Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Migrazioni ed etnogenesi nel medioevo. Chi abitava la Dalmazia nel IX-X secolo?

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Abstract

In the article, I propose to apply to the study of the Serbs in the early Middle Ages the constructivist and ethnogenetic approaches that have long been employed in the historiography on the Croats. I advance the hypothesis that the term 'Sorabos' mentioned in the Annales Regni Francorum in the chapter on 822 does not represent the first mention of the Serbian people, but a pseudo-ethnic and collective term, in some respects analogous to the concept of Slavs as defined by Florin Curta. Considering the concept of Serbian ethnos from the point of view of 'processuality' prompted me to put forward the hypothesis that those readings attesting to the existence of Serbs in the Balkans prior to the period in which De Administrando Imperio was written (c. 940) have no basis in the sources.

Introduzione

Il problema della scelta delle parole è connaturato alla storia, quanto è vero che il mestiere dello storico è quello di scrivere – un genere specifico di scrittura: descrittiva, analitica, interpretativa. La concezione occidentale dell’analisi (dal greco “suddividere”) reca con sé inevitabilmente la pratica tassonomica. Il problema della terminologia emerge così cruciale per la disciplina. L’impresa di suddividere la realtà in categorie e dare loro un nome è un esercizio di equilibrio: si ricerca la posizione mediana tra una tassonomia troppo vaga, miope di fronte alla diversità, e una tassonomia che discrimini troppo, esasperando le differenze. [1]

Per di più, lo storico si confronta con un altro problema endemico: l’anacronismo. È stato scritto come il rischio dell’anacronismo sia per lo storico ciò che per l’antropologo è lo spettro dell’etnocentrismo (Ginzburg 2018) [2] Le parole agiscono sul nostro modo di intendere le cose e il tempo cambia le parole e le cose. Si tratta di scongiurare l’egemonia del familiare sull’estraneo, di quanto è a noi vicino (cronologicamente, culturalmente) su quanto è più lontano. L’antropologia ha affrontato questo problema con il dibattito sulla dicotomia etic/emic. Mutuati dalla linguistica di Kenneth Pike, i due termini etic ed emic indicano rispettivamente il punto di vista degli osservatori esterni alla realtà culturale oggetto di studio – la prospettiva dell’etnografo – e il punto di vista degli attori che appartengono o incarnano la realtà studiata – i nativi (Headland 1990). Significativamente ridimensionata nella sua importanza dagli indirizzi etnografici recenti [3], credo che la dicotomia rimanga valida per gli studi storici: la storia vede irremovibile la barriera tra studioso e coloro che sono oggetto degli studi per via della condizione di cessata esistenza degli attori del passato. Le categorie etic portano il rischio dell’anacronismo, l’uso delle categorie emic d’altra parte deve confrontarsi con la continua mutabilità del loro significato. Gli attori interni, prima ancora di essere interni a una data epoca (il che è un’astrazione) sono interni allo scorrere del tempo, al mutamento; “non hanno l’abitudine di cambiare, ogni volta che mutano abitudini, il vocabolario”, lamentava Marc Bloch (Bloch 2009 [1949], 28).

L’universo degli etnonimi, ovvero dei nomi di popolo, è un campo nel quale le tensioni che ho appena sottolineate si manifestano in maniera evidente. Tanto di più è vero per la storiografia altomedievale, caratterizzata dalla scarsità delle fonti scritte. È stata e rimane forte l’eredità del XIX secolo, largamente incline a proiettare sul passato le attitudini essenzialiste che la contraddistinguono e a utilizzare come naturali categorie funzionali al modello Stato-nazione. La seconda metà del Novecento ha visto affermarsi un paradigma costruttivista: Deleuze, per esempio, ha invertito il rapporto tra identità e differenza che fino ad allora aveva privilegiato l’identità e aveva relegato la differenza a una posizione secondaria, osservando un rapporto inverso per cui la differenza non è concepita come diversità tra cose/tra identità ma come continuo differenziarsi di ogni cosa (divenire altro da sé, trasformarsi) (Deleuze [1968] 1971). Il superamento delle concezioni biologiche o oggettiviste nell’etnografia storica, ci porta oggi a un’idea dinamica e costruttivista dell’etnicità: come afferma Walter Pohl “we cannot expect to classify peoples in the same way that Linnaeus classified his plants” (Pohl 1998, 17). L’operazione tassonomica dello studioso diventa più difficile se non addirittura illegittima. Eppure, continuiamo a usare le parole e non possiamo fare altrimenti.

L’aporia da cui muove il presente articolo riguarda l’identificazione come Serbi di quei “Sorabos” che sono collocati in Dalmazia [4] nelle fonti del IX secolo (Annales Regni Francorum, ad anno 822). La parola indica davvero un popolo, la nazione serba nel senso corrente – quello certamente bassomedievale – oppure una lettura simile proietta retrospettivamente un’idea anacronistica? Non metterò in dubbio che esista un legame genealogico (nel senso foucaultiano del termine, non certo biologico) tra l’idea di “Sorabos” e quella più tarda di popolo serbo, ma proverò a sottolineare la distanza che si frappone tra i due concetti (o la mancanza di fonti che ci permettano di ignorare questa distanza), forse tale da delegittimare una facile traduzione di “Sorabos” con “Serbi”.

Il modello etnogenetico: superamento del paradigma
migratorio nella storiografia sui Croati

Uno sguardo comparativo al progresso della disciplina storica relativamente all’area croata può offrire stimoli di grande interesse per quanto si vuole interrogare relativamente al caso serbo.

La storiografia sull’area ha vissuto nell’ultimo quarto del XX secolo e nei decenni scorsi una serie di sviluppi ai quali sembra essere indifferente la storiografia nazionale serba. Lo sguardo comparativo che qui propongo riceve largamente senso dalle affinità (in primis geografica) tra i casi serbo e croato, e si vuole metodologico prima che contenutistico: ovviamente quanto è vero per i Croati non per forza è vero anche per i Serbi, tuttavia il metodo con il quale arriviamo a concludere qualche cosa circa i Croati probabilmente può dare esiti interessanti se applicato al caso serbo.

Tanto la storiografia croata come quella serba è stata dominata per un lungo passato (fino agli anni Settanta del Novecento) da un paradigma migratorio che ha i suoi motivi nella considerazione riposta nella fonte De Administrando Imperio (DAI). Titolato postumo, attribuito all’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito, il trattato – rimasto incompleto – viene datato al 940 ca. (Džino 2010, 16). Per lungo tempo (e in larga parte ancora oggi) il DAI è stato considerato l’unica fonte primaria attendibile che gli storici possano usare relativamente alla storia altomedievale dei Croati, dei Serbi e in genere dell’area dalmata (92). La comparsa delle identità croata e serba in Dalmazia viene chiaramente spiegata con il racconto del fenomeno migratorio e datata al tempo dell’imperatore Eraclio – dunque alla prima metà del VII secolo. L’autore del DAI scrive nel capitolo 30:

A quell’epoca i Croati abitavano al di là della Baviera, dove si trovano oggi i Belocroati [“belo” dallo slavo “bianco”: “Croati bianchi”]. Di là uscì una famiglia di cinque fratelli […] e di due sorelle […] che vennero con la loro popolazione in Dalmazia e trovarono gli Avari su questa terra. […] E così da allora queste terre appartengono ai Croati. […] Il loro paese venne diviso in undici giuppanie, ossia: Chlebiana, Tyenyena, Emota, Pleba, Pesenta, Prathalassia, Breberi, Nona, Tnena, Sidraga, Nina; e il loro bano possiede Kribasa, Litza e Goutziska (DAI cap. 30, 144-145) [5].

