François Hartog, Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo. Torino: Einaudi, 2022. 328 pp.
Nonostante l’apparente ovvietà, individuare il problema essenziale che accompagna l’ultima fatica di François Hartog non è affatto scontato. Lo stesso studioso francese, direttore di studi presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, tiene a ribadire in apertura che «le pagine che seguono non sono né una filosofia del tempo in Occidente, né una storia del tempo dall’Antichità ai nostri giorni, né un inventario delle tecniche sempre più precise della sua misurazione»; piuttosto, si tratta di «un saggio sull’ordine dei tempi e sulle epoche del tempo in quello che è diventato il mondo occidentale» (XII). Lungi dal rivelare una discontinuità, il testo si inserisce perciò a pieno titolo nel solco tipico della produzione matura dell’autore, improntata a una riflessione concettuale sull’esperienza della temporalità nel mondo occidentale e ben rappresentata dalle celebri nozioni di presentismo e di regimi di storicità.
In effetti Hartog ragiona sempre (in questo caso con una limpidezza esemplare) a partire dalla domanda posta dal tempo presente, anche quando a essere oggetto di attenzione sono i regimi di storicità passati. Il testo inizia con la descrizione del regime cristiano e ancor prima dell’eredità greco-antica, alla quale risale quella terna cruciale che scandisce tuttora il tempo occidentale e che è composta da Chronos, Kairos e Krisis. In modo sommario è possibile associare Chronos al tempo ordinario che passa e si misura, Kairos alla temporalità dell’istante che chiama alla chance e all’azione efficace, e Krisis al tempo che giudica e separa. È attorno a questa triade che ruota l’intero impianto del testo, così come è lo slittamento della posizione di Chronos a segnare il passaggio tra i regimi: se «per i Greci, la coppia che agiva immediatamente era chronos e kairos, mentre krisis interveniva come terzo momento, segnando un prima e un dopo rispetto al giudizio», con l’immissione di una prospettiva escatologica «tutto cambia: Chronos è, per così dire, fissato e destituito da Krisis e Kairos» (64). In estrema sintesi, la vita di Gesù si svolge nel tempo chronos – ma solo per manifestare in esso una forza assolutamente kairotica. Lo spostamento nel secondo capitolo dell’analisi dal terreno dottrinale (con la tematizzazione delle fonti bibliche) a quello storico-evenemenziale appare allora come il completamento di un unico movimento, più che un brusco cambio di prospettiva. Devono subentrare ricostruzioni da storico puro, infatti, affinché possano emergere a un tempo le esigenze e le soluzioni del tutto pratiche sottese alla prescrizione del nuovo regime di storicità. Tra i dispositivi ideati per controllare Chronos nel modo più stabile possibile, Hartog insiste sulle innovazioni dei calendari e sul lavoro minuzioso, scandito in tabelle e calcoli, dei cronografi dell’epoca.
Eppure si rileva, nonostante gli sforzi, la necessità di «venire a patti con Chronos». Questo è anche il titolo del terzo capitolo, utile insieme al quarto a rilevare l’estrema difficoltà incontrata dal tentativo cristiano. Il ricorso a una serie di operatori temporali – duplici, in quanto ancorati nel tempo kairos, ma con un’apertura rivolta alla dimensione del tempo chronos – conosce con il trapassare dell’età moderna una perdita d’uso o un pervertimento, spesso inconsapevole. Un unico caso, al riguardo, può risultare sufficientemente illuminante. L’operatore della translatio, la successione degli imperi che fin dal Libro di Daniele doveva accompagnare verso la fine dei tempi e cioè lungo il tempo della fine, è non solo criticato ma anche più sottilmente storicizzato: deformato, cioè, per includere dinamiche del tutto immanenti e con chiara funzione ideologica quali l’attribuzione del ruolo di quinto regno a realtà politicamente connotate (ad esempio il Portogallo colonizzatore del Nuovo Mondo, nella visione del pur devoto gesuita António Vieira).
La dinamica conduce al trionfo di Chronos tra la fine del XVIII e la metà del XX secolo. Nel quinto capitolo i lettori di Koselleck troveranno discussioni decisamente familiari attorno ai caratteri della temporalità moderna, svolte lungo temi quali il predominio della categoria del futuro, l’esperienza di accelerazione del tempo e l’imporsi della fede nel progresso. In ogni caso, e l’evidenziarlo è un merito non secondario dell’autore, non si tratta mai di processi assolutamente lineari o monolitici; come Chronos conservava un suo ambito anche nel momento di massima intensità del regime di storicità cristiano, così ora si incontrano tentativi di esaltare il lampo di Kairos e Krisis all’interno del tempo pienamente ordinario (sono citati, a questo proposito, i casi di Chateaubriand e di Ernest Renan). Da qui si trae la lezione decisiva del volume di Hartog, e cioè che nessun trionfo, in questo senso, è mai pienamente completo; o in altre parole, che nessun regime di storicità è eterno. Lo stesso Chronos che pareva invincibile conosce la Krisis della seconda guerra mondiale e si rassegna a «un tempo in cui il presente tende a occupare tutto lo spazio» (244): tale è il lascito, tuttora dominante nel regime di storicità contemporaneo, di quel presentismo che corrisponde a una desertificazione del futuro e dello stesso passato.
A questo aspetto e alle conclusioni si può dedicare un unico e a nostra volta finale discorso. Il pensiero che muove la ricerca di Hartog, lo si è detto, corrisponde alla domanda che il presente pone al suo osservatore. Per questa ragione l’autore si mostra ben attento a terminare nel segno degli studi recenti sull’Antropocene. Con quest’ultimo si aggiunge a quello finora conosciuto un Chronos radicalmente diverso, e cioè un tempo profondo la cui longue durée non può in alcun modo essere compresa dalle scale di misurazione umane; Hartog si chiede se si possa parlare per la contemporaneità di un regime antropocenico di storicità. In tal caso vivremmo all’interno di un doppio Chronos, o di un Chronos nostro malgrado sdoppiato, a metà tra la familiarità e l’assoluta estraneità. Il compito (nel segno del citato Latour) sarebbe allora quello di «districare il groviglio delle temporalità multiple, conflittuali, anche antagoniste, dei tempi del mondo, tutte ugualmente in balia dell’urgenza e sempre più configurate, se non governate, dal presentismo digitale» (300).
Queste ultime pagine sono interessanti più come spunti per una riflessione ulteriore, da sviluppare concettualmente, che come argomenti fin d’ora maturi. Ma porre le domande giuste è già un valido merito. Sorge allora di rimando un interrogativo, nostro, attorno al ruolo dello storico in tutto ciò. Tra le discussioni a venire, forse almeno una andrebbe dedicata proprio alla precisazione del suo compito, tanto urgente e delicato e tuttavia non ancora pienamente a fuoco. Quel che è certo, come Hartog ci insegna insieme ad altri grandi studiosi, è che la Krisis del proprio presente è anche la grande chance kairotica per riaprire il tempo – storico e più che storico – che ci abita e che abitiamo. Vivere coscientemente questa Krisis, in tal senso, si configura come una vera e propria responsabilità