John Foot, Gli anni neri. Ascesa e caduta del fascismo. Roma-Bari: Laterza, 2022. X-437 pp.
Sono indubbiamente anni neri quelli compresi fra il 1919 e il 1945, per il predominio del nero nello spazio pubblico – dalle divise ai gagliardetti agli scenari delle adunate –, e anche, intendendo il nero in una accezione traslata, per le vite dei perseguitati politici e razziali e per quanti dovettero subire le guerre del fascismo (dai libici agli abissini, dagli spagnoli agli albanesi, dai francesi ai greci…). Questi due significati di nero sono compresenti e in qualche modo intrecciati nella ricostruzione di John Foot del periodo, fino alla cupa chiusa del 1945.
Al titolo italiano preferiamo, tuttavia, quello originale Blood and Power: The Rise and Fall of Italian Fascism, in quanto più coerente con il cuore dell’analisi, con la nuova politica inaugurata dal fascismo fin dai primi mesi del 1919 e con la violenza senza limiti che la caratterizzava e di cui l’A. dà largamente conto. Si può dire, anzi, che la parte più pregnante del libro si concentri su questa violenza estrema e sulle sue conseguenze. A differenza della violenza del movimento operaio, più proclamata che praticata e, comunque, più difensiva, la violenza fascista, come notava Curzio Malaparte che ben la conosceva, era organizzata, sistematica, scientifica: «Mussolini – scriveva Malaparte – combatte la sua battaglia politica, ma con la violenza, con la più dura, con la più inesorabile, la più scientifica delle violenze»; «le camicie nere non sono soltanto violente, sono spietate». E soprattutto, disprezzando e dileggiando l’avversario in quanto vigliacco, «panciafichista», «rinunciatario», lo giudicavano un nemico della nazione e, dunque, assimilabile al nemico esterno e, pertanto, passibile di qualsiasi insulto e brutalità. Emilio Gentile ha per primo messo a fuoco questi caratteri originari del fascismo e ce ne ha offerto ricche esemplificazioni. Senza dire che il tema della violenza ha acquisito negli ultimi lustri una nuova centralità, a partire dagli studi di Giulia Albanese, Matteo Millan, Camilla Poesio.
Cosa aggiunge il libro di Foot a queste analisi? Il suo merito è di ricostruire alcuni degli episodi centrali di violenza nell’ascesa al potere del fascismo (dai fatti di Palazzo d’Accursio di Bologna del novembre 1920 agli agguati in Toscana e alle stragi di Empoli del marzo 1921 e di Foiano dell’aprile 1921, alla marcia su Ravenna dell’estate 1922, alla strage di Torino del dicembre 1922, accanto a diversi altri eventi sanguinosi) e di seguirne gli esiti successivi. Merito del libro è anche quello di evidenziare le storie di diversi perseguitati ben oltre il momento di avvio della repressione, ripercorrendone anzi le vicende per tutto il Ventennio e oltre. Grazie allo stile narrativo proprio della storiografia anglosassone ne emergono quadri di sopraffazione e di angherie che sottolineano l’assenza totale di uno Stato di diritto e che non si arrestano davanti alla sconfitta totale dell’avversario e al suo completo disimpegno politico. È un accanimento che coinvolge anche i famigliari delle vittime oltre alla loro cerchia di amici. Alcune analisi condotte sui cosiddetti Casellari politici delle questure, per esempio per Parma, avevano già evidenziato questo tratto vessatorio e crudele del sistema repressivo fascista. Foot, tuttavia, inserisce queste storie di oppressione all’interno dell’impalcatura più generale del fascismo in una sorta di gioco di contrasto fra le traiettorie dei perseguitati e quelle dei persecutori: impoveriti fino alla miseria (perché impossibilitati a trovare un lavoro), angariati, obbligati al discredito e alla solitudine sociale i primi; pieni di onori e riconoscimenti e ricchezze i secondi.
