciderà di intraprendere (Jacques e Scheid 1992, 23; Levi 1992).
La maggior parte della storiografia moderna ritiene che la sistemazione sia politicamente brillante: questa mossa eleva Ottaviano a una condizione di eccezionalità – discrimine netto rispetto a tutti gli altri cives – ponendolo sì in contatto con la sfera del sacro, ma prestando massima attenzione a non divinizzarlo (quantomeno non hic et nunc, come vedremo), fatto che avrebbe ovviamente inasprito gli animi dei repubblicani. Contemporaneamente, la novità assoluta del titolo rendeva il cognomen in un certo senso “innocuo” (Eck 2010, 51), poiché non collegabile con precedenti derive autocratiche e quindi, nella sua essenza, privo di allusioni a ideali strettamente monarchici o assolutistici.
In ultima istanza, è bene tenere a mente un duplice aspetto della vicenda. Da un lato, fino a che Augusto rimase in vita, i tria nomina erano e appunto rimasero nomi, per passare lentamente a titolatura vera e propria solo dopo la sua morte. Dall’altro, è di cruciale importanza considerare come l’utilizzo di questi elementi onomastici passi dalla sfera d’autonomia del diritto privato a una realtà pubblica, generando un’identificazione tra potere imperiale e titoli. Questo atto sancisce, per così dire, la conclusione della metamorfosi della posizione politica del princeps, unica e preminente dal 27 a.C. in avanti.
Comandante di eserciti, generale vittorioso, figlio del divino Cesare e fondatore di una sua famiglia; elevato, possessore di auctoritas eccelsa, primo tra gli uomini e dotato di una sfera di sacralità che rendeva gloriose le sue azioni: la titolatura di Ottaviano non potrebbe essere una dichiarazione programmatica più esplicita dell’eccezionalità di questa figura all’interno della ormai tramontata res publica.
La tribunicia potestas e il ruolo di pontifex maximus
Propongo l’analisi di una fonte epigrafica risalente all’undicesimo anno di consolato del nostro, come testimonianza di una visione d’insieme della titolatura augustea.
Acquisita la tribunicia potestas nel 23 a.C. e assunta la carica di pontifex maximus nel 12 a.C., a seguito della morte dell’ex triumviro Marco Emilio Lepido (al quale nemmeno la smodata smania di titoli di Augusto aveva osato togliere il pontificato, essendo fondamentalmente l’unica onorificenza rimasta al meno blasonato dei tre triumviri), la summa dei poteri del princeps sarà sostanzialmente ai massimi storici.
Troviamo l’epigrafe in questione incisa su un obelisco di origine egiziana, posto prima nel Circo Massimo e ora collocato in Piazza del Popolo a Roma; il testo si data al 10 a.C. e, nella forma di una dedica al Sol divinizzato, celebra la conquista dell’Egitto:
Imp(erator) Caesar Divi f(ilius) / Augustus, / pontifex maximus / imp(erator) XII, co(n)s(ul) XI, trib(unicia) pot(estate) XIV, Aegupto (!) in potestatem / populi Romani redacta / [S]oli donum dedit [12].
Già nel 36 a.C. Ottaviano aveva ricevuto le prerogative dei tribuni della plebe; l’assunzione a vita della tribunicia potestas, che insieme al comando sulle legioni rappresenta l’essenza strategica del potere imperiale, concluderà questo percorso, portando il nostro a ottenere i poteri di stampo repubblicano legati al tribunato (sacrosanctitas intercessio e ius auxilii), senza ricoprirne specificatamente la magistratura.
L’assunzione della carica di pontifex maximus è una prova aggiuntiva della posizione extra ordinem ricoperta dal princeps. Tutta la carriera politica di Augusto fu, infatti, sempre legittimata dal sacro, come dimostra il fatto che egli rivestì ogni singolo sacerdozio maggiore dello stato romano: augure, quindecemviro, septemvir epulonum, arvale, feziale, sodalis Titius. Il pontificato massimo agisce come collante per legare ulteriormente il princeps alla sfera religiosa, quasi a farne un mediatore tra dei e uomini, sovraintendente massimo del corretto svolgimento dei riti garanti di pace e concordia tra cielo e terra [13].
Anche la celebrazione della presa in carica del titolo è strategica. Augusto, proseguendo nella ormai esemplare politica del compromesso con le vecchie tradizioni repubblicane, rinnovò infatti un vecchio sacerdozio caro alla res publica, con la nomina di un nuovo flamen Dialis. L’ultimo, Lucio Cornelio Merula, era morto suicida nell’87 a.C. [14] e da quel momento in avanti il flaminato era andato in disuso (Eck 2010, 65).
Ottaviano continua ad accumulare cariche e poteri ordinari sulla sua persona – divenuta assolutamente straordinaria – e al contempo fornisce soluzioni accomodanti ma sostanzialmente vuote di potere, utili nel tenere ben saldo il giogo posto allo spirito dei tanti fautori repubblicani suoi contemporanei.
La vicenda è un icastico emblema del disegno politico del nostro che, prendendo in prestito le parole di Luciano Canfora, vuole “coniugare conservazione e rivoluzione, dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una cornice salda di conservazione” (Canfora 2015, 6).
2 a.C.: Ottaviano è pater patriae
Tertium dec[i]mum consulatu[m cum gereba]m, sena[tus et e]quester ordo populusq[ue] Romanus universus [appell]av[it me p]atr[em p]atriae idque in vestibu[lo a]edium mearum inscribendum et in c[u]ria [Iulia e]t in foro Aug(usto) sub quadrigis, quae mihi ex s(enatus) c(onsulto) pos[it]ae [sunt, censuit] [15].
Avviandomi verso la conclusione dell’analisi della titolatura augustea, mi ritaglio un breve spazio per proporre qualche riflessione sul titolo di pater patriae [16], l’ultimo assunto in vita da Augusto, testimoniato dallo stesso a chiusura del suo resoconto testamentario.
