Andrea Gamberini, Inferni medievali. Dipingere il mondo dei morti per orientare la società dei vivi. Roma: Viella, 2021. 214 pp.
Il volume di Andrea Gamberini, Inferni medievali. Dipingere il mondo dei morti per orientare la società dei vivi, dichiara fin dal sottotitolo il suo scopo: analizzare le raffigurazioni dell’Inferno nella pittura medievale per scoprire come quest’iconografia è stata piegata – in contesti molto diversi tra loro – alle esigenze dalla committenza e del pubblico cui era destinata.
Nella pittura tardomedievale la raffigurazione dell’Inferno è molto diffusa, sia in contesti religiosi, sia, in misura minore, nei luoghi del potere comunale: lo scopo di queste raffigurazioni è chiaro, istruire i fedeli sui rischi legati al peccato e rammentare loro le terribili punizioni di una dannazione senza speranza.
Il lavoro di Andrea Gamberini, professore ordinario di Storia Medievale all’Università di Milano, è ricco e stratificato. Nel corso degli undici capitoli che compongono il volume l’autore, dopo aver chiarito le ragioni che lo hanno portato a scegliere questo tema e la decisione di escludere dalla trattazione la scultura, offre una breve disanima delle fonti di riferimento: se infatti nel mondo classico l’Aldilà è un luogo scarsamente connotato e privo di patimenti e tormenti, anche nell’Antico Testamento, dove si va precisando la descrizione dell’Inferno come luogo di punizione, le descrizioni sono generiche e poco adatte a colpire l’immaginario dei fedeli. L’Inferno dell’immaginario dei cristiani medievali deriva soprattutto da testi apocrifi.
Ma sono le fonti iconografiche a interessare soprattutto l’autore: nei capitoli centrali del volume, Gamberini divide il suo materiale in percorsi legati ai diversi contesti, procedendo per casi esemplari, a partire da una tavola, di forma bizzarra, oggi esposta alla Pinacoteca dei Musei Vaticani e proveniente dal romano oratorio di San Gregorio Nazianzeno, forse la più antica raffigurazione dei peccati che conducono all’Inferno della pittura italiana. La monumentale pala d’altare serve per introdurre la tesi portante del volume: per l’autore la raffigurazione dell’Inferno è sempre orientata al pubblico di riferimento, con una disanima dei peccati che, muovendosi in parallelo allo sviluppo dei testi apocalittici, serve a indirizzare gli osservatori e i fedeli verso la retta via. Fin dalle prime discussioni sulle raffigurazioni medievali Gamberini usa le immagini come fonti storiche, con attenzione ai committenti, al pubblico di riferimento, ai contesti. Manca tuttavia – ed è certo per scelta matura dell’autore, che decide di non avventurarsi in campi che non lo competono – una disanima storico-artistica: forse avrebbe giovato all’analisi una discussione specifica sugli elementi del linguaggio figurativo, come gli accostamenti cromatici, le proporzioni, il disporsi delle figure su più piani.
La tesi dell’autore – che la raffigurazione infernale serva a orientare la società cristiana – è rafforzata dalla ricchissima selva di esempi tutti provenienti, come si diceva, dalla pittura monumentale, ossia raffigurazioni di grandi dimensioni, destinate ad una visione pubblica e in genere collocate in spazi a tutti accessibili, come ad esempio nelle chiese o nei palazzi comunali. L’analisi procede raggruppando i committenti o i contesti in base all’analogia: la ricca aristocrazia cittadina o del contado – come il caso famosissimo di Enrico Scrovegni e della sua cappella a Padova – le città con i loro palazzi pubblici o chiese comunali, e poi i luoghi delle confraternite, degli ordini mendicanti e dello scontro, vivissimo nello scorcio del Medioevo, tra frati e monaci.
In questo racconto tematico spiccano, per contrasto, gli ultimi due capitoli, dedicati a una sorta di micro storia nel racconto globale dell’immaginario dell’Inferno. Il nono capitolo esplora infatti il tema dell’“altro”, ossia la presenza di turchi, ebrei, tartari nelle rappresentazioni infernali: anche in questo caso l’autore sottolinea come la raffigurazione del diverso parli sempre ai cristiani e mai, ovviamente, a fedeli di altre religioni. L’ultimo capitolo infine è dedicato al dantismo dei pittori, analizzando come il modello imprescindibile di Dante si trasformi da riferimento letterario ad auctoritas teologica e morale, a cui si affidano sia i predicatori, sia chi elabora i programmi iconografici e decorativi.
Quando finisce la storia dell’iconografia infernale? È nel corso del Cinquecento, con le nuove tendenze spirituali dell’inizio del secolo e poi con la Controriforma, che questo tipo di raffigurazioni conosce una battuta d’arresto: non si raffigura più l’Inferno, ma l’Antinferno, e soprattutto il Giudizio, dove una massa anonima e indistinta di peccatori non è più connotata in modo specifico: a emergere è una spiritualità nuova, in cui il Giudizio universale non è più visto come una terribile mannaia, che divide i salvati dai reprobi, ma come un “traguardo di salvezza che in tanti sono destinati a varcare” (p. 179).
Il ricchissimo materiale analizzato dall’autore è supportato da una buona presenza di immagini: nonostante il variare del formato delle foto – che non sempre permette di comprendere le dimensioni delle rappresentazioni – le illustrazioni del volume accompagnano il lettore in questo percorso denso di informazioni. Giova sicuramente la presenza di due indici – dei nomi di luogo e di persona – mentre forse avrebbe aiutato meglio la comprensione una cartina geografica, con indicati i luoghi delle raffigurazioni analizzate.