E relativamente ai Serbi, nel capitolo 32:

I Serbi discendono dai Serbi pagani, anche chiamati “bianchi”, e vivono al di là della Turchia [ovvero l’Ungheria] […] vicino alla Francia. […] quando due fratelli succedettero al regno del padre, uno dei due prese con sé metà del popolo e chiese protezione ad Eraclio […] Siccome ciò che è ora la Serbia, la Pagania [più avanti nella fonte definita anche Nerentania], il cosiddetto paese di Zachlumia, la Travunia e il paese dei Canaliti, appartenevano allora all’imperatore dei Romani, ed essendo stati questi paesi devastati dagli Avari […] l’imperatore installò i Serbi in queste regioni (DAI cap. 30, 153) [6].

E ancora, relativamente alla Bosnia, alla fine del capitolo 32:

Nella Serbia battezzata [così definita per distinguerla da quella “bianca”, pagana] vi sono le città abitate [o forse meglio “le sedi ecclesiastiche” (Živković 2010, 150)] di Destinikon, Tzernabouskei, Megyretous, Dresneik, Lesnik, Salines; e nel territorio di Bosnia, Katera e Desnik (DAI cap. 32, 161) [7].

Il DAI individua dunque una precisa madrepatria per i Croati e i Serbi, rispettivamente la Croazia bianca e la Serbia bianca, a collocazione nord-europea, e distingue le cosiddette Croazia battezzata e Serbia battezzata, quelle parti di Dalmazia popolate rispettivamente dai Croati e dai Serbi in seguito alla migrazione.

I confini delle terre insediate dai Croati si sarebbero estese, stando all’elenco delle giuppanie (entità regionali tipicamente slavo-meridionali) che il DAI riporta, dalla foce del fiume Cetina (poco a sud di Spalato) fino alla regione del fiume Gacka e alla Lika sul Quarnero, e verso l’interno dell’attuale Bosnia fino circa alle sorgenti del Vrbas. I Serbi invece sarebbero stati insediati in un’area che – sulla costa – si estende dal fiume Cetina fino a Cattaro e nell’interno fino ai confini con la Bulgaria, includendo anche la Bosnia. Tuttavia, diversamente da quanto il DAI dice dei Croati, l’area popolata dai Serbi sarebbe suddivisa in molteplici entità statali (Serbia “stretta”, Pagania, Zaclumia, Travunia) ovvero principati Serbi. Si tratta dunque rispettivamente della parte nord-occidentale della Dalmazia, per i Croati, e di quella sud-orientale per i Serbi.

Per quanto approcci che sottopongono al vaglio della filologia il testo del DAI non fossero mancati precedentemente – ricordiamo in particolar modo il lavoro di Ljudmil Hauptmann e di Bogo Grafenauer (Hauptmann 1925; Grafenauer 1952) –, negli anni Settanta del Novecento gli studi di Lujo Margetić hanno avuto un impatto rivoluzionario (Džino 2010, 180). Attraverso gli strumenti della filologia, Margetić argomenta un’alta inaffidabilità dei contenuti della fonte e conclude che l’idea di una migrazione dei Croati e dei Serbi sotto l’impero di Eraclio è con ogni probabilità falsa. Si tratterebbe di costruzioni narrative a opera dell’autore del DAI intenzionato a porre sotto l’egida di Bisanzio l’arrivo dei popoli che abitavano la Dalmazia. Interessato al caso croato in particolare, Margetić porta minuziose argomentazioni in favore di una datazione bassa dell’arrivo dei Croati nei Balcani e connette la migrazione all’espansione carolingia verso la Dalmazia e a scapito degli Avari a fine VIII secolo; la fonte principale su cui si appoggia sono gli Annales Regni Francorum (ARF), che coprono il periodo dall’anno 741 all’829 (Margetić 1977).

L’idea che non vi fossero Croati nei Balcani prima del IX secolo causò l’immediata reazione dell’establishment storiografico (Džino 2010, 180) e tuttavia sopravvisse, restando valida nei decenni successivi e ancora nel nostro millennio. Nel 1995, nell’opera collettiva Etnogeneza Hrvata [Etnogenesi dei Croati] curata da Neven Budak e pubblicata a Zagabria, Walter Pohl riafferma lo schema cronologico introdotto da Margetić, descrivendo il processo di costituzione dell’identità croata come articolato in due fasi: 1. La migrazione degli Slavi nei Balcani nel VII secolo sotto guida Avara. 2. La ristrutturazione della situazione d’area con l’espansione dei Franchi verso sud-est (1995).

La pubblicazione del 1995 vede l’ingresso in area croata, per iniziativa del suo curatore Neven Budak, dell’approccio etnogenetico sviluppato da Pohl e dalla Scuola di Vienna nel corso dei decenni precedenti [8]. Si inizia a pensare l’identità come processo in costruzione, e ci si allontana dalla dipendenza concettuale verso la nozione più tradizionale di migrazione di massa. Si tratta di un approccio – ispirato dagli sviluppi costruttivisti nelle scienze sociali – che si propone di fare “etnografia storica” (Wolfram 1981). Relativamente al caso croato, lo schema cronologico di Margetić viene mantenuto valido nella misura in cui connette la comparsa della nuova identità croata con la ristrutturazione d’area provocata dai Carolingi, mentre la comparsa dell’identità croata non viene più connessa – come aveva pensato Margetić – a un grande evento materiale, cioè alla presunta migrazione dei Croati, ma al mutamento degli equilibri interni alla società locale. Nel corso degli anni Ottanta Pohl ha sviluppato l’idea che il termine “Croati” designasse inizialmente una categoria sociale all’interno del khanato avaro e non un etnonimo. Nel contesto della ristrutturazione che segue la caduta del khanato per mano dei Carolingi, il termine avrebbe assunto un significato diverso e sarebbe emersa una nuova identità (Džino 2010, 180; Pohl 1995, 95-96). Il fatto che l’esistenza di qualcosa di analogo alla Croazia bianca citata dal DAI sia confermata dalle fonti, il fatto cioè che il termine croato compaia in aree geografiche molto distanti, può essere considerato nei termini di una relazione sincronica e non per forza diacronica. Patrick Geary, che sposa l’approccio di Pohl e della Scuola di Vienna, caratterizza le varie evenienze del termine Croati come “gruppi dissidenti […] in seno al regno avaro, [i quali] si trasformarono a poco a poco in entità politiche distinte, ciascuna dotata di un’identità etnica inventata e di una sua genealogia immaginaria” (Geary 2009, 147). Geary ci porta a vedere nelle identità etniche molto del concetto di “tradizione inventata” (Hobsbawm 2002 [1983]), cioè dei costrutti che proiettano sul passato le aspirazioni del tempo che li ha generati. Relativamente al nome stesso dei Croati, le spiegazioni di tipo sociologico dell’etimologia del termine si incontrano negli studi già con Maria Gimbutas. È interessante che l’etimologia che Gimbutas propone è comune per i termini Croati e Serbi (in forma endonima Hrvati e Srbi): dalla parola iranica “haurvo”, dal significato di “guardiano”, nel senso di “guardiano delle greggi” (il termine “srbi” sarebbe frutto delle evoluzioni fonetiche tipicamente indoeuropee h > s e v > b) (Gimbutas 1971, 60).