La scelta di esaminare questo appellativo nella parte finale della trattazione riguardante la titolatura augustea non è certamente giudizio di valore: il solo fatto che il racconto di come fu insignito di tale onore venga posto a chiusa delle Res Gestae è sintomatico della grande importanza che esso rivestiva per il princeps (Eck 2010, 66). La mia decisione è meramente cronologica: i fatti legati a questo titolo risalgono al 2 a.C., data posteriore agli avvenimenti precedentemente discussi.
Effettivamente, la nomina sancisce e legittima il compimento del vittorioso processo che stava lentamente portando a una vera e propria venerazione di Augusto, ora anche padre e protettore della patria (Jacques e Scheid 1992, 57-58), oltre che comandante vittorioso, restitutor rei publicae, princeps, figlio del divino Cesare e tutto lo sterminato novero di cariche e onori che era riuscito ad accumulare sulla sua persona.
Interessante notare come, analogamente a ciò che era successo per la quasi totalità dei titoli e delle magistrature ricoperte [17], anche pater patriae è eredità della tradizione repubblicana e, ancor prima, monarchica. Secondo quanto riportato da Livio, il primo a essere insignito di questa onorificenza fu, con poca sorpresa, Romolo in persona [18], seguito poi dal dittatore Marco Furio Camillo, omaggiato del titolo nel 386 a.C., dopo aver liberato l’Urbe dai Galli Senoni di Brenno [19].
Questo breve excursus, sia pure di vicende ben note, credo possa aver definito in quale tradizione si apprestava a inserirsi Augusto con l’assunzione del titolo. Infatti, quel conditor alter urbis, riferito a Furio Camillo, pare esplicativo del fatto che il pater patriae è una figura di massimo rilievo all’interno dello stato romano; un individuo che, insieme con Romolo, urbis et imperii conditor, condivide lo statuto eccezionale di padre di tutti i cittadini romani, ottenuto grazie ad azioni talmente gloriose da essere considerate al pari di una fondazione ex novo.
In quello che possiamo definire “stile augusteo” – cioè lo strategico incedere in un cambiamento moderato, sempre attento all’integrità della continuità apparente e del rispetto assoluto della tradizione – il princeps, dopo venticinque anni, viene infine avvicinato a quella figura romulea di fondatore dalla quale in precedenza si era ritenuto saggio che tenesse le distanze [20]. Erano tempi più maturi? Non si temeva più una caduta autoritaria, un ritorno monarchico, dal momento che il restitutor rei publicae aveva già dato prova di muoversi sulla strada della continuità? Oppure ci si rendeva infine conto che il dado era già tratto, il cambiamento era già effettivamente in essere e non si temeva più di renderlo manifesto? Sono interrogativi ai quali, credo sia difficilissimo trovare una risposta univoca. In ogni caso, è noto che da quel momento in avanti tutti i successori del nostro (fatta eccezione per Tiberio, per gli imperatori del 68-69 d.C. e per i Flavi) ereditarono e portarono questo titolo (Jacques e Scheid 1992, 58). Ma non voglio dilungarmi oltre e perdere il focus di questo contributo, incentrato sulla titolatura dei primi Augusti imperatori. E non sarà fuori luogo il plurale, poiché anche la storia cinese reclama a pieno diritto il suo Augusto.
Primo Augusto Imperatore dei Qin
Cina, 221 a.C.: Ying Zheng, leader dello stato di Qin, ha appena unificato il tianxia [21], dopo aver sottomesso gli altri stati feudali, in cui era divisa la Cina antica, e posto fine al cosiddetto periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.).
Come primo atto da nuovo governante dell’impero, non essendo intenzionato a mantenere il titolo di wang, tradizionalmente spettante al regnante, il re di Qin decide di rompere categoricamente con il passato a lui prossimo e modificare la morfologia della nomenclatura del potere (Bodde 1938, 53; Puett 2001, 142).
La fonte privilegiata per ripercorrere la narrazione degli avvenimenti è lo Shiji dello storico Sima Qian (145-86 a.C. ca.) [22]. Lo studioso, vissuto ai tempi della dinastia Han, che successe direttamente ai Qin, ma che si oppose fortemente (almeno negli intenti) agli stilemi di governo dei predecessori, non fu certamente un sostenitore dell’opera di Ying Zheng; ciononostante, la sua cronaca risulta utile per la comprensione dei fatti che seguiremo.
Specularmente ai discorsi romani intorno alla titolatura da attribuire ad Augusto, anche alla corte cinese, in anticipo di un paio di secoli rispetto al caso dell’Urbe, si discusse riguardo la nomenclatura che meglio avrebbe rappresentato il potere dell’imperatore:
With my own insignificant person I have raised troops to punish violence and chaos and, with the support of the sacred power of the ancestral temples, the six kings have all admitted their crimes, and order is magnificently restored in all under Heaven. Now if the title is not changed there will be no means of praising these achievements and transmitting them to later generations. You are to discuss the imperial title (Sima Qian, Shiji, 62, trad. Dawson).
A parlare è Ying Zheng in persona che, riassunti brevemente gli antefatti [23], ordina al Gran Consigliere e al Gran Censore [24] – suoi interlocutori nel brano riportato – di trovare un’adeguata sistemazione al problema del titolo imperiale. A ragione possiamo parlare di una situazione problematica, perché, esattamente come per ciò che riguarderà Ottaviano, non si riscontrano precedenti storici adeguati sui quali modellare la titolatura.
Nonostante la figura del “True Monarch” fosse stata già ben teorizzata da Xunzi (310-230 a.C.), uno dei pensatori più brillanti e influenti del periodo degli Stati Combattenti [25], il dominio del Primo Imperatore della Cina è senza eguali e il suo potere non è paragonabile a nessuno dei sovrani del passato [26], fatto che rende il semplice titolo di wang non più soddisfacente: serve una soluzione che renda onore alla sua persona, dia lustro alla sua grandezza ed esprima compiutamente il suo nuovo status di monarca unico (Bodde 1938, 53).