Il divario tra il mondo dei vinti e quello dei vincitori percorre tutto il libro e serve a sottolineare un altro tema che è centrale nell’analisi di Foot, vale a dire il tema della memoria. Concordo pienamente con l’A. quando indica la manipolazione della storia e della memoria come un tratto distintivo del fascismo fin dalle origini. Il consigliere comunale nazionalista Giordani, le modalità della cui uccisione non risultarono mai chiarite, fu osannato immediatamente come un martire della bestialità socialista e, poi, gli si eressero statue, gli si intitolarono strade, mentre intorno ai dieci ammazzati e ai sessanta feriti socialisti fu alzato subito un silenzio totale che continuò negli anni successivi. Così per Bologna per i fatti di Palazzo d’Accursio, ma lo stesso criterio selettivo nella descrizione della realtà fu seguito per gli altri episodi di violenza con una operazione di disinformazione che costruiva eroi, da un lato, e mostri, dall’altro; morti di prima classe, da un lato, e morti di seconda classe, dall’altro. Emblematici i casi di Foiano, in provincia di Arezzo, e di Torino. In entrambe le situazioni non si conosce neppure il numero esatto delle vittime non fasciste (8 o 10, ma senz’altro di più, a Foiano; almeno 11, ma 22 per il capo squadrista Brandimarte, a Torino), mentre i morti fascisti (3 a Foiano, 2 a Torino) ebbero onori immediati e successivi.
Una violenza organizzata fino al terrore, una manomissione della storia, una fabbricazione partigiana della memoria costituirono i tre ingredienti di base del fascismo i quali incontrarono risposte fiacche e inadeguate da parte dell’antifascismo, a partire dal socialismo nelle sue diverse componenti. Ma fu soprattutto la debolezza dei valori liberali dello Stato liberale a definire l’elemento discriminante: continue nell’analisi sono le descrizioni delle connivenze, con lo squadrismo, dei corpi armati e di polizia statali, di prefetture e questure e della magistratura. Dopo il terrore di Foiano, per dire, «nessun fascista venne arrestato, ma 107 tra non-fascisti e antifascisti furono invece incarcerati» (p. 99). Per non parlare della stampa indipendente di parte moderata che iniziava, già nel 1921, ad allinearsi al fascismo accettandone la visione manichea.
La non robustezza dei valori liberali e la repressione del dissenso preesistevano alla nascita del fascismo: significativamente il libro si apre con la repressione di Augusto Masetti, l’anarchico emiliano che il 30 ottobre 1911 aveva sparato, ferendolo, al tenente colonnello Stroppa che invitava i soldati a partire per la guerra di Libia. Antimilitarismo e militarismo hanno percorso per decenni la storia d’Italia. Con il fascismo, tuttavia, si assiste a un salto di qualità, che la Prima guerra mondiale aveva anticipato. Si assiste a una brutalizzazione, non solo della politica, ma anche della vita quotidiana. L’A. non si sofferma sulle relazioni di genere, ma ci introduce in zone, da lui ben conosciute, come quelle sportive, dove – è il caso, nel 1934, della partita di calcio Inghilterra-Italia – la nazionale italiana, che in quell’occasione indossava la maglia nera anziché l’azzurra, sfoderò una violenza senza precedenti per arrivare al pareggio, comunque non raggiunto (pp. 246-247).
È una società violenta quella che ci mostra Foot. Non solo. È una società in cui ci si può vantare della violenza inflitta agli avversari e ai nemici. Brandimarte esaltò pubblicamente la sua direzione della strage di Torino (p. 157); Vittorio Mussolini, figlio del duce, descrisse con compiacimento gli incendi dei villaggi etiopi: «era un lavoro divertentissimo[…]. Bisognava centrare bene il tetto di paglia […]. Quei disgraziati che stavano dentro e si vedevano bruciare il tetto saltavano fuori scappando come indemoniati» (p. 238). E, analogamente, altri. All’ostentazione di forza, che è tracotanza, fa da pendant il grande silenzio che avvolge e a cui sono costretti gli oppositori, cancellati nel Ventennio dalla storia e dalla memoria (a meno di non ribadirne, ma come massa indistinta, la bestialità e la mostruosità). Il lavoro di Foot risponde anche a un intento riparatorio nei confronti delle vittime del fascismo, innanzitutto nominandole laddove possibile e, quindi, individualizzandole, poi ricostruendone le vicissitudini negli anni del Regime e, da ultimo, riproducendo, quando presenti, le iscrizioni delle lapidi del dopoguerra che finalmente le onoravano.