Introduzione
La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. L’idea che il regime potesse aver ottenuto un successo anche al di fuori del territorio nazionale sembrava contraddire la visione a un tempo vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, costretti alla fuga da un paese ingrato e da un regime illiberale. Sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero, simpatie mussoliniane venivano attribuite quasi esclusivamente ai connazionali residenti negli Stati Uniti. Nel corso degli ultimi decenni, tuttavia, gli studi sul fascismo all’estero si sono moltiplicati, prendendo in considerazione anche contesti differenti da quello nordamericano. Dapprima gli storici si sono concentrati sui fasci d’esportazione, sottolineando spesso la loro debolezza e la loro difficoltà a imporsi come strumento del regime [Fabiano 1983; Gentile 1995; Bertonha 2002a; Franzina-Sanfilippo 2003]. A questi studi si sono affiancati, più recentemente, saggi dedicati alla propaganda, che hanno dimostrato la forte volontà del governo mussoliniano di conquistare il consenso degli italiani all’estero e di incunearsi nelle società ospiti, in nome della vocazione universalistica attribuita al fascismo da alcuni esponenti del partito [Garzarelli 2004; Cavarocchi 2010]. Il regime, più prosaicamente, cercò di sfruttare la presenza dei migranti nei paesi ospiti soprattutto per fare pressione sui governi, allo scopo di ottenere vantaggi e sostegni internazionali [1]. La storia del fascismo all’estero si è inoltre arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Raramente gli storici del fascismo all’estero si sono dedicati, invece, a un approccio comparativo sia tra contesti regionali all’interno dello stesso paese, sia tra paesi diversi. L’eccezione più rilevante, in questo senso, è quella di João Fábio Bertonha che, partendo dall’analisi della diffusione del fascismo in Brasile, ha con diversi contributi provato a mostrare la proficuità del metodo comparativo [Bertonha 1999; Bertonha 2001b; Bertonha 2002b]. In particolare, secondo lo storico brasiliano, lo studio del fascismo e dell’antifascismo fuori dall’Italia rappresenterebbe un nuovo orizzonte per la storiografia, capace di restituire il carattere transnazionale dei fenomeni migratori, anche nella loro dimensione politica [Bertonha 2003]. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli che, avvalendosi degli studi sino a quel momento compiuti da ricercatori italiani e stranieri, ha proposto una sintesi dei principali nuclei di ricerca, cercando di sottolineare le sfumature presenti nei diversi contesti nazionali [Pretelli 2010] [2]. L’obiettivo di questo saggio è, dunque, quello di tentare una comparazione della fascistizzazione delle comunità italiane in due contesti particolarmente differenti. Il Brasile è, infatti, concordemente ritenuto uno dei paesi nel quale il fascismo ottenne i migliori risultati, mentre, per quel che riguarda la Francia, dove importante fu la presenza di antifascisti, la forza del regime è stata riconosciuta con maggiore reticenza. Il tentativo di comparazione si basa sulla convinzione che il fascismo all’estero non fu un monolito e che, malgrado la forte volontà del regime di uniformare l’atteggiamento dei poteri consolari nei diversi contesti d’azione, le direttive giunte da Roma furono variamente interpretate secondo le necessità locali.
Gli strumenti del fascismo all’estero
I fasci italiani all’estero assunsero, in Francia e Brasile, un ruolo di primissimo piano nel corso degli anni Venti. Nati alcuni mesi prima della marcia su Roma anche grazie all’azione di precedenti organizzazioni di stampo nazionalista, furono, in principio, piccoli nuclei di reduci della Grande Guerra spesso guidati da intellettuali e giornalisti come Camillo Pellizzi a Londra o Nicola Bonservizi a Parigi. La gran parte dei fasci vide, tuttavia, la luce in Europa e nelle Americhe immediatamente dopo la conquista mussoliniana del potere: così, già nel 1925, ben 20 erano i gruppi fascisti nel paese transalpino [De Caprariis 2003, 7]. Nel continente sudamericano fu a Buenos Aires che sorse la prima sezione fascista, seguita, nel marzo 1923, da quella di São Paulo, nata su iniziativa del controverso Emidio Rocchetti. Il Brasile divenne, in breve tempo, il paese latinoamericano col maggior numero di fasci [Trento 2003, 154-155; Trento 2005, 15-17]. La storia dei gruppi fascisti, anche a causa della forte personalità del primo segretario generale dei fasci all’estero Giuseppe Bastianini, fu segnata da grandi ambiguità, simili a quelle che nella prima fase del regime contraddistinsero i rapporti tra stato e partito, generando forti contrasti con le rappresentanze consolari soprattutto in Francia. Solamente grazie all’opera di fascistizzazione del corpo diplomatico, intrapresa da Dino Grandi, le tensioni sembrarono via via rientrare. Con Piero Parini, divenuto segretario dei fasci all’estero alla fine del 1927, si giunse alla definitiva cessazione dell’autonomia delle sezioni fasciste, nell’ambito della complessiva riorganizzazione della politica migratoria italiana che concentrava tutti i poteri nella Direzione Generale degli Italiani all’Estero, guidata dallo stesso Parini presso il Ministero degli Esteri [Gentile 1995, 910-916 e 950-956; De Caprariis 2003, 15-19].
La volontà normalizzatrice che aveva portato al ridimensionamento politico del ruolo dei fasci non fu solo il portato dello scontro interno tra esponenti statalisti e fascisti rivoluzionari, ma anche il frutto di una scelta consapevole di realpolitik da parte del governo mussoliniano. La Francia della metà degli anni Venti fu, infatti, attraversata da una lunga scia di scontri e violenze tra fascisti e antifascisti, inaugurata dall’assassinio a Parigi, nel 1924, di Nicola Bonservizi [Milza 1983, 431-432]. Tali eventi coinvolsero diversi dirigenti e persino prelati accusati di essere complici del regime, tra cui don Caravadossi, ucciso a Jœuf, in Lorena, nel 1928 [Pinna 2012, 195-196]. A Nizza, nel settembre 1929, si ebbe l’episodio più sanguinoso, con l’assassinio di tre membri dell’Associazione Nazionale Combattenti colpiti da una bomba lanciata da uno sconosciuto [Schor 1991, 140]. L’opinione pubblica francese guardò con ostilità a tali accadimenti e all’ostentazione con cui alcuni fascisti sceglievano di manifestare la propria vicinanza al regime. Così, un grosso scandalo scoppiò a Tolosa quando, nel febbraio 1926, alcuni militanti indossarono la camicia nera, provocando le ire del sindaco della città Étienne Billières, socialista e noto amico degli esiliati antifascisti della regione, e una dura polemica che coinvolse le autorità locali e nazionali [Teulières 2002, 97-98; Pinna 2012, 214-216]. Anche in seguito a questi fatti, il Ministero dell’Interno francese vietò agli stranieri, con la circolare n. 5 del 5 ottobre 1926, di manifestare con simboli e divise che potessero indurre a contromanifestazioni o incidenti [3]. La violenza squadrista e la violenza rivoluzionaria erano state d’altronde elementi fondativi dello scontro tra fascismo e antifascismo nel corso degli anni Venti. Le aggressioni reciproche, che spesso videro all’estero un ribaltamento tra vittime e carnefici rispetto all’Italia, rappresentavano un elemento di forte rafforzamento dell’identità politica, ma non portavano alcun vantaggio alle organizzazioni contrapposte. I giovani fascisti che parteciparono agli scontri sembravano voler recuperare in qualche modo una tradizione di arditismo, che talora neppure avevano vissuto in patria, mentre negli antifascisti prevalevano il sentimento di vendetta e, soprattutto, la volontà di dimostrare che, nonostante l’esilio, essi non si sentivano vinti. La stessa formazione culturale di alcuni dirigenti fascisti – che erano stati squadristi nella madrepatria e che spesso vivevano la militanza come una battaglia – favoriva la propensione alla violenza: il fondatore del fascio paulista Emidio Rocchetti, ad esempio, giunse a São Paulo dopo aver ucciso il segretario del partito comunista di Macerata. In Brasile, tuttavia, la situazione apparve decisamente più tranquilla rispetto alla Francia. La violenza rimase un fenomeno sostanzialmente marginale nel paese latinoamericano, dove non si verificarono scontri significativi anche per la grande debolezza del movimento antifascista. Ciononostante, anche in Brasile gli esponenti delle élites sostennero il processo di normalizzazione che avrebbe potuto offrire maggiore credibilità alle organizzazioni fasciste e quindi tutelare meglio i loro interessi [Trento 2005, 15-17].