Dopo un’attenta analisi storica, valutata la posizione unica del Primo Imperatore, unificatore e portatore di pace in ogni provincia e distretto – pace che, effettivamente, sembra avvicinarsi molto al concetto di ubi solitudinem faciunt, pacem appellant di tacitiana memoria (Agricola, 30) – con la reverenza che si riserva a una divinità, i funzionari avanzano la loro proposta:
Your servants have carefully discussed this with the scholars of broad learning and, as in antiquity there was the Heavenly August, the Earthly August, and the Supreme August, and the Supreme August was the most highly honoured, so your servants, risking death, submit a venerable title, and propose that the King should become “the Supreme August”.» […] The King said: «Omit the word “supreme” and write “august” and pick out the title of “emperor” used from remote antiquity, so that the title will be “August Emperor”. The rest shall be as you suggest (Sima Qian, Shiji, 62, trad. Dawson).
Per una miglior comprensione del passo abbandoniamo lo Shiji nella traduzione inglese e analizziamo direttamente il lessico cinese, illuminante nel qualificare la dinamica di cambiamento riscontrabile con la scelta del nuovo titolo reale.
Il termine con cui comunemente viene tradotto huangdi è, infatti, semplicemente “Imperatore” o, nella più altisonante delle ipotesi, come nel caso del testo sopra riportato, “Augusto Imperatore”, che peraltro risulta forse riduttivo nel comprendere la complessità semantica dell’originale. Per fornire un quadro quanto più possibile completo delle traduzioni della titolatura, riporto anche il titolo di “Thearch”, per la verità ricordato solo in Portal 2007, 21 [27].
Si consideri, in sede preliminare, il fatto che Huangdi era anche uno dei nomi personali con cui si identificava l’Imperatore Giallo (colui che secondo la leggenda creò nell’antichità le istituzioni statali della Cina) e rappresentava un probabile richiamo diretto per Ying Zheng nella sua narrazione propagandistica, come analizzato brillantemente da Maurizio Scarpari (Scarpari 2011, 170). In merito a ciò, credo sia importante puntualizzare che nella storia cinese, oltre alla figura leggendaria dell’Imperatore Giallo, altri sovrani del passato – con caratteristiche più o meno divine – vengono definiti, spesso impropriamente, “imperatori” (Loewe 2007, 50); tuttavia, nessuno di questi antecedenti illustri può essere paragonato alla persona di Qin Shi Huangdi che, come vedremo, crea ex novo una figura inedita nello scenario storico cinese. Ma procediamo con ordine e, per chiarezza di analisi, dividiamo la parola nelle due parti costituenti: huang e di.
Huangdi
Il termine huang, nelle traduzioni inglesi reso con “shining” o “splendid” (Lewis 2007, 52), sin dagli albori della civiltà cinese era stato impiegato per rendere onore ai propri antenati e alle divinità più eccelse del pantheon sinico. Huangtian era l’Augusto Cielo, Huangdi, l’Augusto Di, differenziato dall’Imperatore Giallo tramite l’utilizzo di caratteri diversi (Scarpari 2011, 170). Il termine è presente anche nel titolo dei san huang, i Tre Sublimi, creatori divini della civiltà e del mondo mitologico cinese (Vogelsang 2014, 107): il timore di risultare eccessivamente altisonante e pomposo, fregiandosi di un tale appellativo, pare non fosse presente nei pensieri di Ying Zheng.
Di caratura niente affatto minore, il titolo di non attenuava la carica semantica del maestoso apparato che si stava creando intorno alla figura dell’imperatore. Presso la dinastia Shang (ca. 1600-1045 a.C.) [28] – la prima ad aver creato uno stato dominante nella parte centrale della valle del Fiume Giallo – Di era inizialmente la suprema divinità. Negli anni finali degli Shang notiamo come il termine passi a identificare gli ultimi due re della dinastia, quasi come se, in questa civiltà antichissima, si apprezzasse un passaggio di testimone nella detenzione del potere [29] dalla sfera celeste alla figura del sovrano (Vogelsang 2014, 34).
Durante il periodo degli Stati Combattenti, il termine di verrà poi utilizzato per connotare i caratteri sovrannaturali dei “culture-hero sages” che si riteneva avessero creato la civiltà umana.
Da ultimo, proprio nella religione dei Qin, di fu il nome con cui vennero chiamate le quattro somme divinità (Lewis 2007, 52). Qualunque fosse tra questi il riferimento al quale si ispirava, il Primo Imperatore andava a inserirsi o nel novero degli antichi antenati sovrani, mistici eroi dai poteri sovraumani, o direttamente nella schiera degli dèi.
Sarà poi l’azione di Ying Zheng ad attribuire al lemma di, oltre al valore sacrale già intrinsecamente presente, una forte connotazione politica, simbologia programmatica di un “human political achievement which to him and probably to his subjects must have seemed almost superhuman” (Bodde 1938, 54).
Tra sacro e rapporto con il passato: prime comparazioni
Dopo questi paragrafi iniziali, credo possa essere utile puntualizzare le differenze sostanziali e porre i primi distinguo tra gli organismi passati alla lente di ingrandimento, dal momento che anche ricercare e sottolineare le differenze è un’attività proficua all’interno di una comparazione strutturata (Marcone 2016).
Con un’espressione che potrebbe sembrare ardita, definirei Ottaviano un “Augusto del compromesso”. Il titolo Augustus, nel caso romano, sanciva sì lo straordinario carisma e il ruolo unico del princeps, ma prestava comunque massima attenzione a non scomodare rimandi a personaggi dichiaratamente autocratici (sic et simpliciter, Romolo e Cesare): la soluzione, strategica nella sua lungimiranza, si rivelò politicamente accomodante.
