Omar Coloru, Il Regno del più Forte. La lunga contesa per l’impero di Alessandro Magno (IV-III sec a.C.), Roma, Salerno Editrice, 2022, 150 pp.
Il saggio di Coloru, che insegna storia greca all’Università di Bari ed è uno specialista di età ellenistica, si apre con un’analisi introduttiva in cui sono presi in esame i concetti di forza e debolezza nella storiografia antica e, più nello specifico, presso le corti ellenistiche formatesi alla morte di Alessandro Magno. È subito evidente la difficoltà di caratterizzare i personaggi forti, tali perché vincenti attraverso azioni violente o per superiorità morale. La trattazione si sviluppa in tre capitoli, dai titoli evocativi: “Al Migliore” (pp. 15-29), “I Deboli” (pp. 30-94) e infine “Violenza e Terrore” (pp. 95-116).
Il primo capitolo, “Al Migliore”, è un’analisi dell’ultima frase pronunciata da Alessandro ai generali radunatisi al suo capezzale nel giugno del 323 a.C.. Coloru pone in evidenza come la ricezione delle sue parole sia stata profondamente diversa in ogni autore che scrisse della vita di Alessandro. Gli storici Arriano e Diodoro, riportando le parole del condottiero, usano il termine kratistos, presupponendo la superiorità fisica di un individuo sugli altri. Tuttavia, come osserva giustamente Coloru, il significato letterale di kratistos non si rifà unicamente alle capacità fisiche quanto, soprattutto, all’autorevolezza e al diritto di governare dei diadochi. Curzio Rufo e Giustino riadattano la parola kratistos in chiave romana: il primo usa il termine dignus mentre il secondo il superlativo dignissimus. L’espressione assume, in questo caso, un valore morale che è ottenibile solo attraverso la vittoria militare. L’espressione usata dall’autore del Romanzo di Alessandro è forse la meno soggetta a interpretazioni: nell’opera è utilizzato il participio del verbo iskhuo che sottolinea da un lato la forza fisica ma anche la capacità di mantenerne il controllo sapendola sfruttare. Sebbene i vocaboli rappresentino declinazioni differenti della potenza, appare chiaro che il mantenimento del potere a corte è una costante agonistica e personalistica sempre in discussione.
Il secondo capitolo, “I Deboli”, paradossalmente costituisce la parte principale di un libro che, almeno nominalmente, si impegna a definire in primis i forti. L’autore si concentra su tre tipologie di deboli: i successori secondo la linea patrilineare, le donne legate alla dinastia argeade e, infine, Eumene di Cardia, outsider rispetto ai macedoni poiché di origine greca. Le figure di Filippo III, Alessandro IV ed Eracle rappresentano la debolezza “fisica”: il primo a causa delle sue precarie condizioni di salute che tuttora generano perplessità negli studiosi, gli altri due per via della giovane età e dell’inesperienza. Questi successori, pur essendo in una posizione di forza data dalla loro origine, non riuscirono mai a imporsi nei confronti dei generali, sempre alla ricerca di un’occasione per affermare il loro diritto a governare. Una lunga sezione del volume è dedicata alle donne legate ad Alessandro: queste si dovettero misurare con un mondo profondamente misogino che non poteva accettare nessun tipo di potere femminile. Le compagne di Alessandro, accomunate dall’origine non greca, furono eliminate o relegate al ruolo passivo di mogli e madri. Rossane, pur avendo generato l’erede del Macedone, ebbe la stessa sorte delle altre. D’altra parte, figure come Cinnane, Euridice e Olimpiade non sembrano sottostare alle regole di genere, mostrandosi partecipi di importanti scelte politiche e assumendo il comando dell’esercito macedone. Il loro ruolo rilevante nella lotta politica per la successione, pur senza aver raggiunto un obiettivo preciso, ha lasciato un segno profondo nell’immaginario comune delle regine guerriere. La parte finale del capitolo è dedicata a Eumene di Cardia, figura debole perché di origine greca in un conflitto altrimenti tutto macedone. Egli inizialmente riuscì a ridimensionare la sua condizione di greco agli occhi di persiani e macedoni: questo successo, assieme alle sue capacità militari, gli permise di tenere a lungo testa ai migliori generali di Alessandro. Tuttavia, la sua leadership non fu mai pienamente accettata dagli ufficiali macedoni: di conseguenza le sue origini furono un motivo per tradirlo e consegnarlo ad Antigono. Coloru evidenzia come tutti i presunti deboli di questo capitolo in realtà non lo furono mai a priori: per certi aspetti vissero nella posizione di sfavoriti, provando, tuttavia, a sfruttare in maniera proficua i vantaggi dati dal loro ruolo.
La terza e ultima parte del volume è dedicata alla descrizione delle pratiche violente e coercitive messe in atto dai diadochi nei confronti di nemici, avversari politici e parenti. Coloru ricorda giustamente che il ricorso a mezzi violenti per mantenere il potere politico e la fiducia dei propri collaboratori non è una novità della prima età ellenistica; tuttavia, Alessandro e i suoi successori diedero un contributo attivo al fenomeno. Ogni sovrano, in maniera più o meno decisa, utilizzò la violenza per affermare il proprio potere. Anche se Tolemeo è descritto dalle fonti come un regnante generoso e amato dal popolo, è noto come si sia dimostrato spietato contro chi mise in dubbio la sua autorità. Figure come Demetrio Poliorcete e Agatocle di Siracusa ordinarono massacri efferati nei confronti dei nemici esterni o di quelli interni contribuendo a creare un clima di terrore che prontamente alimentarono. Nemmeno i familiari potevano considerarsi al sicuro: Lisimaco eliminò il figlio Agatocle perché sospettato di tradimento, mentre Tolemeo Cerauno fece assassinare i figli della sorellastra Arsinoe per cementare la propria posizione nella corte macedone. Gli atteggiamenti di crudeltà, tuttavia, non sempre contribuivano a mantenere sotto controllo la popolazione, potevano anzi essere usati come accusa per contrastare un generale e insidiarne la sua credibilità: il caso di Tibrone, come spiega Coloru, è esemplare. Infine, anche il terrore suscitato nei nemici esterni risultò essere un’arma di estrema rilevanza: il Poliorcete fu tanto un maestro nell’assediare quanto nel logorare il morale dei suoi nemici.
In buona sostanza il concetto di forza e potenza, filo rosso dell’opera, viene approfondito da Coloru attraverso una scrupolosa analisi delle fonti a disposizione nonché degli studi critici più recenti. È apprezzabile l’analisi filologica nel primo capitolo così come l’ampia sezione, solo in apparenza controintuitiva, dedicata ai “deboli” della lotta alla successione. Il particolare risalto dato alle figure femminili macedoni è ben argomentato. La terza e ultima parte è organizzata come un compendio della violenza e forse risulta la sezione meno organica, pur essendo quella che meglio approfondisce i caratteri dei generali di Alessandro. Nel complesso, il contributo è interessante e non eccessivamente tecnico, lo stile è chiaro e scorrevole; richiede, tuttavia, una conoscenza generale della prima età ellenistica per comprendere appieno ogni filone discusso nell’opera.