La pressione normalizzatrice del regime portò, negli anni Venti e Trenta, alla perdita della carica politica universalista e rivoluzionaria che i primi fondatori avevano voluto dare ai fasci all’estero, ma anche a una loro moltiplicazione. Nel 1927 i gruppi fascisti in Brasile erano 52 e nel 1934 già 82, di cui 35 nel solo stato di São Paulo [Trento 2003, 155]. In Francia la situazione era ancora migliore per i seguaci di Mussolini se è vero che, nel 1938, i fasci erano addirittura 274, circa la metà di quelli presenti in Europa e un quarto del totale [Milza 1993, 248]. La normalizzazione coincise anche con la progressiva fascistizzazione del corpo diplomatico. L’inserimento dei cosiddetti consoli fascisti da parte del regime agevolò, in maniera apparentemente paradossale, il ritorno a una situazione di maggiore tranquillità. Di fatto si stabiliva ora che erano i consolati, divenuti il centro dell’azione di propaganda, a detenere il potere decisionale. I fasci all’estero assunsero sempre più un carattere ausiliare, dedicandosi, pur senza perdere completamente la propria vocazione militante, all’assistenza e al sostegno delle comunità immigrate. L’impegno dei consoli portò ottimi risultati e fu particolarmente evidente in alcune realtà che, fino a quel momento, avevano contribuito all’accrescimento del numero dei soci in misura più moderata, come accadde a Porto Alegre grazie all’opera del console Manfredo Chiostri [Bertonha 2001a, 218-223]. In Brasile il principale protagonista di questa nuova fase fu, però, il console di São Paulo, Serafino Mazzolini, vicesegretario del PNF fra il 1924 e il 1926, che si dedicò con grande cura alla diffusione del fascismo nello stato paulista secondo le indicazioni provenienti da Roma [Trento 1994, 257-258]. Anche in Francia, in particolare in città come Marsiglia, dove divenne console Carlo Barduzzi, ex segretario del PNF trentino, o a Nizza e nel Nord-Pas-de-Calais, l’arrivo dei nuovi rappresentanti diplomatici diede maggior vigore ai fasci cittadini [Temime 1986, 566-567; Schor 2011].
Il numero di iscritti alle organizzazioni fasciste appare difficile da stabilire. Secondo Angelo Trento i fasci in Brasile non superarono mai la cifra di 5.000-6.000 soci, gran parte dei quali concentrati nella regione paulista, su quasi mezzo milione di immigrati italiani, mentre in Francia meno del 2% degli italiani presenti e circa il 2,2% di quelli arrivati nel paese tra il 1911 e il 1939 avrebbe aderito alle organizzazioni fasciste [Trento 2003, 155; Vial 2003, 31; Maltone 1998, 119]. Pierre Milza ha avanzato, inoltre, l’ipotesi di circa 10.000-12.000 iscritti ai fasci transalpini per il 1937-1938, su quasi 800.000 italiani, a cui andavano sommati, però, gli aderenti alle organizzazioni dopolavoristiche e giovanili [Milza 1993, 249]. Nel 1930 i soci del fascio sarebbero stati circa 3.000 a Parigi, benché solo 500-600 potessero considerarsi realmente attivi, e 1.000 a Nizza, dove poi sarebbero aumentati sino a raggiungere la considerevole cifra di 2.200 nel 1938 [Milza 1995, 95; Schor 2011]. Allo stesso modo, è ora noto che in alcune aree periferiche francesi come la Lorena e il sud-ovest i fasci avvicinarono alcune migliaia di persone, benché le fonti consolari non possano considerarsi completamente degne di fede. Complessivamente, la debolezza e l’assoluta incertezza dei numeri hanno fatto sì che, per molto tempo, si sia ipotizzata una sostanziale incapacità dei fascisti di conquistare i migranti, catalogando i differenti strumenti messi in atto dal corpo diplomatico e dalle organizzazioni fasciste come grotteschi tentativi dagli scarsi risultati. La presenza capillare dei fasci, tanto in Francia quanto in Brasile, non deve invece essere sottovalutata. Le organizzazioni del regime, infatti, non erano presenti solo nei grandi centri come São Paulo, Rio de Janeiro, Parigi o Marsiglia, ma ebbero una capacità di penetrazione a tratti sorprendente. Così, piccoli gruppi riunivano gli italiani a Obidos nello stato del Parà o a Sobral Pinto nel Minas Gerais, in nome di un’appartenenza etnica prima ancora che politica [Trento 2003 155-156; Trento 2005, 17]. A Recife il fascio, sorto nel 1924, riuniva, alla fine degli anni Trenta, cento italiani sui cinquecento residenti nella città, con una percentuale di gran lunga superiore a quella raggiunta dall’organizzazione fascista di São Paulo [Bertonha 1998, 197]. Allo stesso modo, fasci nacquero nei centri isolati delle campagne della Francia sud-occidentale, dove gli italiani erano giunti numerosi a coltivare terre ormai abbandonate dai francesi, e in molti villaggi degli italiani nelle regioni minerarie dell’est [Maltone 1998, 122-123; Pinna 2012, 204].