Approccio etnogenetico e superamento del paradigma migratorio vanno di pari passo. Pensare nei termini di etnogenesi significa prendere atto di una serie di complessità: in primo luogo si tratta di sostituire una concezione costruttivista a quella essenzialista o biologica. Le identità non scorrono nelle vene degli uomini, ma attraversano e intersecano il piano della materialità, e si intersecano a vicenda. Pohl afferma che le identità di popolo altomedievali “are not the result of inherent national characteristics, but are influenced by a variety of political, economic, and cultural factors”; il loro sviluppo – scrive – è una “question of the longue durée” (Pohl 1998, 16). Specularmente, definirei il paradigma migratorio nei termini di un paradigma evenemenziale.

Il superamento del paradigma migratorio ed evenemenziale circa la comparsa dell’identità croata trova una delle sue voci più chiare e recenti in Danijel Džino e nella pubblicazione Becoming Slav, Becoming Croat (2010). Secondo Džino la comparsa dell’identità croata risale all’inizio del IX secolo e corrisponde a quanto l’autore rintraccia come lo spostamento del potere carolingio in Dalmazia dalla Lika all’entroterra di Zara (189). La tradizionale attribuzione di un carattere croato al ducato di Dalmazia e Liburnia, e al suo duca Borna, menzionati negli ARF non trova ragione nelle fonti, le quali non ricorrono mai al termine croato: Borna infatti figura come duca dei Guduscani (un gruppo che prende nome dal fiume Gacka) (Džino 2010, 185; Gračanin 2012; Fine 2006, 35). La Donazione di Trpimir è il documento che viene generalmente considerato come la più antica menzione dell’etnonimo croato e attesterebbe il titolo dux Chroatorum per gli anni Quaranta-Cinquanta del IX secolo. La Donazione è giunta a noi in una copia del XVI secolo e non vi è ancora accordo fra gli storici su quale parte del testo rappresenti il nucleo originario del documento. Tuttavia la sua autenticità ha sostenitori autorevoli: secondo Neven Budak, è valida la datazione agli anni Cinquanta del IX secolo (Budak 1994). Lujo Margetić è disposto ad anticiparne la datazione agli anni Quaranta (Margetić 1995). Danijel Džino giudica credibili le argomentazioni di Margetić e ritiene ci siano buone ragioni per connettere il titolo dux Chroatorum alla figura di Trpimir. Per Džino tuttavia la prima evidenza certa dell’identità croata va vista nel titolo dux Chroatorum riportato sull’Iscrizione di Branimir, di cui Džino accetta la datazione agli anni Ottanta del IX secolo sostenuta tra gli altri da Pohl e da Margetić (Džino 2010, 175). Nella storiografia francese e italiana si trovano invece in merito posizioni più caute: Stephane Gioanni sottolinea le incertezze circa la Donazione di Trpimir e la frammentarietà dell’Iscrizione di Branimir (2020). Francesco Borri offre una propria ricostruzione dell’etnogenesi croata secondo la quale sarebbe addirittura inaffidabile datare la comparsa dell’identità croata nei Balcani a un’altezza precedente al X secolo (Borri 2011, 230) [9]. Non mi soffermo in questa sede sull’ipotesi di Borri, ma essa è interessante in quanto – ritardando l’etnogenesi croata a un periodo che segue l’inizio del X secolo e sottolineando l’ampia estensione dell’etnonimo croato e delle sue varianti in altre aree d’Europa e del Vicino Oriente – offre un’immagine dell’etnogenesi croata anche contenutisticamente (e non solo metodologicamente) affine al modello che provo a delineare qui di seguito relativamente al caso serbo. In ogni caso, la ricostruzione dell’etnogenesi croata non è l’oggetto principale del mio articolo e quindi su tale questione mi attengo alla ricostruzione proposta da Danijel Džino.

Stando dunque al modello proposto da Džino, lo spostamento del centro di potere in favore dei Croati di Trpimir sarebbe avvenuto nel corso del secondo quarto del IX secolo e in concomitanza con la decadenza dei Guduscani quali interpreti degli interessi dei Franchi nell’area (Džino 2010, 189). L’articolazione del potere croato nei termini descritti dal DAI – con le undici giuppanie già viste – risalirebbe al tempo del sovrano Tomislav, che nel 925 ca. viene plausibilmente riconosciuto rex Chroatorum in una lettera del papa (Džino 2010, 196). Vedremo come i dati forniti dal DAI vadano ritenuti attendibili soprattutto (o quasi solo) come immagine di un’epoca contemporanea o molto prossima alla sua stesura, a metà del X secolo. Allo stesso anno della lettera del papa risalirebbe anche la prima menzione ecclesiastica dell’etnonimo croato: il riconoscimento di un episcopus Chroatorum in occasione del concilio a Spalato (ibidem).

In sintesi, l’identità croata farebbe la sua comparsa nelle fonti relative alla Dalmazia designando originariamente una porzione particolare (il dominio di Trpimir) di quello che più tardi (dal X secolo) diventa il regno croato. Si sarebbe poi costituita nella sua forma estesa e destinata ad attraversare i secoli successivi per mezzo dell’egemonia che questo nucleo ha esteso sulle aree circostanti. Piuttosto diverso è – a mio avviso – il caso dei Serbi.

La presunta prima menzione dell’identità serba relativamente all’area balcanica risale all’822 e compare negli ARF. La fonte narra dell’insurrezione contro i Franchi del duca di Pannonia Inferiore Ljudevit, in quell’anno sconfitto:

Exercitus de Italia propter Liudewiticum bellum conficiendum in Pannoniam missus est, ad cuius adventum Liudewitus Siscia civitate relicta ad Sorabos, quae natio magnam Dalmatiae partem optinere dicitur, fugiendo se consulit (ARF, ad anno 822).

Dunque Ljudevit fugge tra i Sorabi “il quale popolo si dice tenga gran parte della Dalmazia”. L’attestazione è coerente con l’immagine fornita dal DAI, che caratterizza come Serbi tutta la serie di principati che copre la costa da Spalato verso sud e la Bosnia. Tuttavia tra questa menzione fugace negli ARF e la stesura del DAI si frappone oltre un secolo di storia.

La storiografia serba – anche la più recente – non mette in dubbio che i Sorabi menzionati nel passo non siano altro che i Serbi. Così per esempio Tibor Živković (2011), ritenuto da Džino “il più eminente medievista serbo dei tempi recenti” (Džino 2010, 44). Per parte croata, Neven Budak caratterizza il passo come la prima menzione dei Serbi, senza introdurre discriminanti (Budak 2008, 233).

La posizione di Tibor Živković è esemplificativa della permanenza di una concezione migratoria nella storiografia serba più aggiornata: ha scritto ampiamente sul testo del DAI senza contestare l’attendibilità dell’evento migratorio che la fonte vuole attestare. Il principale contributo di Živković agli studi consiste nell’ipotesi secondo cui la stesura delle parti del DAI relative a Serbi e Croati avrebbe avuto per riferimento principale una fonte perduta di origine cattolico-romana (Živković 2012, 78). L’autore attribuisce alla fonte il titolo convenzionale De Conversione Croatorum et Serborum, a sottolineare la presunta analogia con la nota Conversio Bagoariorum et Carantanorum (scritta a Salisburgo attorno al 870). L’autore della fonte sarebbe – secondo Živković – con ogni probabilità Anastasio Bibliotecario, capo archivista della Chiesa di Roma. Živković descrive Anastasio come dotato di straordinaria educazione ed energia, e il testo come un’idea magnifica (204). La principale intenzione dietro alla stesura della fonte sarebbe collocare la conversione di Serbi e Croati sotto il segno dello sforzo congiunto di Roma e Bisanzio. Živković sottolinea il background greco di Anastasio e lo caratterizza come “capace di creare l’ideologia piuttosto che seguirla” (ibidem): una particolare ideologia di sintesi greco-latina.