La corte cinese, all’opposto, pone al centro del processo di formazione della titolatura proprio questi rimandi a precedenti divini e illustri, giungendo a una conclusione terminologica parsa simile agli studiosi – con il termine “augusto” che, effettivamente, ricorre spesso nelle traduzioni moderne – ma percorrendo una strada quasi antitetica. Da un lato abbiamo un attaccamento alle tradizioni repubblicane di Roma che vuole tenersi, almeno nella facciata, ben lontana da un ritorno alle origini della monarchia e del suo mitico fondatore, decidendo di omaggiare con il titolo augusteo il restitutor rei publicae. Dall’altro ci troviamo di fronte a Ying Zheng, deliberato perseguitore di una politica di rottura con la tradizione a lui prossima (Sabattini e Santangelo 2005, 117) e desideroso di ricollegarsi proprio a quelle origini – sospese tra il mito, la storia e la leggenda – da cui la controparte mediterranea rifugge con decisione.
Sul piano delle analogie, significativa è la modalità con cui la titolatura definisce il rapporto dei nostri con il divino e il sovraumano [30]. Il cognomen Augusto lega sicuramente Ottaviano al sacro, alla dimensione augurale e a un potere quasi mistico che lo rende capace di portare a termine felicemente le sue imprese e di rendersi mediatore tra il divino e l’umano, grazie alle virtù sovraumane possedute (Jacques e Scheid 1992, 59). Nonostante ciò, i titoli non conferiscono al princeps – teoricamente, almeno – la possibilità diretta di annoverarsi tra le divinità (e suppongo che nemmeno l’avrebbe voluta, viste le preoccupazioni di derive dispotiche già argomentate): egli è infatti divi filius, figlio del divino Cesare (vedi supra), ma mai sulla carta divino in prima persona, fintanto che sarà in vita e almeno per ciò che concerne la città di Roma.
La specificazione geografica è, infatti, più che mai necessaria, causa la notevolissima ambiguità legata al lemma augustus – e alla figura che a esso si collega – che in greco trova la sua traduzione nell’aggettivo sebastòs, “il venerabile”, storicamente utilizzato in Oriente per indicare le divinità. Nelle province orientali, infatti, Augusto si porrà già in vita come un dio e come tale sarà venerato (Poma 2009, 160; Yakobson 2014, 286), mostrando un doppio volto che meriterebbe molto più spazio di quello qui a nostra disposizione. Mi limiterò a ricordare sinteticamente che il culto di un uomo ancora vivente non era una novità per i provinciali; già in età repubblicana è documentata la prassi di culti tesi a rafforzare la lealtà e il supporto reciproco tra la classe dirigente romana e le aristocrazie locali, quasi fossero accordi diplomatici tra le due parti per mantenere l’ordine costituito (Jaczynowska 1985; Fishwick 1987, 46-55; Gradel 2002). Venivano venerati benefattori o uomini influenti del ceto senatorio e spesso il loro culto era associato a quello di una città o di una divinità; in ciò, dunque, Ottaviano eredita e riutilizza uno schema ben noto, quando nel 29 a.C. autorizza a Pergamo la sua venerazione in associazione a quella della dea Roma (Bowersock 1965, 112-116; Fishwick 1987, 48-51; Yakobson 2014, 291).
A onor del vero, dobbiamo ricordare che fu comunque escogitato anche nell’Urbe uno stratagemma per rendere il princeps oggetto di devozione da parte del popolo. Durante i Compitalia [31] la plebe romana e gli abitanti dei municipi [32] veneravano non la persona vivente di Augusto ma il suo Genius, il suo spirito protettore, insieme ai suoi Lari. In questa forma indiretta – congiuntamente al culto praticato nelle province orientali della sua persona associata alla dea Roma, come visto – si stava creando una vera e propria ideologia religiosa del principato, iscritta a pieno titolo in un programma di definizione del potere imperiale (Jacques e Scheid 1992, 60; Poma 2009, 160). La definitiva consacrazione al mondo celestiale avverrà solo post mortem, quando, celebrati i suoi funerali, il Senato concesse a Ottaviano il titolo di divus, atto cruciale nella legittimazione della pratica devozionale in prima persona anche all’interno del pomerio (Eck 2010, 125).
Parimenti, il suo alter ego cinese, come abbiamo già sottolineato, fa sfoggio di un nome che lo investe di prerogative divine e poteri sovraumani, come la capacità di accedere al mondo degli spiriti e del sovrannaturale senza mediazione alcuna da parte degli antenati, ai quali normalmente spettava questo compito (Scarpari 2011, 172); nonostante ciò, rimane un forte dubbio sulla sua figura. La tendenza all’elevazione celeste e a un’eventuale divinizzazione dopo la morte non pare discutibile; tuttavia, studiosi del calibro di Michael Puett concordano nel dire che Qin Shi Huangdi non possa essere considerato propriamente come un dio, ma solo come un uomo annoverato nella schiera dei grandi saggi del passato (Puett 2001, 142). Il rovescio della medaglia è messo in luce da Mark Edward Lewis, altro caposaldo negli studi sinici, che ritiene che il ruolo di monarca semi-divinizzato, incaricato dalle forze celestiali di agire in loro nome al fine di unificare e dominare il tianxia, sia l’immagine che renda al meglio la posizione del nostro rispetto al divino (Lewis 2007, 51-52).
Osservando entrambe le due figure dei primi imperatori, sebbene si possano notare i prodromi di una divinizzazione possibile e plausibile, ci si trova di fronte a un imbarazzo sostanziale che porta a non riuscire a definire tipologia e rilevanza delle caratteristiche divine in vita. Quello con il sacro è un rapporto incerto, che nel caso romano verrà prontamente chiarito alla morte di Augusto, tramite l’ingresso del princeps nel mondo celeste. Non andrà incontro a simile fortuna Qin Shi Huangdi, rinnegato dalla dinastia Han e vittima di un processo assimilabile a una damnatio memoriae: la sua tendenza, già apprezzabile in vita, a elevarsi dalla mera condizione di uomo, indurrà i suoi successori a relegarlo in un limbo eterno.