La capacità fascista di incunearsi nelle città e nei villaggi sembra dunque ridimensionare l’importanza dei numeri, anche in considerazione del fatto che i fasci rappresentarono solo uno degli strumenti utilizzati dal regime per raggiungere e conquistare i migranti. Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta si assistette alla costruzione di un vero e proprio sistema fascista di intervento nei differenti paesi stranieri, che manteneva alcuni tratti comuni pur differenziandosi a seconda dei contesti nei quali si trovava a operare. La strategia fascista per la penetrazione nelle comunità immigrate si basò su tre fondamentali pilastri: il controllo delle attività assistenziali e ricreative, la propaganda e la costruzione di un sistema di alleanze. Già nel 1925 – almeno secondo l’incaricato d’affari francese a Roma – il duce avrebbe richiesto una «azione specifica d’assistenza economica, morale e patriottica ai lavoratori emigrati» con una particolare attenzione «all’educazione fisica, sportiva, all’insegnamento generale e professionale, alla propaganda morale contro l’alcolismo e le malattie, all’assistenza economica e morale, alla propaganda affettiva e culturale italiana» [4]. La nascita dell’Ond (Opera Nazionale Dopolavoro) all’estero e delle Ogie (Organizzazioni Giovanili degli Italiani all’Estero) – poi divenute Gile (Gioventù Italiana del Littorio all’Estero) – sembrarono rispondere a tali necessità. Il dopolavoro fu il perno principale dell’organizzazione fascista all’estero; secondo quanto sostenne lo stesso Mussolini in una circolare del 1929, conservata presso gli archivi francesi, il compito dell’Opera nei paesi stranieri era costituito da una «azione multipla e quasi indefinibile che è destinata a legare lo spirito dei compatrioti per sottrarli alle influenze negative e portarli verso un fine patriottico sotto l’influenza positiva dello spirito d’educazione, dello spirito d’associazione e dello spirito di emulazione». L’educazione fascista prevedeva dunque che, nelle organizzazioni dopolavoristiche, si proponessero corsi di lingua, di musica, trovassero spazio biblioteche, si svolgessero conferenze e proiezioni cinematografiche ma anche feste e cerimonie pubbliche, sorgessero gruppi teatrali e musicali e, soprattutto, fosse possibile per gli italiani praticare sport [5]. La crescita delle organizzazioni dopolavoristiche fu impressionante, se è vero che vi sarebbero state 244 sezioni all’estero nel 1937 e 332 nel 1939 [Bertonha 2001a, 45]. La prima sede brasiliana fu inaugurata a Rio nel 1929, mentre si dovette aspettare il 1931 perché l’Ond aprisse una propria filiale a São Paulo e gli anni successivi per vedere la medesima capillarità nei centri grandi e piccoli già registrata nel caso dei fasci. A São Paulo, secondo alcune fonti, gli iscritti sarebbero stati circa 2.200 nel 1932, quasi 6.000 nel 1934, 7.000 un anno dopo e addirittura – ma qui la cifra appare davvero improbabile – 40.000 nel 1938. A differenza di quanto accadeva in Francia, le Ond brasiliane attrassero persone di ogni nazionalità e, dopo il 1932, i brasiliani poterono persino accedere alle cariche direttive anche se a occupare gli incarichi più prestigiosi vennero normalmente chiamati italiani naturalizzati [Trento 2005, 23-24]. Le attività dei dopolavoro spaziavano, secondo le indicazioni provenienti da Roma, dall’organizzazione di feste e iniziative ricreative sino alla costruzione di una rete di sostegno alla popolazione, basata su attività che univano inscindibilmente assistenza e politica come la befana fascista o gli alberi di Natale, in stretta collaborazione con i consolati e i fasci. In Brasile le sezioni dopolavoristiche si impegnarono anche per celebrare il carnevale, dimostrando una grande capacità di assorbire le tradizioni locali e di sfruttarle a loro vantaggio [Guerrini, Pluviano 195, 526].
Le organizzazioni fasciste all’estero, come richiesto dal regime, diedero inoltre largo spazio alle attività sportive, prestando particolare attenzione alla partecipazione giovanile. Lo sport assunse, all’interno dell’ideologia fascista, un forte ruolo pedagogico ed educativo nella costruzione dell’umanità nuova anche all’estero e divenne un fondamentale strumento di disciplina e controllo, confermando quella che Victoria De Grazia ha definito «una vera e propria ossessione» da parte del regime [De Grazia 1981, 249]. L’indicazione delle attività sportive come uno dei principali compiti dei dopolavoro proveniva, come ricordato in precedenza, direttamente da Mussolini, che sosteneva enfaticamente il dovere degli immigrati di difendere i colori e la bandiera della patria [6]. L’organizzazione di squadre calcistiche nazionali doveva, in particolare, essere favorita non solo per l’amore tipicamente italiano nei confronti di questo sport, ma anche perché grazie al calcio, secondo il duce, si potevano incitare i connazionali alla competizione nei confronti degli elementi locali e favorire l’omogeneità interna al gruppo. Proprio per questo, il fascismo non si prodigò solamente nell’organizzazione di gruppi sportivi tra immigrati, ma utilizzò apertamente lo sport, calcio e ciclismo in primo luogo, come strumento di propaganda. Le partite di calcio amichevoli giocate da importanti squadre italiane nelle città francesi e brasiliane furono uno dei principali esempi dell’ambizione fascista, suscitando un grande entusiasmo tra i migranti. Ciononostante, anche altri sport furono ampiamente praticati all’interno dei dopolavoro, dalla lotta libera a Belo Horizonte, al ping-pong a Barretos [Guerrini, Pluviano 1995, 525], allo sci nelle aree montuose della Francia o al nuoto in quelle marittime.
La rete propagandistica
Lo spirito di conquista nei confronti dello spazio ricreativo e assistenziale provocò alcuni contrasti con le associazioni coloniali. In Brasile la presa delle vecchie associazioni che riunivano i notabili non sembrò, in realtà, particolarmente complessa, almeno dopo il 1928 [Bertonha 1998, 129-131]. Lo storico Circolo Italiano di São Paulo capitolò rapidamente, divenendo sin dal 1925 uno strumento nelle mani del regime [Tucci Carneiro 2010, 446]. Complessivamente, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Quaranta si assistette a una crescita non indifferente delle associazioni, specialmente quelle mutualistiche e con particolare intensità nello stato paulista, che furono agevolmente assimilate dal potere consolare. L’unica eccezione fu rappresentata dalla Lega Lombarda di São Paulo, sino agli anni Trenta «roccaforte antifascista», secondo la definizione di Angelo Trento, prima di essere anch’essa assorbita nella rete consolare fascista [Trento 2005, 26-27]. Anche in Francia, nel corso degli anni Venti, il numero delle società di mutuo soccorso e delle associazioni italiane si moltiplicò. Nel 1927, secondo il censimento degli italiani in Francia voluto dal Ministero degli Esteri, nel paese transalpino si contavano ben 237 società di beneficenza, ricreative, educative, culturali, sportive ed economiche, la maggior parte delle quali concentrate nelle circoscrizioni di Marsiglia, Parigi e Nizza. Tra esse non figuravano, naturalmente, le associazioni di chiara impronta antifascista [7]. Diversamente da quanto accaduto in Brasile, i sodalizi furono progressivamente costretti a scegliere se entrare nell’orbita del regime o opporre una resistenza che in Francia appariva difficile ma non impossibile. Così, la società di mutuo soccorso Il Bel Paese di Villerupt – fondata nel 1910 nell’est minerario della Francia, dove risiedevano migliaia di italiani, e presto divenuta una delle più grandi associazioni della regione – dovette combattere un’aspra battaglia per l’autonomia, riuscendo per molti anni, anche grazie al sostegno di esponenti socialisti, a salvaguardare la propria indipendenza [Pinna 2012, 274-275]. Complessivamente, tuttavia, la libertà delle associazioni – che peraltro anche negli anni precedenti il conflitto non era mai stata assoluta, visti i profondi legami con la rete consolare, con la Chiesa o con il nascente movimento socialista – andò lentamente perdendosi nel corso degli anni Trenta, quando tutte le società furono costrette a scegliere il regime o i suoi antagonisti. I fascisti mostrarono, in alcuni casi, un certo grado di creatività e una buona capacità di adattamento nel tentativo di controllare le masse immigrate attraverso le associazioni. Accanto alle tradizionali società mutuali, che esistevano soprattutto nei grandi centri urbani, e alle società sportive, i consolati e le organizzazioni fasciste sperimentarono, infatti, forme di associazionismo differente a seconda dei contesti nei quali si trovavano ad agire. Così, se in una regione di frontiera come la Lorena furono le associazioni combattentistiche a essere fortemente potenziate, nel sud-ovest agricolo della Francia furono creati consorzi e sodalizi che riunivano i contadini per rispondere alle loro necessità pratiche. L’incapacità dei dirigenti fascisti – spesso davvero quelle «fascistiche nullità» di cui parlava Camillo Pellizzi riferendosi al caso parigino [8] – e le spinte integrazioniste dello stato francese limitarono profondamente tali esperimenti, che, tuttavia, appaiono il segno di una interessante capacità fascista di cogliere le necessità delle diverse comunità italiane nelle quali operavano. Il tentativo di occupazione degli spazi ricreativi e di assistenza attraverso il dopolavoro, la rete consolare, le associazioni e gli stessi fasci giovò non poco al sistema di potere fascista. Il trionfo di tale progetto che, immaginato a Roma, veniva calato nei diversi contesti nazionali, avrebbe dovuto essere la centralizzazione di tutte le attività nelle Case d’Italia, luoghi di controllo e propaganda dell’italianità. I risultati furono, in realtà, abbastanza controversi perché le Case d’Italia, edificate in numerosissimi centri, divennero spesso sedi burocratiche dallo scarso successo e la partecipazione alle attività sportive e ricreative non si trasformò in quell’affermazione di italianità immaginata dal regime.