Benché dotata di qualità creative, mi sembra che l’ipotesi di Živković, relativamente al giudizio sull’attendibilità del DAI, si allontani poco dalla filologia positivista di metà Novecento – s’intende la filologia jugoslava dei sopra citati Bogo Grafenauer e Ljudmil Hauptmann.

Riconoscendo la portata dei contributi che sono scaturiti dall’approccio etnogenetico e dal superamento del paradigma migratorio nel campo degli studi sui Croati, credo sia necessario presupporre l’applicazione di metodi analoghi agli studi relativi ai Serbi. Nel presente articolo non sarà evidentemente possibile avviare una revisione dell’argomento, tuttavia proverò a esporre alcune considerazioni nella direzione auspicata. L’articolo vuole pertanto essere un invito a ulteriori ricerche.

Nello specifico sosterrò l’idea che la comparsa dell’identità medievale serba non vada spiegata nei termini di un carattere etnicamente serbo dei territori che più tardi vanno a comporre il Regno di Serbia bassomedievale, ovvero nei termini di una migrazione che porti in questi territori gruppi già precedentemente connotati o connotabili come Serbi. Distinguerò un’accezione collettiva ed etic del termine Sorabi dal concetto di Serbi in quanto maturato tramite l’etnogenesi e vissuto sul piano emic. Per poter dire questo, non solo verranno indirizzati i contenuti delle attestazioni scritte, parimenti sarà necessario uno sguardo critico verso le stesse categorie che ammettono la narrazione oggi accettata. Si tratta di categorie concettuali che rivelano la loro debolezza se si abbandona un’inclinazione essenzialista in favore di un approccio costruttivista ed etnogenetico.

Secondo l’avviso per cui una simmetria con quanto visto sui Croati va cercata nel metodo e non nei contenuti, vorrò sottolineare alcune differenze tra la parabola dell’etnogenesi croata – così come ricostruita da Džino – e la parabola dell’etnogenesi serba – così come emergerà dalla ricostruzione che proverò ad accennare. Se lo sviluppo dell’identità croata testimoniato dalle fonti di IX e X secolo vedrebbe l’espansione un nucleo etnico o sociale originario sulle aree circostanti, il caso serbo avrebbe seguito invece un vettore opposto. Intendo proporre l’ipotesi di un carattere pseudo-etnico, collettivo del termine sorabo associato ai Balcani, analogo a come Florin Curta ha connotato il concetto di Slavi. Il termine avrebbe assunto carattere etnico ed emic nel corso di un processo storico di etnogenesi e non in seguito ad un evento migratorio. Inoltre, il processo avrebbe visto l’uso del termine restringersi rispetto al significato più originariamente attestato.

Sorabi: un termine collettivo

Una traduzione autorevole degli ARF quale è stata l’edizione Carolingian Chronicles pubblicata dalla Michigan University Press nel 1973, riporta un evidente errore nella traduzione del passo sopra riportato – quello che contiene la presunta prima menzione dei Serbi:

An army was sent from Italy into Pannonia to finish the war against Ljudovit. On its arrival Ljudovit withdrew from the city of Sisak and fled to the Serbs, a people that is said to hold a large part of Dalmatia (ARF, ad anno 822).

L’espressione “que natio” viene qui resa con “a people” ovvero “un popolo” invece che nella forma “il quale popolo”. Tutt’altro che neutra, questa traduzione obbliga il lettore a percepire la comparsa dei sorabi nella fonte come l’introduzione di una novità, di un popolo di cui si parla per la prima volta. In realtà la stessa parola “Sorabos” compare in molteplici altri punti degli ARF prima e dopo il passo in questione, benché senza riferimento al contesto balcanico. La fonte fa riferimento a quelle genti slave che abitavano a ridosso del confine orientale dell’impero, nel bacino dei fiumi Elba e Saale [10].

La traduzione della Michigan University Press continua a comparire nelle bibliografie di testi autorevoli sul tema, anche di diversi decenni posteriori alla sua pubblicazione: per esempio la sopra citata miscellanea del 2008 (Garipzanov, Geary e Urbanczyk 2008). La scarsa frequenza con la quale le traduzioni dei grandi complessi di fonti per la storia altomedievale vengono aggiornate è certo un problema importante per la disciplina. In questo caso, credo che l’errore rilevato ci offra un esempio scolastico dell’inclinazione dei contemporanei a proiettare le proprie categorie sul passato.

Se escludiamo che a collegare i Sorabi di Dalmazia con le zone a ridosso del confine orientale carolingio sia una migrazione di popolo avvenuta a monte e generante un nuovo ethnos slavo, si pone il problema del perché lo stesso etnonimo (o etnonimi dallo stesso significante) venga applicato ad aree così distanti e prive di una continuità istituzionale. In primo luogo bisogna chiedersi che cosa significhi parlare di ethnos per il periodo in questione. Secondo Patrick J. Geary le identità di popolo nel periodo di passaggio tra tarda antichità e medioevo “erano entità politiche piuttosto che etniche” (Geary 2009, 69) e così ancora per l’VIII secolo (149). Anche Walter Pohl spiega come il concetto tardo-antico di popolus poteva connotare o un’appartenenza alla più ampia comunità cristiana oppure un’identità di tipo politico (Pohl 1998) [11]. È facile immaginare che in un contesto altamente dinamico – segnato da una mobilità continua e non da singole grandi migrazioni, come spiega Curta (Curta 2001, 337) – non vi fosse corrispondenza tra conformazioni politiche e presunte caratteristiche di uniformità culturale. Ciò che avrebbe svolto la funzione di collante a livello culturale per queste identità sarebbero forme discorsive, mitologiche [12], in primo luogo l’origo gentis ovvero il mito delle origini (Pohl 1998). Significativamente, è all’interno del genere origo gentis e non dell’attestazione storica che secondo Margetić andrebbero collocate le narrazioni del DAI circa le migrazioni di Croati e Serbi: al genere mitologico rimanda nella maniera più suggestiva la menzione e dei fratelli e sorelle di sangue reale a guida della migrazione (Margetić 1977, 14-15) [13].

Inoltre è importante sottolineare che le categorie attestate attraverso le fonti carolinge pertengono la percezione etic dei Franchi e non necessariamente sono prova dell’auto-percezione delle genti che designano. Così, stando a Geary, il termine “Sassoni” veniva applicato dai Franchi a gruppi che abitavano i confini settentrionali dell’impero, privi di qualsiasi organizzazione politica e per quanto ne sappiamo culturalmente accomunati dal solo fatto di non essere battezzati (Geary 2009, 149).

È probabile che l’uso che gli ARF fanno del termine “Sorabos” sia analogo a quello di Sassoni così come descritto sopra con le parole di Geary: un termine collettivo e lato, il quale non escluderebbe anche un’accezione più stretta comunque collettiva. I Sorabi che abitarono il bacino tra l’Elba e il Saale nell’alto-medioevo non esistettero nella forma di un’organizzazione politica (Rogers 2010, 283). Un esempio di uso ampio del termine per il periodo di cui parliamo si trova nella dicitura Limes Sorabicus: la frontiera fortificata creata da Carlo Magno all’inizio del IX secolo. Si tratta del confine orientale dell’impero, rivolto al mondo slavo, lungo l’asse verticale che attraversa Magdeburgo e Norimberga e come tale si estende dal Mar del Nord fino al Friuli (282).