Un elemento di tangenza certa e significativa tra Qin Shi Huangdi e Ottaviano è quella forza morale, quell’incredibile carisma che permea entrambi gli Augusti, sancita inevitabilmente dall’adozione di questo titolo (Scarpari 2011, 172). La differenza risiede però nel fatto che l’auctoritas augustea – illuminante a riguardo l’espressione “post id tempus auctoritate omnibus praestiti” (Res Gestae, 13; 30, 1), autografo del diretto interessato – assume, oltre al carattere sacrale dibattuto, un connotato squisitamente politico, legato a una capacità di agire che mette Ottaviano in una posizione di forza rispetto agli altri magistrati e ne giustifica la preminenza morale. Il cambiamento verso la prevaricazione totale dell’uno sul governo oligarchico – inesorabilmente iniziato da Silla, già secondo il parere di Montesquieu [33] – era giunto al suo punto apicale.
Sull’altro versante, il carisma eccelso di Qin Shi Huangdi è una capacità ancor più totale di dialogare e ordinare non solo il tianxia, non solo l’umanità intera, ma qualsiasi cosa nell’universo, materiale e no. Implicitamente e intrinsecamente superiore a qualsiasi altro funzionario imperiale, egli è in totale sintonia con le potenze divine che ne supportano l’operato, come ben testimoniato da una stele datata 218 a.C. [34] e collocata sulla cima orientale del monte Zhifu:
L’Augusto imperatore, con il suo illuminato carisma, / allinea e ordina ogni cosa nell’universo; / guarda e ascolta senza posa, / crea e fissa i principi etici rilevanti cui attenersi (Sima Qian, Shiji, 172, trad. Scarpari 2011).
Programmi dinastici: il titolo shi e la strategia augustea
L’ultima tessera, necessaria per il completamento del grandioso mosaico propagandistico della titolatura imperiale cinese, viene collocata con il carattere shi, “inizio”. Il termine, che parrebbe facilmente archiviabile in sede di analisi, in realtà è fondamentale per comprendere pienamente l’idea che Ying Zheng voleva trasmettere ai sudditi e, soprattutto, ai posteri.
Rifacendosi direttamente allo Shijing o Libro delle Odi – la più antica raccolta poetica cinese di cui siamo a conoscenza – emerge un concetto chiaro: shi è un inizio corretto, un inizio intrapreso dalla capacità riformatrice del sovrano illuminato, capace di sottomettere tutti i rivali e di inaugurare un nuovo periodo di pace e ordine. Non solo: la semantica di “inizio” è indissolubilmente legata alla volontà di creare una discendenza lunga e gloriosa, destinata a regnare a seguito della morte del primo Huangdi; risulta dunque chiaro un programma dinastico che lega inevitabilmente l’avvenire alle generazioni che seguiranno l’imperatore, senza soluzione di continuità (Puett 2001, 143):
We are the first August Emperor and later generations will be numbered in accordance with this system, Second Generation, Third Generation, right down to Ten Thousandth Generation, and this tradition will continue without end (Sima Qian, Shiji, 63, trad. Dawson).
In accordo con il pensiero espresso da Scarpari, credo che il vero scopo dell’utilizzo del carattere shi risiedesse in uno slittamento o, meglio, in un ampliamento della sfera di competenza del Primo Imperatore (Scarpari 2011, 170-172). Il termine Huangdi, espressione di un potere quasi immateriale e fortemente legato al divino, veniva completato da una componente prettamente terrena che stabiliva un legame dinastico di discendenza: la progenie di Qin Shi Huangdi avrebbe inevitabilmente governato sul tianxia da quel momento in avanti. Beninteso: nessun suddito cinese avrebbe avuto il benché minimo dubbio sull’effettiva condizione di preminenza del sovrano – anche fosse stata omessa la precisazione formale fornita dal lemma shi – ma, per fugare qualsiasi tipo di possibile fraintendimento, si puntualizza che la potenza assoluta del Primo Imperatore è anche di questo mondo e verrà trasmessa alle diecimila generazioni che governeranno la Cina con la stessa autorità del nostro.
A supporto di quanto appena riportato, troviamo una testimonianza rilevante nel testo inciso in un’altra stele di epoca Qin, il cui contenuto viene riportato nella sezione Gli Annali di Qin della narrazione di Sima Qian: “His influence will last to all eternity, and the decrees he bequeaths will be revered, and his grave admonitions will be inherited for ever” (Sima Qian, Shiji, 66, trad. Dawson): il fatto che poi, nel concreto, la dinastia Qin non abbia superato la seconda generazione rappresenta una delle note più singolari della storia cinese.
Se il caso sinico presenta un programma dinastico già ben evidente nella titolatura imperiale, dinamiche non ugualmente cristalline si configurano nel quadro dell’Urbe [35].
Presumibilmente Ottaviano aveva già in mente una successione, ben testimoniata dalle adozioni di Lucio e Caio Cesare prima, di Tiberio e Marco Vipsanio Agrippa Postumo poi, come si riscontra dalla narrazione di Svetonio (Vita di Augusto, 64-65). Tuttavia, questo programma, che pur pare manifesto dai comportamenti del princeps riportati da Svetonio e che trova una sua conferma anche nella numismatica [36], manca di un riscontro effettivo nella titolatura. Almeno due, a mio avviso, le ragioni per spiegare questa assenza.