La volontà di conquistare gli italiani in nome della loro comune appartenenza nazionale e di un senso di nuova italianità fascista rappresentò, d’altra parte, il centro della propaganda del regime nel corso degli anni Venti e, soprattutto, degli anni Trenta. Come ha sottolineato Matteo Pretelli «il fascismo si adoperò attivamente contro gli stereotipi degli italiani che all’estero venivano spesso identificati come appartenenti a una razza “inferiore”, in quanto ritenuti particolarmente propensi alla violenza e alla criminalità […] facendo, al contrario, l’apologia della “stirpe italica”» [Pretelli 2010, 56]. Il mito di una nuova Italia, che riprendeva le glorie passate e i fasti moderni, iconicamente rappresentati dai voli transoceanici che larga eco ebbero in Brasile [Trento 2005, 35-36; Zega 2008], aveva d’altronde un duplice obiettivo. La volontà di migliorare l’immagine dell’Italia all’estero si univa alla necessità di imprimere un’accelerazione al processo di nazionalizzazione dei migranti, che molto spesso erano italiani solo di nome, ma si sentivano piuttosto veneti, piemontesi, emiliani o siciliani. Attraverso la costruzione del mito italiano, alimentato dalla nostalgia, si intendeva così sollecitare un processo che avrebbe garantito il mantenimento di un legame con la madrepatria, destinato altrimenti a perdersi nelle spire dell’integrazione alle società d’accoglienza. La propaganda fascista per la tutela dell’italianità ebbe mille rivoli, pur dovendo spesso fare i conti con ristrettezze economiche che ne limitavano la portata. Una grande importanza ebbero certamente le scuole italiane, realizzate spesso in collaborazione con la Dante Alighieri fascistizzata [Cavarocchi 2010, 130-140] e molto diffuse in Brasile e Francia, che spesso rappresentarono, specialmente alla fine degli anni Trenta, un motivo di tensione con gli stati ospiti, interessati alla naturalizzazione dei migranti di seconda generazione e per questo ostili a forme di nazionalismo etnico [9]. Nel Rio Grande do Sul, in particolare, a causa della volontà dell’Estado Novo varguista, almeno dopo il 1937, di procedere alla brasilianizzazione delle popolazioni di origine straniera, italiane ma soprattutto tedesche, le scuole etniche furono costrette a nazionalizzarsi, passando all’insegnamento in lingua portoghese che enfatizzava la brasilianità, oppure a chiudere i battenti [Beneduzi 2009, 125] [10].
Gli stessi media furono oggetto di grande attenzione da parte del regime, in particolare in Brasile. In Francia il foglio del fascio di Parigi La Nuova Italia, fondato nel 1923 da Bonservizi, non ebbe mai una diffusione enorme nel paese nonostante gli sforzi del regime per la sua crescita, raggiungendo nel 1942, in una Francia ormai occupata e devastata dal conflitto, 5.600 abbonati con una tiratura di 18.500 esemplari per settimana [Wiegandt-Sakoun 1986, 460]. Ben diversa era la situazione nel paese latinoamericano, dove fogli italiani di grande successo esistevano già nel periodo precedente il primo conflitto mondiale. La fascistizzazione del «Fanfulla», giornale borghese di São Paulo in lingua italiana fondato nel 1893 e che, già nel 1910, aveva una tiratura di 15.000 copie, rappresentò un’indubbia vittoria del regime. La sua conquista, nel 1923, fu celere, come ha raccontato Federico Croci, e fu probabilmente legata alle difficoltà economiche del giornale, che ben presto divenne il foglio ufficiale del fascismo in Brasile, dando largo spazio alle notizie da Roma e celebrando con entusiasmo il nuovo regime [Croci 2008, 174-175] [11]. Anche «Il Piccolo», che pure nel 1919 aveva attaccato duramente il movimento di Mussolini, fu rapidamente occupato dagli uomini del regime. Non furono solamente le pur impellenti necessità economiche e finanziarie a portare alla fascistizzazione di questi giornali. Secondo Angelo Trento, infatti, «alcuni degli aspetti più appariscenti del fascismo non potevano lasciare indifferenti questi fogli, primi fra tutti la strenua difesa dell’italianità, la lotta a particolarismi, regionalismi e localismi, ma soprattutto lo sbandierato prestigio della madrepatria sulla scena mondiale» [Trento 2009, 584] [12]. La situazione appariva quasi rovesciata tra Francia e Brasile, poiché se nel paese transalpino erano gli antifascisti ad avere quella che Massimo Legnani ha definito una fiducia eccessiva nella stampa [Legnani 1980, 261-262], nella nazione latinoamericana erano i fascisti a scommettere sul ruolo dei giornali per conquistare la comunità italiana. Dopo alcune tensioni provocate dalle aspre parole contro una giornalista brasiliana nel 1928, i periodici fascisti rimasero in vita sino al 1942, modificando i toni ma mantenendo il ruolo di portavoce della nuova italianità fascista [Trento 2009, 586-587; Trento 2011].