L’idea di un carattere collettivo del termine sorabo esiste già dai tempi della slavistica di Dobrovsky e Šafarik e annovera sostenitori tra i grandi nomi del secondo Novecento. Šafarik vedeva i Sorabi negli “Sporoi” che compaiono nel celebre passo su Sclaveni e Anti dello storico bizantino di VI secolo Procopio (Šafarik 1843-44, 95). Secondo Procopio Sclaveni e Anti “avevano un nome comune e venivano chiamati Sporoi” (Bradford 2001, 36). I due gruppi sarebbero, stando a Procopio, una suddivisione interna agli Slavi (Fine 1991, 25). L’idea che gli Slavi fossero internamente suddivisi si ritrova anche nello storico bizantino Giordane, contemporaneo di Procopio, che collega Venedi, Anti e Sclaveni come componenti di un’unica “stirpe” (Kmietowitcz 1976, 125). Giordane non fornisce un nome collettivo per queste componenti, ma l’uso di “Sclaveni” per indicare uno dei sotto-gruppi ci suggerisce un termine diverso da quello di “Slavi”. Secondo uno schema analogo, il termine “Zeriuani”, che compare nel codice di metà IX secolo conservato a Monaco e attribuito al Geografo Bavarese, è stato identificato con i Sorabi (Cross 1962, 6): l’autore del codice sostiene che i gruppi nei quali sono suddivisi gli Slavi fossero diramazioni dell’unica popolazione degli Zariuani (Bradford 2001, 36). Maria Gimbutas, che ha influenzato enormemente gli studi sulle società indo-europee, concorda con chi ritiene la parola “Zeriuaniì” una corruzione del termine serbo e sottolinea l’ampia diffusione originaria (Gimbutas 1971, 44). Il Geografo Bavarese nella Descriptio civitatum et regionum ad septentrionalem plagam Danubii suddivide gli Slavi in tre macro-gruppi: Abroditi, Veleti e Sorbi, attestando anche per il IX secolo un’accezione ampia del termine sorabo o sorbo (Lubke 2008, 190). Francis Conte, nella sintesi ormai classica Les Slaves, aux origines des civilisations d’Europe centrale et orientale (Conte 1991), scrivendo degli Slavi occidentali sostiene che questi in origine si definivano “Serbi”, “un termine collettivo” e “uno dei nomi più antichi, forse il più arcaico, di tutto il mondo slavo” (56). Adam Lukaszewicz ha dedicato nel 1998 un saggio a questo tema: nel contesto di un’analisi affascinante che arriva a collegare gli Slavi con i Sakalava del Madagascar, l’autore sostiene che l’etnonimo serbo alle origini – nelle varianti Sporoi, Sorabi, Suurbi, Serbi – ha il senso di designazione ampia applicata agli Slavi dagli osservatori dell’Europa occidentale.

Le fonti bizantine sopra citate (Procopio, Giordane), i riferimenti delle interpretazioni che abbiamo visto, sono state sottoposte da Florin Curta a una lettura che ne ha drasticamente rimodellato il ruolo all’interno degli studi. Il contributo più importante di Curta è stato sostenere che l’idea di un popolo slavo non è giunta in Europa sulle gambe di una moltitudine migrante e per poi diffondersi nel continente, ma che si è costituita come tale dal VI secolo negli occhi degli osservatori esterni (bizantini, franchi, etc.): “Slavi” sarebbe un concetto etic e costruito. Curta descrive gli spostamenti di persone in quel periodo non già come migrazioni di popoli ma come mobilità breve e continua, incursioni o forme di “agricoltura itinerante” (Curta 2001, 337). La decostruzione che Curta, archeologo, fa delle fonti scritte di Procopio e Giordane a livello contenutistico, supporta anziché invalidare il nostro percorso. In questa sede non ci interessa molto se a livello materiale gli Slavi del VI secolo fossero suddivisi in sotto-gruppi a loro volta diramazioni di un’unica stirpe soraba (cosa probabilmente falsa!): ci interessa invece la percezione degli osservatori esterni, di chi scrive le fonti, e il significato delle categorie che questi utilizzano.

Mi sembra che l’idea che il termine lato di “Sorabos” non ci ponga davanti alla presenza di un popolo ma rappresenti una costruzione etic e dal significato collettivo è degna di essere presa in considerazione. L’oggetto intenzionale della sua applicazione furono presumibilmente gli elementi misto avaro-slavi stanziatisi gradualmente in Dalmazia durante le incursioni del VII secolo. La prosecuzione del passo degli ARF visto sopra ci suggerisce la frammentazione politica di quelli che la fonte chiama Sorabi:

fugiendo se contulit et uno ex ducibus eorum, a quo receptus est, per dolum interfecto civitatem eius in suam redegit dicionem (ARF, ad anno 822).

Dunque Ljudevit si rifugia fra «uno dei loro duchi». L’immagine risulta anche dalla descrizione del DAI, che ci fornisce i nomi e la collocazione geografica di molteplici principati caratterizzati come serbi. Neven Budak scrive significativamente che tra VIII e IX secolo “Dalmatian Slavs did not develop clear identities other than general slavic because they did not create political units larger than the elementary župe mentioned by Constantine [VII Porfirogenito]” (Budak 2008, 233).

The making of Serbs e il problema
della collocazione della Serbia delle origini

È venuto il momento di confrontarci con l’altra fonte cruciale circa il periodo che trattiamo, il DAI attribuito a Costantino VII Porfirogenito. La mia tesi è che il Porfirogenito o chi per lui abbia registrato uno stadio di costruzione dell’identità di popolo serba intermedio rispetto all’indistinta pluralità sorabo-dalmata dei primi secoli del medioevo e alla costituzione dello Stato bassomedievale serbo nel XII secolo.

La caratterizzazione come termine collettivo dei sorabi-dalmati menzionati dagli ARF, che nel DAI oltre un secolo dopo compaiono nella forma “Σέρβλοι” (a questo punto cederò alla tentazione di chiamarli Serbi evitando di usare la parola greca), potrebbe sembrare in contraddizione con l’identificazione da parte del DAI con il nome di Serbia di uno e uno solo dei principati compresi tra Croazia e Bulgaria. Il DAI definisce serbi fin dai tempi della loro istituzione i principati di Nerentania, Zaclumia, Travunia, Serbia (resta fuori, fatto interessante, la Dioclea); eppure tra questi uno e soltanto quello è definito come Serbia. Sarà forse saltata all’occhio l’asimmetria del passo citato sopra, secondo cui Eraclio avrebbe fatto insediare “i Serbi” in “ciò che è ora la Serbia, la Pagania, il cosiddetto Paese di Zaclumia, la Travunia” (corsivi miei). Vediamo il termine serbo comparire nello stesso passo sia in senso sovra-regionale o sovra-nazionale – dove per natio intendiamo una comunità politica – sia in senso regionale, nazionale. Se nel fornirci il generale panorama etnografico dell’area l’autore della fonte insiste nell’uso del concetto sovra-regionale di Serbi – indica come serbi i diversi principati costieri e ci racconta del loro popolamento da parte dei Serbi – mi sembra necessario chiedersi: come mai una sola delle sclavinie e soltanto essa è identificata come Serbia?