La prima, di carattere squisitamente cronologico, risiede nelle contingenze della tempistica: la titolatura fu infatti ideata precedentemente alle adozioni considerate. La seconda, più affascinante nell’ottica di una comprensione dell’ideologia del princeps, potrebbe essere ricondotta ancora una volta alla natura ambigua del potere di Ottaviano, aspetto più volte richiamato in questo lavoro. Egli è certamente il princeps, il primo, ma è parimenti un primus tra pares ancora saldamente ancorati alla vecchia res publica, soprattutto se ci riferiamo agli albori del principato. Sottolineare con troppa evidenza la previsione di una successione certa sarebbe stato un elemento ulteriormente rimarcante il tramonto della res publica e il passaggio dell’orbis terrarum nelle mani del solo Augusto.
Nondimeno, non sembra possibile assimilare il concetto di inizio – rappresentato nella controparte cinese dal lemma shi – alla titolatura augustea: Ottaviano, come noto, fu insignito del titolo onorifico di Augustus proprio per aver restaurato la preesistente repubblica, non di certo per aver dato i natali a un nuovo regime. Il cambiamento di tipologia di governo non fu mai esplicitamente ammesso dal nostro che agì, anzi, con lungimiranza e strategia e continuò a chiamare res publica quello che, nei fatti, era divenuto un impero a guida monarchica.
Aggiungo una breve nota finale che mette in luce un paradosso. Rispetto alle volontà iniziali, le due vicende si scambieranno tra loro gli esiti auspicati: il sistema statale ideato da Qin Shi Huangdi, sostenitore di un nuovo inizio destinato a durare diecimila generazioni, crollò alla sua morte, rigettando la Cina nel caos della guerra civile. All’opposto, contrariamente al volere della parte più conservatrice del Senato, la lenta evoluzione del principato augusteo segnò un nuovo effettivo inizio nella storia romana: l’organismo imperiale che nacque per opera del princeps e del suo entourage durerà – con le inevitabili evoluzioni e modifiche – fino almeno all’ascesa al trono di Diocleziano e all’ideazione del modello tetrarchico.
Lo zenit: legittimazione e assolutismo
In chiusura vorrei porre l’attenzione sul concetto di legittimazione, che ritengo sia adeguato per completare i ragionamenti iniziati nelle pagine precedenti.
Ottaviano è un princeps che dispone di poteri sicuramente straordinari, se considerati nel loro insieme, ma ordinari, se presi singolarmente. L’esplicitazione di questi è ben riscontrabile nella titolatura, come se egli avesse dovuto dimostrare quali fossero le effettive competenze affidate alla sua persona dal Senato e dal popolo di Roma: comanda le truppe in qualità di imperator, celebra i riti sacri in veste di pontifex, è rivestito di sacrosanctitas, poiché detentore della tribunicia potestas, e così a seguire. È una volontà quasi maniacale da parte di Augusto e dei Romani di qualificare i ruoli di questa figura, effettivamente nuova, ma determinata e legittimata dalle caratteristiche delle vecchie magistrature.
I tria nomina, insieme alle cariche ricoperte, vanno a formare un quadro che complessivamente dà, sì, l’idea di un potere sacrale e carismatico, ma che è al contempo visceralmente politico: Ottaviano ha la facoltà di agire, di comandare, di giudicare, non in quanto sovrano assoluto, ma poiché detentore delle competenze effettive, affidate a lui dal popolo e dal Senato, come ben evidenziato nella titolatura.
Di contro, nei titoli adottati da Ying Zheng non è presente nessuna determinazione specifica di competenze amministrative o politiche. La titolatura imperiale scelta da Qin Shi Huangdi è quella di un monarca di tipo assolutistico, quasi teocratico: dalla ricerca svolta emerge sicuramente l’assunzione di poteri tipicamente divini che nulla hanno a che fare con quelli di un funzionario o di un magistrato statale. Viene da sé che un potere vastissimo e tendente al sovraumano non ha bisogno di alcuna legittimazione politica, né di alcuna facoltà particolare per agire e imporre il proprio volere: è il Cielo a farsi benevolo elargitore della sua potenza, non di certo il popolo o la classe aristocratica (Scarpari 2011, 172).
In riferimento ai titoli, il Primo Augusto Imperatore di Qin si distingue dall’Ottaviano Augusto romano proprio per questa forte e radicata volontà di ostentazione di una posizione monarchica assoluta, simbolo di una rottura definitiva e netta con il passato più prossimo e non necessitante di alcuna legittimazione. Possiamo essere ben sicuri che la titolatura fosse, in tal senso, una preoccupazione primaria di Ying Zheng, dal momento che, dopo la salita al trono, il primo editto emesso dal nostro sarà proprio a riguardo della salvaguardia e della tutela storica dei suoi titoli:
The following edict was issued: «We have heard that in high antiquity there were titles but no posthumous names. In middle antiquity there were titles, but when people died they were provided with posthumous names in accordance with their conduct. If this is so, then it is a case of the son passing judgement on the father and the subject passing judgement on the ruler. This is quite pointless, and We will not adopt this practice in such matters. Henceforward the law on posthumous names is abolished» (Sima Qian, Shiji, 63, trad. Dawson ).
La decisione di passare alla storia come Qin Shi Huangdi pare, dunque, ferma e irrevocabile, ed egli non è in alcun modo intenzionato a lasciare ai posteri la possibilità di modificare il suo nome imperiale, manifesto programmatico del modello di sovrano nato con la sua persona e che dovrà continuare a vivere in eterno: è per questo motivo che la tradizionale pratica di assegnare un nuovo nome al sovrano, dopo la sua morte, verrà abolita.