La propaganda scelse, tuttavia, a partire dagli anni Trenta, il cinema come strumento privilegiato per diffondere il proprio verbo. Le pellicole, per lo più documentari ma anche prodotti di finzione, furono fatte circolare in tutti i paesi europei e nelle Americhe. Le proiezioni, inizialmente immaginate come indirizzate ai soli migranti, furono successivamente aperte anche ai simpatizzanti stranieri, propagando l’immagine di un’Italia fascista sospesa tra tradizione e modernità, per rievocare l’immagine del paese lasciato dai migranti, celebrandone insieme le profonde innovazioni di cui le bonifiche – in particolare quella dell’Agro Pontino – erano il principale emblema. La Francia fu senz’altro la meta privilegiata delle produzioni cinematografiche, anche per la relativa semplicità con cui era possibile fare arrivare i materiali. Le pellicole furono così presentate in tutto il paese, dalla Lorena mineraria sino al sud-ovest passando ovviamente per Marsiglia e Parigi, spesso ricevendo ottimi riscontri di pubblico. Le proiezioni divennero occasione di celebrazione del regime e furono sovente accompagnate dai canti fascisti e dai saluti romani [Garzarelli 2004, 99-112]. Gli italiani – e anche alcuni francesi – sembrarono complessivamente accogliere con favore queste iniziative, accorrendo numerosi anche in una città dalla tradizione socialista come Tolosa, dove, a una proiezione realizzata presso un cinema nel 1934, parteciparono più di 350 persone [13]. Anche in Brasile i successi della propaganda cinematografica furono notevoli, se è vero che si organizzarono spettacoli itineranti nello stato di São Paulo in occasione della presentazione del documentario sulla visita di Hitler in Italia, proiettato persino in una grande fazenda di Ribeirão Preto [Trento 2005, 33-34]. La mancanza di fondi e la competizione con altre cinematografie, in particolare quella statunitense, resero, tuttavia, assai difficile una circolazione dei film italiani in Brasile al di fuori dei circuiti propagandistici [Bertonha 2015].
L’apice del successo della propaganda fascista fu raggiunto con la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero. Mobilitazioni davvero sorprendenti attraversarono le piazze e le strade anche dei paesi che avevano condannato l’impresa africana del regime. Le donazioni di fedi alla patria e al duce si moltiplicarono in Francia come in Brasile, dove, peraltro, la scelta di non aderire alle sanzioni fu accolta con gioia da molti italiani. A São Paulo una grande folla si radunò il 2 ottobre per ascoltare i discorsi provenienti dall’Italia e la viva voce di Guglielmo Marconi presente in città [Trento 2005, 40-41]. In alcuni centri minori le comunità italiane organizzarono raccolte per inviare fondi nella madrepatria, feste e cerimonie per celebrare la vittoria. Le grandi parate fasciste si erano in realtà diffuse già negli anni precedenti, con l’istituzione di feste come il Natale di Roma o la celebrazione della marcia su Roma che prevedevano sfilate e cortei, ma nulla fu paragonabile ai successi ottenuti tra il 1935 e il 1936. Nella regione del Rio Grande do Sul l’opera di celebrazione delle conquiste africane fu svolta in particolar modo dal giornale cattolico «Staffetta Riograndense», che, sin dal principio del conflitto, riprodusse le dichiarazioni di Mussolini, comunicò che molti italo-brasiliani erano pronti ad arruolarsi per la patria lontana e segnalò con vigore le donazioni degli immigrati [Beneduzi 2011, 104-110]. Gli entusiasmi si fecero sentire prepotenti anche in terra francese e non solo nella capitale. Nella regione lionese la campagna d’Africa rappresentò il «punto culminante» dell’influenza fascista, così come a Nizza, dove le raccolte d’oro per la patria furono molto fruttuose [Videlier 1986, 686; Schor 1991, 144]. Nella Lorena operaia, dove forte era la presenza comunista, decine di fedi furono raccolte in piccoli paesi come Hayange, Knutange e Algrange, e nel sud-ovest centinaia di persone parteciparono alle manifestazioni per la vittoria e la proclamazione dell’impero a Tolosa, Agen, Montauban [14]. La conquista delle terre africane rappresentava d’altra parte un profondo motivo d’orgoglio per uomini che avevano talora vissuto la propria appartenenza nazionale come motivo di vergogna e un cemento ineguagliabile per il senso di fierezza e lo spirito di dedizione alla patria. L’entusiasmo manifestato da molti italiani in Francia e Brasile svelò, d’altronde, che i fascisti non erano affatto un corpo estraneo, ma che potevano contare su solidi rapporti con altre forze presenti nelle comunità immigrate e nei paesi ospiti.
Il sistema delle alleanze
La grande capacità di infiltrazione del fascismo tra i connazionali, grazie alla propaganda, era stata, in effetti, facilitata anche dalla costruzione di alleanze nei diversi paesi d’arrivo dei migranti. La relazione tra il fascismo e la Chiesa cattolica, che sembrò condividere larga parte delle posizioni nazionaliste del regime, rappresenta uno degli elementi che più hanno attirato l’attenzione degli studiosi. Riassumendo la situazione in una frase, Bertonha ha sostenuto che «sebbene con conflitti e resistenze, le relazioni dei missionari e preti italiani all’estero con il fascismo furono più di collaborazione che di conflitto» [Bertonha 2003]. Per quel che riguarda il caso brasiliano, in effetti, la collaborazione sembrò piuttosto manifesta. Le benedizioni delle nuove sezioni fasciste in alcuni piccoli centri e le grandi feste nelle città a cui presenziavano rappresentanti della Chiesa furono frequenti nel Brasile degli anni Trenta. In particolare, fu nel Rio Grande do Sul, dove forte era la presenza di contadini provenienti da una regione profondamente cattolica come il Veneto, che la penetrazione delle organizzazioni fasciste fu favorita dall’alleanza con i missionari [Bertonha 1998, 166-167, 342]. Il già ricordato sostegno della «Staffetta Riograndense», organo dell’Ordine dei frati cappuccini minori, alle imprese etiopiche del regime sembra la dimostrazione migliore dei legami tra i religiosi italiani e le organizzazioni fasciste. L’alleanza tra cattolici e fascisti in questa regione trovò le proprie radici comuni nella profonda spinta anticomunista, antilaicista e antimassonica, oltre che nella condivisa volontà di difendere l’italianità dei connazionali emigrati. Il rapporto positivo tra la Chiesa locale e il regime fu, tuttavia, messo in discussione alla fine degli anni Trenta quando, con l’avvento dell’Estado Novo, il mondo cattolico sembrò cambiare alleato, aderendo alle volontà nazionaliste del nuovo regime che portarono, nell’agosto 1939, all’imposizione del portoghese nelle omelie e nelle celebrazioni liturgiche [Beneduzi 2009, 128].