Alla lettura del testo, risulta evidente che quanto il DAI indica come Serbia corrisponde già a un concetto sovra-regionale. Abbiamo già visto come l’autore del DAI riporti, nella maniera frettolosa che lamenta Živković (Živković 2010, 150), l’elenco delle seguenti città abitate o sedi ecclesiastiche della Serbia:

Nella Serbia battezzata vi sono le città abitate di Destinikon, Tzernavouskei, Megzretous, Dresneik, Lesnik, Salines; e sul territorio di Bosnia, Katera e Desnik.

Quella che descrive è una superficie estesa almeno dalla regione storica della Rascia (lungo il fiume Ras, intorno all’odierna città di Novi Pazar) fino all’odierna Tuzla in Bosnia (che va riconosciuta nella Salines dell’elenco). L’indicazione nel capitolo 31 del DAI secondo cui la Serbia fiancheggia sul lato dei monti i principati costieri e confina con la Croazia sul fiume Cetina (che sfocia poco a sud di Spalato) ne estende ulteriormente le dimensioni. Ancora più esplicitamente, l’autore include nella Serbia la Bosnia la quale viene detta “horion”, parola traducibile con “territorio” o secondo Živković più correttamente come “piccola terra” o “regione” (ibidem). Dunque la “Serbia battezzata” di cui parla il DAI è composta da almeno due entità regionali e mi sembra che nulla nella fonte neghi la possibilità che queste entità fossero in numero superiore a due – il passo che tratta dei “castra oikomena” risulta invero frettoloso e incompleto.

La Bosnia allo stesso modo delle sclavinie costiere porta un nome di etimologia geografica: proprio dal fiume omonimo Bosna; così come Nerentania dal fiume Nerenta, Zaclumia dal monte Chlum, Travunia dal nome dell’odierna Trebinje (Budak 2008, 231). Non vale lo stesso per Serbia, che come Croazia è un toponimo di etimologia etnica. Anche l’elenco nel DAI dei nomi delle undici giuppanie che compongono la Croazia presenta una predominanza etimologica di tipo geografico. Il termine giuppania o giuppano è associato dal DAI anche ai territori definiti serbi: per esempio il sovrano di Travunia viene definito giuppano [14] e della Nerentania ci viene detto che è composta da tre giuppanie [15].

Come fosse chiamato il cuore della “Serbia battezzata” che descrive il DAI non ci è dato saperlo con certezza. La tradizione storiografica indica la regione della Rascia, in quanto a essa viene d’abitudine collegato il potere del principe Časlav Klonimirović (Ćorović 2006, 72), attestato dal DAI come sovrano di Serbia al tempo della stesura della fonte stessa (metà X secolo). Il collegamento privilegiato tra Časlav e la Rascia viene proiettato retrospettivamente sui secoli altomedievali dalla fonte Gesta Regnum Sclavorum (GRS) (Kalić 1995), da molti storici datata al XII secolo. Si tratta di una fonte ad alta inclinazione ideologica e per questo considerata poco affidabile (Živković 2009, 373. Džino 2010, 100). Stando all’analisi di Solange Bujan, il testo sarebbe un patchwork di prima età moderna contenente qualche frammento tardomedievale (Bujan 2020). In questa sede non prendo in considerazione le GRS come fonte a causa dello scarso credito di cui gode e in ragione della distanza cronologica che la separa dagli avvenimenti di cui scrivo.

L’autore del DAI scrive di Časlav che “ha potuto unificare la sua patria ed essere confermato sovrano di essa” [16]. L’oggetto/il prodotto di questa unificazione è evidentemente la “Serbia battezzata” sovra-regionale descritta nel DAI: ovvero l’insieme delle realtà regionali (due o più) che hanno preceduto lo Stato serbo di Časlav e che in esso sono contenute. Con questo concorda Novaković che scrive come nella Serbia di Časlav non vada compreso nessuno dei principati costieri: non si trova nel DAI alcuna conferma di un presunto processo di unificazione che comprendesse l’insieme delle regioni i cui abitanti vengono definiti Serbi dalla fonte (Travunia, Zaclumia, Nerentania, etc.) (Novaković 1981), come sostenuto dalla tradizione storiografica serba [17].

Secondo la lettura che qui propongo, quanto attestato dal DAI oltre un secolo dopo la menzione dei sorabi-dalmati negli ARF, sarebbe uno stadio intermedio di etnogenesi: Il termine sorabo o serbo è già parte di forme discorsive funzionali alle ambizioni di un potere egemonico, forme discorsive che hanno fatto appropriazione del termine collettivo sorabo e lo vanno risemantizzando, in primo luogo attraverso la stessa prassi discorsiva. Il potere di Časlav si sarebbe proposto come forza centripeta relativamente alle aree circostanti e su due piani diversi: in primis sul piano della unificazione politica, relativamente alle regioni che compongono la Serbia battezzata; inoltre sul piano ideologico (che idealmente prepara l’integrazione politica) relativamente ai principati costieri definiti serbi dal DAI. Margetić sosteneva che l’attestazione nel DAI dell’insediamento dei Serbi nelle varie sclavinie comprese tra Croazia e Bulgaria (a eccezione della Dioclea) rappresenta la registrazione di una tradizione locale e pertiene la sfera mitologica dell’origo gentis; questa registrazione attesterebbe allora sul piano discorsivo lo specifico grado di maturità raggiunto dal processo etnogenetico serbo al tempo della stesura della fonte.

Tra i principati costieri definiti serbi dal DAI la sola delle sclavinie comprese tra la Croazia e la Bulgaria a non essere inclusa è la Dioclea e questo dato non è casuale. La Dioclea era al tempo l’unico dei principati costieri dotato di forza tale da non poter essere incluso in pretese di unificazione dell’area che non avessero per centro unificante la Dioclea stessa. Alla morte di Časlav nel 960 ca. la Dioclea assorbirà gran parte della “Serbia battezzata” e alcuni tra i principati costieri (Fine 1983, 219). L’assenza della Dioclea dall’elenco ha crucciato a lungo la tradizione storiografica serba. Similmente, la tradizione storiografica croata si è molto occupata e preoccupata del perché nel DAI vengano caratterizzati come serbi gli abitanti di Nerentania, Zaclumia, Travunia (regioni oggi incluse nella Croazia contemporanea). Neven Budak, certo non sospetto di simpatie verso il nazionalismo croato, ha spiegato la diffusione dell’etnonimo serbo con l’espansione geopolitica realizzata da Časlav (Budak 1994, 43). Come visto sopra, ritengo non ci sia motivo di credere che l’unificazione operata da Časlav abbia investito questi principati costieri. In ogni caso la fonte parla esplicitamente della natura etnica (etnica trans-politica) di questi principati e non di appartenenza a una comune organizzazione politica.

Se si accetta il framework etnogenetico, risulta evidente che quanto definisce o meno come serbi gli abitanti dei principati costieri all’altezza storica data non è una presunta natura originaria serba, ma la loro partecipazione o meno al processo etnogenetico serbo. I presupposti di metodo che abbiamo abbracciato caratterizzano l’etnicità da una parte come contingente e dall’altra come relativa alla longue durée. In altre parole essa è un fatto processuale. Qui si possono trovare le risposte ai crucci tradizionali delle storiografie nazionali croata e serba: per l’epoca registrata dal DAI, la Dioclea è esclusa dal processo dell’etnogenesi serba; la costa e l’entroterra dall’area a sud di Spalato fino alle Bocche di Cattaro risultano incluse. Diverse saranno le condizioni di un secolo più tardi e ancora diverse quelle posteriori di due secoli.