Ma le dinamiche della Storia risultano, talvolta, davvero beffarde nei confronti di chi ritiene di poter sottomettere il fluire degli eventi al proprio volere. Rappresentative, in tal senso, saranno le fortune (o sfortune) delle due titolature. Ying Zheng, nel suo colossale e autoritario progetto di comando e di discendenza infinita, creò un titolo vero e proprio, imponendo che questo venisse tramandato immutato alle generazioni seguenti la sua dinastia: la costruzione non gli sopravvisse più di qualche decennio [37] e, nondimeno, l’ideale che si legò alla sua figura fu per lo più estremamente negativo, fino almeno alla nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949) (Pines 2014a). Ottaviano, dal canto suo, non si spese nell’ideazione di una titolatura con il desiderio specifico che questa fosse trasmessa alla sua discendenza, anche per la natura stessa di quella, composta da onori e cariche strettamente legati alla sua persona. Tuttavia, il suo operato fu talmente notevole, il suo potere ineguagliabile e la sua influenza così profonda che, concludendo con le parole di Eck, “Tutti i suoi successori si richiamarono a lui, lo propagandarono come un modello, persino quando agirono nei fatti in modo del tutto diverso. Tutti portarono anche il suo nome. Ma proprio per questo se ne perse il carattere di nome proprio e la parola diventò un titolo” (Eck 2010, 126).
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Note
1. Questo saggio è parte di un progetto di ricerca più ampio, iniziato con la tesi di laurea magistrale, che spero possa proseguire con altri studi inerenti all’argomento.
2. Segnalo anche Malinowski 2022, che prende in esame gli stessi problemi di questo articolo, anche se con una prospettiva ben più ampia; ho, tuttavia, potuto visionare il contributo quando il saggio che qui si presenta era già in fase di revisione da parte dei referee esterni. Colgo qui l’occasione per ringraziare i due anonimi revisori per le preziose osservazioni che hanno avanzato e che mi hanno permesso di migliorare il mio lavoro.
3. Il capitolo di cui si parla prende in esame il ruolo dell’aristocrazia senatoria durante il periodo imperiale.
4. Per completezza occorrerà comunque ricordare che il termine imperator – già durante il principato augusteo – appare anche accanto alla menzione della potestà tribunizia e del pontificato massimo, nella seconda parte della titolatura stessa, seguito da un numero che richiama l’idea repubblicana delle acclamazioni imperatorie.
5. Per un approfondimento in merito alla cometa Giulia si veda Ramsey e Lewis Licht 1997; per una visione più prudente sull’uso propagandistico da parte di Ottaviano della cometa Giulia, Pandey 2013.
6. Svetonio, Vita di Augusto, 7: “In seguito assunse il nome di Caio Cesare, e poi il soprannome di Augusto. Il primo, in base al testamento del prozio, l’altro perché, mentre alcuni senatori erano del parere di attribuirgli quello di Romolo, quasi fosse stato il secondo fondatore di Roma, prevalse la proposta di Munazio Planco di chiamarlo invece Augusto, non tanto per attribuirgli un nome che non era mai stato usato prima, quanto per il significato onorifico di quella parola. Infatti si chiamano ‘augusti’ i luoghi resi sacri dalla religione, sia che questa parola derivi da auctus [accrescimento], sia che derivi da avium gestus o da gustus [parole usate, entrambe, per indicare i presagi che gli uccelli danno con il loro volo e il loro cibarsi], come ci ricorda questo verso di Ennio: «Dopo che l’inclita Roma fu eretta con presagio augusto»” (traduzione a cura di F. Dessì).
7. Per recenti contributi che analizzano scrupolosamente le fonti riguardanti la morte di Romolo e la successiva divinizzazione, il rimando è a Casquillo Fumanal 2018 e a Cook 2018, 254-272. Per una visione d’insieme delle fonti in merito e un commento alle stesse, Carandini 2014, 37-83, 330-357 e Gasti 2018.
8. Augusto, Res Gestae, 34, 1-2: “Durante il mio sesto e settimo consolato (28-27 a.C.), dopo aver posto fine alle guerre civili, essendo in possesso del potere assoluto per consenso universale, ho trasferito la repubblica dal mio potere alla libera determinazione del Senato e del popolo romano. 2. E per questo merito sono stato chiamato Augusto per senatoconsulto, gli stipiti della mia casa sono stati decorati con allori per ordine pubblico, sopra la porta della mia casa è stata affissa la corona civica e nella Curia Giulia è stato esposto uno scudo d’oro che il Senato e il popolo romano mi hanno assegnato per il mio valore, la mia clemenza, la mia giustizia e la mia pietà, come attesta l’iscrizione sopra lo scudo” (traduzione a cura di P. Arena, 105).
9. La riconsegna della res publica ai patres conscripti e al popolo, l’ottenimento della corona civica, il successivo senatoconsulto, approvato da una legge, e la divisione dei poteri e delle province che ne scaturì, furono sostanziali nel segnare l’inizio effettivo di un governo imperiale legalmente costituito (Jacques e Scheid 1992, 20-21).
10. Per un approfondimento sul titolo Augustus rimando a Todisco 2007 e Wallace-Hadrill 2016.
11. Termine senz’altro complicato per noi da comprendere, ma che sicuramente possiamo fare risalire alla storia repubblicana, ponendolo in collegamento con l’auctoritas patrum (Poma 2009, 156).
12. CIL VI, 701 = ILS 91a = EDCS 173300843 = EDR 103043: “L’imperatore Cesare Augusto, figlio del divo Cesare, pontefice massimo, acclamato imperator per la dodicesima volta, console per l’undicesima, nella sua quattordicesima potestà tribunizia, avendo ricondotto l’Egitto sotto il potere del popolo romano, diede in dono al Sole” (traduzione a cura di S. Giorcelli Bersani, in Giorcelli Bersani 2015, 154).
13. Sul pontificato di Augusto e sul ruolo di pontifex maximus, due interessanti contributi di approfondimento possono essere Bowersock 1990 e Scheid 1999.
14. Velleio Patercolo, Storia romana, II, 22.
15. Augusto, Res Gestae, 35, 1: “Quando ricoprivo il mio tredicesimo consolato [2 a.C.], il Senato e l’ordine equestre e il popolo romano nella sua totalità mi hanno conferito il titolo di padre della patria e hanno decretato che questo titolo fosse iscritto nel vestibolo della mia casa, nella Curia Giulia e nel Foro Augusto sotto la quadriga, che vi è stata posta in mio onore per senatoconsulto” (traduzione a cura di P. Arena, 114).