Una situazione non dissimile, malgrado la forte differenza di composizione sociale della comunità italiana della regione francese, si poté riscontrare anche in Lorena. Gérard Noiriel ha, infatti, giustificato la diffusione del fascismo nell’est della Francia proprio con l’acquiescenza dei missionari cattolici che, talvolta, come nel caso di don Caravadossi che pagò con la vita la propria militanza, furono accesi propagandisti fascisti [Noiriel 1983, 139-140]. Come già nel Rio Grande do Sul, la forte avversione nei confronti delle organizzazioni comuniste, particolarmente attive tra gli operai della Lorena siderurgica, sembrò cementare questa alleanza. La storiografia cattolica ha, tuttavia, cercato di mitigare le accuse mosse alla Chiesa, segnalando, ad esempio, le prese di posizione del capo dei missionari italiani in Europa mons. Costantino Babini e i suoi scontri con Piero Parini [Rosoli 1998, 191-192]. Particolarmente controversa appare in questo senso la figura di mons. Noradino Torricella, giunto ad Agen, nel sud-ovest della Francia, nel 1924 e ritenuto da alcuni un oppositore del regime e da altri un tirapiedi fascista. L’analisi delle posizioni di Torricella – e del suo giornale «Il Corriere» – sembra dimostrare l’esistenza di un’ampia convergenza tra il monsignore e il fascismo su alcuni temi centrali per cattolici e fascisti come la lotta contro le naturalizzazioni, considerate il prodromo della secolarizzazione, e il culto della patria, anche se le motivazioni di fondo di tale convergenza nascevano da differenti opzioni ideali [Guillaume 2003, 384] [15]. Così il missionario e gli altri preti presenti nella regione parteciparono a numerose iniziative organizzate dal consolato, in particolare durante le celebrazioni ufficiali e negli anni della guerra d’Etiopia, e il «Corriere» diede sempre ampio spazio alle notizie riguardanti l’Associazione Nazionale Combattenti, mantenendo invece un certo riserbo, almeno in una prima fase, sulle iniziative dei fasci. La percezione complessiva che dell’opera dei missionari ebbe gran parte dell’opinione pubblica fu così quella di un’azione strettamente connessa a quella dei consolati e delle organizzazioni fasciste, ed è soprattutto per questo che si può ritenere che, anche nel sud-ovest, i missionari cattolici finirono per favorire il rafforzamento del regime.
Il sostegno al fascismo nascente non venne solamente dal mondo cattolico. Le stesse élites italiane presenti nelle grandi città, a Parigi come a São Paulo, sembrarono poco inclini a uno scontro col regime. Da parte di molti non vi fu un’adesione convinta alle organizzazioni fasciste ma un sostegno formale, che si concretizzò talvolta anche in un supporto economico non indifferente. Così, ad esempio, Francesco Matarazzo e gli altri grandi maggiorenti italiani in Brasile sostennero più o meno discretamente l’opera mussoliniana, anche se non mancò chi manifestò più esplicitamente la propria adesione, come il magnate dello zucchero Pietro Morganti divenuto segretario del fascio di Picicaba [Bertonha 2001a, 168-173; Trento 2005, 9-11] [16]. Complessivamente, si può ritenere che l’adesione crescente delle élites italo-brasiliane e dei ceti medi al fascismo fu sostenuta dalla visione nazionalista e dal crescente anticomunismo che andò maturando nel corso degli anni Trenta nel paese sudamericano. Tali sentimenti, comuni anche tra i brasiliani di origine non italiana, avrebbero rappresentato, d’altronde, anche la principale sorgente del movimento integralista filofascista nel paese sudamericano [Bertonha 1999, 116-117] [17]. La simpatia delle classi dirigenti nei confronti del regime non riguardò d’altronde solamente gli italo-brasiliani. La propaganda fascista, volta anche a conquistare consensi e appoggi nei paesi stranieri, sembrò dare ottimi frutti proprio in Brasile. Grazie ai continui viaggi di intellettuali organizzati dal regime, il culto della comune latinità fece breccia nel mondo intellettuale e politico brasiliano, provocando una certa simpatia che trascendeva le pure evidenti ispirazioni che Vargas e i suoi uomini sembravano trarre dal sistema corporativo italiano [Bertonha 2003; Pretelli 2010, 77].
L’evocazione della latinità sembrò ottenere qualche successo anche in Francia. A Nizza e nelle regioni sud-occidentali del paese, il richiamo alle radici latine rappresentò, nel corso degli anni Venti, uno strumento per avvicinare alcuni intellettuali attratti dalla retorica mussoliniana [Schor 1991, 149; Teulières 2002, 70-72]. La nascita di associazioni come il Comité France-Italie, che riuniva personalità in vista pronte a enfatizzare le comuni origine latine dei due paesi, divennero nel corso degli anni Trenta ottimi strumenti di «diplomazia parallela» del regime fascista, pronto a finanziarli e a sostenere anche le loro pubblicazioni. Tali raggruppamenti rappresentarono, in particolare nel corso del conflitto africano, voci dissonanti rispetto alla condanna espressa dalle autorità francesi [Maltone 1998, 125-126]. L’attenzione alla latinità culturale sembrò trovare minor spazio nell’est della Francia, benché anche nel bacino minerario a nord di Nancy fosse nato un raggruppamento chiamato Union Latine, dalle chiare simpatie fasciste, guidato da un missionario italiano. L’alleanza con le classi dirigenti in questa regione sembrò piuttosto sfruttare il forte sentimento antitedesco presente nella Lorena, specialmente nell’area di Metz appena ritornata alla Francia. Un ruolo decisivo giocò, in questo senso, l’Associazione Nazionale Combattenti Italiani, che qui si dedicò principalmente all’organizzazione di manifestazioni franco-italiane in ricordo della comune partecipazione alla Grande Guerra [Pinna 2012, 260-265]. Anche in un paese come la Francia, inoltre, l’anticomunismo ebbe un ruolo di particolare rilievo nell’avvicinare una parte delle classi dirigenti alle associazioni filofasciste. In Lorena furono, così, gli imprenditori locali – terrorizzati dalla possibile sindacalizzazione dei minatori italiani – a spingere affinché fossero creati i fasci e a Villerupt, uno dei principali villaggi degli italiani, fu proprio all’interno di un locale delle Acciaierie Micheville che vide la luce il fascio [Noiriel 1983, 142]. Persino nella regione tolosana, dove pure, soprattutto nel corso degli anni Venti, le autorità locali a maggioranza socialista si erano fermamente opposte a quella che veniva considerata una sorta di invasione fascista, si assistette a sbalorditivi accostamenti. Così, nel 1936, alla manifestazione organizzata dal consolato per la proclamazione dell’impero, nonostante le sanzioni imposte dalla Francia, sedettero fianco a fianco alcuni docenti dell’Università cittadina, un rappresentante del prefetto, generali, colonnelli e alti papaveri francesi, a dimostrazione della grande rispettabilità acquisita dal regime anche in un momento di particolare tensione [18]. Le simpatie filofasciste di alcuni ambienti – e non solamente, dunque, di associazioni estremiste come l’Action Française, le Croix de Feu e l’Açao Integralista Brasileira – giovarono enormemente alla diffusione del fascismo nelle comunità degli italiani all’estero.