Un’aporia classica della tradizione storiografica serba può essere illuminata da questo modello che qui propongo ed essa può rafforzare il modello a propria volta. Il problema riguarda quale fosse la collocazione nel contesto dei Balcani occidentali di una presunta Serbia delle origini. Del problema si è occupato in particolar modo Relja Novaković:

Circa il nucleo geografico originario della Serbia, ovvero dello Stato serbo, rimaniamo per larga parte nell’incertezza. L’assenza di informazioni dipende dalle nostre fonti primarie, ovvero dall’autore ancora anonimo del capitolo 30 del DAI e dallo stesso Porfirogenito (Novaković 1981, 379) [18].

Novaković contesta l’equivalenza tra Serbia delle origini e Rascia dedotta dalle GRS e consolidata nella tradizione storiografica:

Se la questione del rapporto tra Serbia e Rascia fosse stato osservato con maggiore accortezza, si sarebbe concluso che i due concetti sono diversi per natura geografica ed estensione, per origine e per ruolo nel corso della storia […] Ci sembra che questa differenza sia chiaramente segnalata dalle fonti primarie […] quando includono la Rascia nel concetto di Serbia è evidente come la Rascia sia ritenuta una componente della Serbia (384) [19].

Jovanka Kalić ha evidenziato come, stando alle fonti, la Rascia compare come una regione significativa dello stato serbo solo con la dinastia dei Nemanidi nel XII secolo (1995). Di nuovo sembra che i fasti della cultura bassomedievale serba conservati nella regione di Rascia portino il lettore moderno a proiettare categorie anacronistiche sul passato.

Novaković prosegue poi alla ricerca della Serbia delle origini, si chiede allo stesso tempo quale fosse il “principale portatore del nome Serbia”. Di seguito le sue conclusioni:

questa regione va cercata o nei principati serbi della costa oppure, il che sarebbe più probabile, nel territorio che si trovava in posizione mediana rispetto ai principati costieri, alla Croazia, alla Bosnia, alla Rascia e al retroterra della Dioclea (386) [20].

L’autore ritiene probabile che il corpo principale della Serbia delle origini consistesse in questa regione menzionata come “Podgorije” dalle GRS. L’ipotesi di Novaković viene avanzata con riserve dallo stesso autore e non mi sembra convincente: non vengono fornite indicazioni chiare circa l’estensione della regione e non è chiaro il rapporto di questa con le altre entità regionali, Bosnia, Croazia, Serbia, principati costieri. Questo studio di Novaković, diventato classico, risale al 1981. Al tempo l’approccio etnogenetico era agli albori nei circoli accademici di Vienna (Wolfram [1979] 2021; Wolfram 1981). Dalla prospettiva etnogenetica che abbiamo assunto, appare immotivato l’oggetto stesso della ricerca di Novaković. Credo che non sia mai esistita una “Serbia delle origini” nei termini posti dall’autore: ovvero un nucleo serbo-balcanico il quale avrebbe poi esteso la propria egemonia e con essa il termine serbo. “Sorabi” è un termine fin dall’inizio del IX secolo – almeno – associato a un’area vasta della Dalmazia e in quanto nome collettivo. Il termine sarebbe diventato in un secondo momento oggetto di appropriazione da parte di forme discorsive funzionali all’emergere dell’egemonia geopolitica di un potere (di cui Časlav è esponente) a cui nulla attribuisce un carattere etnico più originariamente sorabo/serbo rispetto alle regioni limitrofe.

Conclusioni

A questo punto è possibile tracciare le linee generali di una ricostruzione. I processi etnogenetici croato e serbo consistono nella transizione di lunga durata dalla più generica identità slava (la cui costituzione ha messo in luce Florin Curta) a un’identità più ristretta e politicamente strutturata. Relativamente ai Croati, l’avviarsi di questo processo è stato collocato da Džino alle soglie del IX secolo quando si dissolve il potere dei Guduscani nell’area ed emerge un’egemonia che ha la sua base nella giuppania di Nona nell’entroterra di Zara. Si tratta del potere emergente dei Croati (si dovrebbe dire “pre-Croati”) ai quali le fonti associano il nome di Trpimir. Questi avrebbero rappresentato in origine una categoria sociale o un gruppo di guerrieri. Trpimir sarebbe attestato dalle fonti scritte come sovrano croato a metà IX secolo, mentre alla prima metà del X secolo si collocherebbe il primo re croato Tomislav, che stando al DAI domina su tutte e undici le giuppanie croate.

Relativamente all’area sud-orientale della Dalmazia, al IX secolo non è possibile parlare di un processo etnogenetico serbo. Il passo degli ARF che narra la fuga di Ljudevit presso i Sorabi non darebbe ragione di vedere nell’etnonimo altro che un termine pseudo-etnico e collettivo, per certi versi analogo a come Curta ha caratterizzato il concetto di Slavi per il VI secolo. Un secolo dopo la menzione negli ARF, il DAI registra uno stadio intermedio di etnogenesi che, da un lato, vede l’unificazione di alcune delle regioni destinate a diventare parte dello Stato bassomedievale serbo, e, dall’altro, registra forme discorsive che includono i principati costieri – meno la Dioclea – nella autorappresentazione mitologica serba. Nel corso del secolo silenzioso che separa la menzione negli ARF e il DAI, le varie entità sorabe comprese tra la Croazia nascente e l’impero bulgaro vanno costruendo una rete di rapporti privilegiati, alleanze-matrimoniali tra dinastie, in parte l’integrazione in una comune entità politica, e – infine o in primo luogo – la costituzione di un’auto-rappresentazione comune attraverso il discorso e il mito. Il nome sorabo non avrebbe dunque assunto la connotazione a noi più familiare di popolo serbo attraverso un processo di estensione diretta da un nucleo a un’area più vasta, così come sembra vero per i Croati, ma attraverso un processo complesso che si risolve nella restrizione di un termine collettivo al significato di un’entità integrata.

A questo punto, per maggiore chiarezza del modello proposto, ci si potrebbe chiedere se gli stessi Guduscani non fossero stati Sorabi. Ovvero se non appartenessero a quanto il passo degli ARF designa con il termine collettivo di Sorabi. L’immagine sarebbe quella di una distesa di comunità sorabe, dalle giuppanie guduscane fino a quelle confinanti con la Bulgaria. Queste comunità, dai nomi di etimologia geografica, sarebbero precedenti ai processi etnogenetici che portano la loro composizione prima in un ethnos croato, a nord-ovest, e con tempi diversi di un ethnos serbo nella parte sud-orientale della Dalmazia. Gli ARF non definiscono mai sorabi i Guduscani. Va detto però che questi ci appaiono nella fonte come prodotto dell’integrazione di diverse giuppanie, si presume le tre giuppanie che secondo le parole del DAI sono tenute dal ban croato (si veda il passo sopra citato: “e il loro ban possiede Kribasa, Litza e Goutziska) – Džino identifica nel potere del ban contestualmente alla Croazia ritratta dal DAI una sopravvivenza in forma di autonomia interna del potere guduscano spodestato dall’egemonia croata (Džino 2010, 189). Quello dei Guduscani risulterebbe allora un processo etnogenetico “interrotto” – assorbito da quello croato – che si sarebbe avvalso dell’etnonimo guduscano e che avrebbe tratto il suo materiale di composizione dal background latamente sorabo-dalmata, analogamente a quanto si è detto per i processi etnogenetici croato e serbo. Il medesimo discorso sarebbe valido per la Dioclea e i tentativi di questa, in particolare a fine XI secolo, di realizzare un progetto egemonico nella parte sud-orientale della Dalmazia.