16. Per un approfondimento sul titolo di pater patriae rimando a studi che sono stati centrali per la realizzazione di questo articolo: Stevenson 2009, Starr 2010 e Strothmann 2000.
17. L’eccezione è rappresentata, come visto, dall’appellativo Augustus, novità assoluta nel panorama romano.
18. Livio, Storia di Roma, I, 16, 3: “Deinde a paucis initio facto, deum deo natum, regem parentemque urbis Romanae saluere uniuersi Romulum iubent; pacem praecibus exposcunt, uti volens propitius suam semper sospitet progeniem”. [anche qui suggerisco di usare “v” al posto di “u” in “universi”, dato che comunque c’è nel caso di “volens”] “Poi, per iniziativa di pochi, tutti quanti salutano Romolo come un dio nato da un dio, re e padre della città di Roma; invocano il suo favore, pregandolo di proteggere sempre benevolo e propizio la loro stirpe” (traduzione a cura di M. Scandola).
19. Livio, Storia di Roma, V, 49, 7: “Dictator recuperata ex hostibus patria triumphans in urbem redit, interque iocos militares, quos inconditos iaciunt, Romulus ac parens patriae conditorque alter urbis haud uanis laudibus appellabatur”. “Il dittatore, ripresa la patria ai nemici, tornò nell’Urbe in trionfo e, tra i rozzi motteggi che i soldati sono soliti lanciare, era chiamato con lode non immeritata Romolo, padre della patria, secondo fondatore dell’Urbe” (traduzione a cura di M. Scandola).
20. Il dibattito sul cognomen era infatti terminato con la scelta del nuovo e innocuo Augustus, come discusso in precedenza.
21. Letteralmente “Tutto ciò che vi è sotto il Cielo”; potremmo assimilare il concetto di tianxia a quello di “ecumene” nella storia dell’Occidente classico.
22. Per un approfondimento in merito alla vita e all’opera di Sima Qian rimando a Sui-Yuen Sun e Martin 2008, 1-28; il volume è curato in italiano da Monica Berti.
23. La vicenda è riportata interamente nella narrazione di Sima Qian, per cui il rimando è a Sima Qian, Shiji, 62-63, trad. Dawson.
24. Gran Consigliere, Gran Maresciallo e Gran Censore, i cosiddetti Tre Duchi, sono le tre figure chiamate a reggere il governo a livello centrale, veri e propri pilastri dell’amministrazione dell’impero Qin (Sabattini e Santangelo 2005, 132).
25. Per l’analisi del pensiero di Xunzi riguardo alla figura del monarca, vedi Pines 2014b, 259-273.
26. Sima Qian, Shiji, 62: “Now Your Majesty has raised a righteous army to punish the oppressors and bring peace and order to all under Heaven, so that everywhere within the seas has become our provinces and districts and the laws and ordinances have as a result become unified. This is something which has never once existed from remote antiquity onwards, and which the five Emperors did not attain”, trad. Dawson.
27. Il titolo di “Tearch”, che in italiano può essere reso con “teocrate, governatore di una teocrazia”, si riferisce a figure mitologiche e leggendarie, i Cinque Tearchi (wu Di) fondatori delle antiche dinastie della storia cinese (Pines 2014b, 261).
28. Per delineare i caratteri principali della dinastia Shang il rimando è a Sabattini e Santangelo 2005, 45-53.
29. Potere che, nei fatti, era sempre più svuotato di una valenza effettiva, dal momento che la dinastia Shang era ormai in declino.
30. Numerosissimi sono gli studi che riguardano i molti aspetti della relazione tra Augusto e il divino e gli inizi del culto imperiale; per il suo valore e la sua portata generale mi limito qui a ricordare la monografia di Fishwick 1987.
31. I Compitalia erano una festa popolare in onore dei Lari, divinità che presiedevano e proteggevano i crocicchi delle strade, chiamati appunto compita.
32. Da notare come la prestazione del culto venga riservata alla parte più umile della società romana: sarebbe risultato forse eccessivo per un senatore rivolgere preghiere a colui che, sulla carta, doveva essere un suo par?
33. C. de Montesquieu, Dialogue de Sylla et d’Eucrate, cap. 342: “Vous leur avez appris qu’il y avait une voie bien plus sure pour aller à la tyrannie, et la garder sans péril”. Il testo a cui si fa riferimento è Montesquieu 1876.
34. Le stele di Qin Shi Huangdi sono una fonte epigrafica importante per lo studio di questo periodo. Si tratta di incisioni, create per volontà del Primo Imperatore, che ci restituiscono l’immagine che egli, narrando le sue imprese, avrebbe voluto dare di sé ai posteri, quasi – semplificando un poco – un corrispondente delle Res Gestae augustee (Yakobson 2014, 283). Per un approfondimento sullo studio delle iscrizioni su stele di epoca Qin rimando a Kern 2000, con la recensione di Sena 2001; il tema viene in seguito ripreso dallo stesso studioso in Kern 2007. Sull’argomento, consultabile anche Kern 2008, dove il contributo dello studioso è posto in correlazione con uno studio sulle Res Gestae Divi Augusti a opera di C. Witschel (Witschel 2008), nell’ambito di un’analisi comparativa della formazione della retorica imperiale.
35. La questione dinastica, sebbene a lungo analizzata, non esaurisce il suo interesse e rimane al centro della ricerca storiografica; per un recente contributo, vedi Arena e Marcone 2018.
36. Il riferimento è nello specifico a una serie di denari d’argento del 13 a.C. con al dritto il ritratto di Augusto e al rovescio Caio e Lucio Cesari insieme a Giulia, figlia del princeps e madre dei due (Cenerini 2009, 24, con riferimento a Roman Imperial Coinage I² 405).
37. Considerando il 206 a.C. come anno di inizio del regno degli Han Occidentali, la dinastia successiva a quella Qin.