La crisi del fascismo
Il consenso ottenuto dal regime dovette, tuttavia, fare i conti, principalmente in Francia, con una costante espansione del movimento antifascista. Le differenze tra i due paesi furono, in questo caso, piuttosto ragguardevoli. Anche rispetto a paesi vicini, come l’Argentina, l’antifascismo brasiliano fu particolarmente debole nel corso del ventennio, ostacolato sia da un clima generale favorevole al regime italiano, sia dall’autoritarismo crescente del governo di Vargas a partire dalla fine degli anni Trenta. Nonostante una penetrazione tutto sommato modesta tra le classi operaie dello stato di São Paulo, con i deboli risultati della Legione Operaia del Littorio creata nel 1937, il regime mussoliniano sembrò non trovare forti opposizioni al proprio predominio [Bertonha 1999, 117-118; Trento 2007, 196-197]. La situazione era profondamente diversa in Francia dove, come è ben noto, sin dai primi anni Venti gli esuli avevano trovato casa e i partiti antifascisti avevano ricostruito le proprie strutture. Nel corso degli anni Trenta le organizzazioni antifasciste, specialmente quelle di matrice comunista, iniziarono una sorta di competizione nello stesso campo fascista, cercando di conquistare le masse di lavoratori e anche alcuni settori della borghesia attraverso l’assistenza, la ricreazione e la costruzione di alleanze. L’Unione Popolare Italiana, con i suoi 40.000 soci dichiarati e la sua pervasività nel territorio francese, che nulla aveva da invidiare a quella del fascismo sostenuto dai consolati, fu il segno più evidente dei successi comunisti nel paese transalpino [Vial 2007]. Il trionfo del Fronte Popolare francese, negli stessi anni in cui Vargas imponeva la sua svolta autoritaria, rappresentò un momento di profonda divergenza tra i due paesi, anche se gli effetti furono paradossali. Nel momento in cui gli antifascisti italiani sembrarono ottenere un effimero trionfo in Francia, infatti, – bilanciato però da un’immutata forza delle organizzazioni fasciste che si giovarono delle garanzie democratiche del governo delle sinistre francese [19] – le forze antifasciste nel paese sudamericano, già profondamente fiaccate, assistettero, nel corso del 1937, allo scioglimento dei partiti politici brasiliani, che anticipò di qualche mese la messa al bando anche delle sezioni fasciste italiane.
La conquista fascista delle masse immigrate si interruppe abbastanza bruscamente, in entrambi i paesi, nei mesi compresi tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta. In Francia le organizzazioni fasciste cominciarono a perdere aderenti e simpatie a causa delle tensioni politiche che rendevano difficile per i migranti italiani appartenere ad associazioni antifrancesi. L’ultima fase del fascismo italiano in Francia fu marcata dagli sforzi in sostegno della Commissione Ciano per il rimpatrio degli italiani all’estero. Tale operazione, che pure inquietò fortemente il governo francese, si rivelò sostanzialmente un fallimento: pochi furono i connazionali che scelsero di rientrare in Italia, anche se tra loro possono essere probabilmente individuati i principali sostenitori del fascismo. Nell’aprile 1939 i fasci all’estero e le altre organizzazioni consolari si sciolsero per non sottostare alle nuove norme stabilite dalle autorità francesi per le associazioni straniere. Dopo la dichiarazione di guerra italiana alla Francia, il 10 giugno 1940, alcune migliaia di italiani furono internati nei campi del sud-ovest francese, precedentemente aperti per raccogliere i transfughi della guerra di Spagna, con l’accusa di essere fascisti o comunisti, anche se i principali esponenti delle organizzazioni vicine al regime italiano si erano allontanati per tempo dal paese [Milza 1995, 101]. La firma dell’armistizio qualche giorno dopo, tuttavia, portò al rimpatrio di molti degli internati o alla loro liberazione. Finiva così, in maniera drammatica, l’esperienza del fascismo nella Francia democratica, anche se i fasci rinacquero momentaneamente sotto il governo di Pétain, godendo, secondo Éric Vial, di buona salute [Vial 2003, 34-35].
In Brasile l’infiacchimento fascista fu più lento, favorito dall’iniziale neutralità del governo di Vargas. Nel 1938, come ricordato in precedenza, i fasci, a seguito del decreto legge 383 del 18 aprile, dovettero trasformarsi in enti assistenziali, dedicandosi solamente alle opere di beneficenza. Malgrado questa trasformazione, almeno per alcuni anni, le nuove organizzazioni continuarono a svolgere, in maniera piuttosto evidente, attività politica. Così, il principale fascio di São Paulo assunse il nome di Ente Assistenziale Filippo Corridoni, mentre altri fasci furono assorbiti dalla Casa d’Italia, dove pure le iniziative di carattere propagandistico non cessarono [Trento 2007, 204; Tucci Carneiro 2010, 450]. L’elemento di maggiore interesse – e in controtendenza rispetto a quanto era accaduto in Francia – fu la trasformazione delle organizzazioni dopolavoristiche che, per restare in vita e continuare ad accogliere le seconde generazioni di migranti, optarono per la propria brasilianizzazione: così l’Ond divenne Organização Nacional Deportivo, mantenendo lo stesso acronimo degli anni passati, ma mutando profondamente la propria fisionomia culturale. Si trattava, del resto, di una scelta inevitabile, in una fase nella quale il regime di Vargas insisteva con forza sulla necessità di una nazionalizzazione basata sull’idea che il Brasile dovesse essere composto da uomini e donne che parlavano portoghese, in rottura con una tradizione che, al contrario, aveva visto nei migranti europei un importante tassello nella lotta contro il meticciato [Beneduzi 2009, 117 e 120-123]. Gli immigrati italiani e gli italo-brasiliani, tuttavia, furono guardati con minore sospetto rispetto ai cittadini di origine tedesca e giapponese e nei loro confronti le attenzioni del governo furono sempre piuttosto misurate. Solamente nel febbraio 1942, con l’ingresso del Brasile in guerra contro l’Asse e la rottura delle relazioni diplomatiche, la situazione cambiò bruscamente e la tolleranza lasciò spazio a una contenuta repressione [Trento 2005, 45-52].
La principale sconfitta del fascismo, in Francia come in Brasile, fu rappresentata dall’aumento delle naturalizzazioni in entrambi i paesi. È interessante notare che tale fenomeno si verificò tanto in un paese in cui il processo di nazionalizzazione era stato innescato da meccanismi autoritari e divieti, come il Brasile, quanto in un paese democratico, come la Francia, dove pure lo stato aveva cercato, sin dalla fine degli anni Venti, di favorire le naturalizzazioni degli immigrati. Pur stimolati dal nazionalismo fascista, di fronte alle tensioni e ai conflitti, i migranti italiani scelsero, in entrambi i casi, le loro patrie d’adozione, quelle nelle quali avevano trovato lavoro e avevano costruito la propria nuova vita, abbandonando una madrepatria che, per molti di loro, era solo la proiezione di un passato ormai lontano.