Restiamo, a questo livello, largamente nel campo delle supposizioni. Nulla è stato provato, molti punti sono stati toccati. Soprattutto si sono evidenziate direzioni di lavoro. Una ricerca più ampia potrebbe consistere nella lettura critica di fonti più tarde, o nell’analisi della titolatura dei sovrani dell’area alla luce del problema. Soprattutto credo sarebbe di fondamentale interesse uno studio sull’etnogenesi medievale serba che coinvolgesse la linguistica diacronica: l’area che partecipa al processo etnogenetico serbo nel periodo preso in esame combacia significativamente con la presunta estensione bassomedievale del dialetto stocavo della lingua serbo-croata o lingua BCS (Bosnian-Croatian-Serbian, secondo la dicitura che compare sul sito dell’Università di Harvard), così come l’area dell’etnogenesi altomedievale croata corrisponde grossomodo all’estensione del dialetto ciacavo (Popovic 1955) [21]. Un’accurata ricostruzione delle processualità generative in seno al continuum dialettale BCS durante il medioevo potrebbe essere utile a un parallelo tentativo di ricostruzione dei processi etnogenetici.

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  • Novaković, Relja. 1981. Gde se nalazila Srbija od VII do XII veka [Dove si trovava la Serbia dal VII al XII secolo]. Beograd: Narodna knjiga.
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  • Šafarik, Pavel Jozef. 1843-44. Slawische Alterhumer [Antichità Slave]. Leipzig: Verlag Wilhelm Engelmann.
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  • —, 2012. De Conversione Croatorum et Serborum. A Lost Source. Belgrade: Institute for History

Note

1. Questo articolo è la rielaborazione della tesi con cui ho conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università di Bologna nel 2021. Le tesi esposte rimangono invariate, mentre risulta maggiore il grado di contestualizzazione storica e teorica. Vorrei ringraziare gli studiosi che mi hanno sostenuto nel corso della elaborazione di questo articolo: Tiziana Lazzari, relatrice della mia tesi; Neven Budak, per la disponibilità a seguire il mio lavoro a distanza; Wim Verbaal, amico e maestro, per i suoi consigli; Francesco Borri, per le ulteriori revisioni che sono seguite alla mia laurea e al mio trasferimento a Venezia.

2. Si consideri anche la celebre affermazione: “Il passato è una terra straniera” (Lowenthal 1985).

3. Si veda Ingold 2014, o – per un quadro più ampio – Brigati e Gamberi 2019.

4. Per chiarezza circa il contesto geografico si faccia riferimento a John J. Wilkes; sulla Dalmazia altomedievale afferma che essa: “included not only the Adriatic coastline which still bears that name today, but also all the modern Yugoslav Republics of Bosnia-Hercegovina and Montenegro, most of Southern Croatia, togheter with a large slice of Western Serbia” (Wilkes 1969, 78).

5. “The Croats at that time were dwelling beyond Bavaria, where the Belocroats are now. From them split off a family of five brothers, Kloukas and Lobelos and Kosentzis and Mouchlo and Chrobatos, and two sisters, Touga and Bouga, who came with their folk to Dalmatia and found the Avars in possession of that land. […] And so from that time this land was possessed by the Croats. […] Their country was divided into 11 ‘zupanias’, viz., Chlebiana, Tzenzina, Imota, Pleba, Pesenta, Parathalassia, Breberi, Nona, Tnina, Sidraga, Nina; and their ban possesses Kribasa, Litza and Goutziska” (la traduzione dall’inglese in italiano è mia).

6. “The Serbs are descended from the unbaptized Serbs, also called ‘white’, who live beyond Turkey [...], where their neighbour is Francia [...] when two brothers succeeded their father in the rule of Serbia, one of them, taking one half of the folk, claimed the protection of Heraclius […] And since what is now Serbia and Pagania and the so-called country of the Zachlumi and Terbounia and the country of the Kanalites were under the dominion of the emperor of the Romans, and since these countries had been made desolate by the Avars […] therefore the emperor settled these same Serbs in these countries” (la traduzione dall’inglese in italiano è mia).

7. “In baptized Serbia are the inhabited cities of Destinikon, Tzernabouskei, Megyretous, Dresneik, Lesnik, Salines; and in the territory of Bosona, Katera and Desnik” (la traduzione dall’inglese in italiano è mia).

8. Già nei primissimi anni Settanta Herwig Wolfram aveva connesso il termine “etnogenesi” alle precedenti ricostruzioni storiche di Reinhard Wenskus (Pohl 2010). Tuttavia il metodo si afferma in maniera decisiva con gli studi di Pohl e Wolfram dalla fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta (Wolfram 1981; Pohl 1998).

9. Borri connette la comparsa dell’identità croata in Dalmazia alla vittoria dei Croati sui Bulgari, datata dal DAI all’inizio del X secolo.

10. ARF, ad anno 782: “Interea regi adlatum est, quod Sorabi Sclavi, qui campos inter Albim et Salam interiaeentes incolunt, in fines Thuringorum ac Saxonum, qui eis erant contermini, praedandi causa fuissent ingressi et direptionibus atque incendiis quaedam loca vastassent.”

11. Pohl 1998, 16: “This myth [the idea of common origin], however, was an essential part of a tradition that shaped the particularity of the gens, its beliefs and institutions. A relatively small group guarded and handed on this tradition and set it up as a standard for much larger units”.

12. Per una prospettiva generale sulla caratterizzazione del mito come discorso: Bettini 2018.

13. Per parlare degli elementi narrativi a carattere mitologico l’autore usa l’espressione “tradizione popolare” (“narodna tradicija”). Sull’idea secondo cui nel mito sarebbe prevalente la funzione ideologica rispetto a quella di attestazione storica si veda, per esempio, Flood 2002.

14. DAI; cap. 30, 163.

15. Ivi, 145.

16. DAI; cap. 32.

17. Si veda per esempio Ćorović [1941] 2006, p. 72.

18. “U pogledu prvobitnog geografskog jezgra Srbije, odnosno srpske države, ostajemo i dalje u priličnoj meri u neizvesnosti. Ta neizvesnost potiče još od naših osnovnih izvora, od zasad nepoznatog sastavljača tridesetog poglavlja DAI i od samog Porfirogenita” (mie le traduzioni dal serbo-croato nel testo).

19. “Da je u ovim dilemama oko Srbije i Raške bilo malo više pažnje, verovatno bi bilo zapaženo do su to dva pojma, različita po geografskom položaju i obimu, po poreklu i po svojoj ulozi u sklopu istorije […] Kako nam se čini, na ovu su razliku upozoravali još naši stari sastavljači rodoslova i letopisa. [...] kad Rašku uključuju u pojam Srbije kao da je jasno da je smatraju samo njenim sastavnim delom”.

20. “Taj prostor treba tražiti za najstariji period ili u primorskim srpskim oblastima ili, što je možda verovatnije, na teritoriji koja se nalazila izmeću primorskih oblasti, Hrvatske, Bosne, Raške i zaleđa Duklje”.

21. Non sono riuscito a trovare studi più recenti che offrano in prospettiva diacronica e relativamente al medioevo un quadro geografico dei dialetti della lingua BCS, il che forse indica la necessità di studi aggiornati sull’argomento.