Conclusioni
I tre pilastri del sistema di potere fascista – conquista degli spazi ricreativi e assistenziali, propaganda e alleanze – permisero una penetrazione nelle comunità immigrate che, seppure sempre minoritaria, non fu affatto trascurabile. La risposta a quanti fossero effettivamente questi fascisti appare difficile, perché è forse la questione stessa a essere posta nella forma sbagliata. Le persone influenzate dal fascismo oppure conquistate dal regime furono senz’altro migliaia, anche se è impossibile una loro esatta quantificazione. Gli stessi fascisti sembravano nel corso degli anni Trenta aver ormai accettato l’idea di controllare le comunità immigrate, preferendo la loro discreta dominazione a un’adesione entusiastica, come avevano sognato i pionieri dei fasci all’estero come Bastianini. Per queste ragioni, Bertonha ha coniato per il Brasile una definizione che appare valida anche per altri contesti, quella dell’esistenza di un fascismo diffuso. I protagonisti di questo fascismo non erano i militanti, che pure esistettero e furono pugnaci, ma piuttosto un insieme di persone che, più o meno consapevolmente, espressero il proprio consenso al regime, partecipando alle sue manifestazioni, alle attività del dopolavoro e delle organizzazioni giovanili, sfruttando i canali d’assistenza e gloriandosi di un’appartenenza che mischiava in misura del tutto artefatta nazione e fascismo [Bertonha 2001a, 233-234]. Il grado di tale diffusione fu naturalmente diverso da paese a paese – molto forte negli Stati Uniti e più incerto in alcuni paesi europei – e anche da regione a regione all’interno degli stessi paesi ospiti, dove il fascismo ottenne talora risultati contrastanti. Appare dunque evidente che la capacità di infiltrazione fascista fu assai più ampia di quanto solitamente si ritenga e che anche strati sociali normalmente considerati immuni dal contagio ne abbiano in realtà subito l’influenza. I ceti medi rappresentarono certamente l’ossatura di questo fascismo d’esportazione, spesso ricoprendo ruoli dirigenziali nei fasci e nelle organizzazioni dopolavoristiche, ma – grazie alla martellante propaganda e all’utilizzo di strumenti considerati meno politici come l’associazionismo sportivo – anche le masse popolari urbane di São Paulo sembrarono rompere la propria indifferenza e sostenere, almeno in parte, il nuovo regime [Trento 2005, 12-14]. In Francia, allo stesso modo, non furono solamente bottegai e commercianti a rappresentare la spina dorsale del regime. Nel sud furono gli agricoltori – mezzadri e piccoli proprietari – a rappresentare la base del fascismo diffuso e nelle regioni dell’est si assistette persino a uno sfondamento – per quanto di certo minoritario – tra gli operai che lavoravano nelle miniere e nelle imprese siderurgiche. Resta sospesa la questione della durevolezza di questo consenso, se è vero che, come si è segnalato, il cedimento delle organizzazioni fasciste fu rapido, specialmente in Francia. L’accostamento alle strutture gestite dai consolati fu effettivamente assai utilitaristico e non appena apparve chiaro che tale vicinanza poteva essere dannosa, l’enorme maggioranza degli italiani non esitò ad abbandonare i gruppi di ispirazione fascista al loro destino.
La comparazione tra l’esperienza fascista in Brasile e Francia sembra dimostrare la complessità dei processi di fascistizzazione all’estero, intrecciata inestricabilmente alle politiche dei paesi in cui vivevano i migranti. L’efficacia e la capacità di espansione dei vari strumenti messi in campo dal regime fascista dipese in maniera significativa dalle azioni dei governi ospiti, dal contesto sociale e dalle tradizioni politiche e culturali locali, costringendo il regime a immaginare forme differenziate di propaganda. Più in generale, l’assimilazione degli italiani non fu eguale in tutti i paesi stranieri e, al loro interno, in tutte le regioni e, proprio per questo il fascismo assunse differenti ruoli e significati a seconda dei diversi contesti. In questo senso, la differenziazione tra paesi anglofoni, germanici e latini proposta da Donna Gabaccia e ripresa criticamente da Bertonha [Bertonha 2003], pure assai stimolante, rischia di nascondere le profonde diversità presenti negli stessi contesti nazionali, mentre sarebbe auspicabile una comparazione interregionale. Appare soprattutto forte la necessità di studiare la fascistizzazione dei migranti considerando la profonda interazione tra le direttive, spesso stringenti, provenienti da Roma e gli effettivi risultati sul campo. Il fascismo all’estero, uscito dall’oblio cui era stato condannato dal silenzio dei protagonisti e da una storiografia preoccupata di contribuire a una sua celebrazione, oggi non è più terra incognita, ma studi approfonditi sono ancora necessari per cercare di comprendere la sua forza e le sue debolezze.
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Note
1. La «diplomazia parallela» del fascismo, come viene definita, è stata studiata con particolare attenzione per quel che riguarda gli Stati Uniti e i paesi latinoamericani [Luconi 2000; Bertonha 2001c].
2. Tra gli studi che hanno cercato di analizzare in chiave comparata, seppure a livello regionale, le esperienze del fascismo e dell’antifascismo all’estero, cfr. Pinna 2012.
3. Rapport du 20 novembre 1926 par le Ministre de l’Intérieur au Préfet de la Haute-Garonne, Archives Nationales (AN), F7 13458.
4. Copie du rapport n. 553 du 9 décembre 1925 par M. Roger, Chargé d’affaires de la République française à Rome à M. le Président du Conseil, Ministre des Affaires Etrangères, in Archives du ministère des Affaires Etrangères (MAE), Correspondance politique et commerciale (Corr.), Série Z Europe 1918-1929, b. 185.
5. Copie de la Circulaire n. 38 du Ministero degli Affari Esteri Direzione Generale degli Italiani all’Estero, in Rapport n. 975 S.C.R. 2/11 du 3 mars 1929 par le Ministre de la Guerre au Ministre des Affaires Etrangères, MAE, Corr., Série Z Europe 1918-1929 Supplément, b. 375.
6. Copie de la Circulaire n. 38, cit., in MAE, Corr., Série Z Europe 1918-1929 Supplément, b. 375.
7. Recensement des Italiens à l’étranger au 30 juin 1927 publié par le Ministère italien des Affaires Etrangères en 1928, MAE, Corr., Série Z Europe 1918-1929, b.185.
8. Camillo Pellizzi, “Il fascismo e l’estero”, Il Popolo d’Italia, 2 novembre 1923, cit. in: De Caprariis 2003, 9.
9. Già nel 1929 l’ispettore inviato dal Ministero dell’Istruzione francese a Tolosa rimarcava come la scuola italiana istituita presso il Consolato non fosse altro che uno strumento di propaganda nazionalista e fascista. Rapport du 12 mars 1929 par le Ministre de l’Instruction Publique et des Beaux-Arts au Ministre des Affaires Etrangères, MAE, Correspondance politique et commerciale, Série Z Europe 1918-1929, b. 207.
10. Le leggi sulla nazionalizzazione delle scuole da parte del governo federale furono applicate con molto minor vigore negli altri stati, cfr. Bertonha 1998, 125. La politica di brasilianizzazione delle scuole fu, inoltre, portata avanti con più vigore nei confronti delle scuole etniche tedesche. Le scuole italiane continuarono la loro attività almeno sino al 1942 e l’Istituto Medio Dante Alighieri fu nazionalizzato solo nel 1943, cfr. Tucci Carneiro 2010, 462.
11. Secondo Angelo Trento, tuttavia, ancora nel 1925 il giornale criticava gli eccessi del regime, in particolare esecrando le violenze fasciste e le posizioni espresse da Farinacci, cfr. Trento 1994, 258-261.
12. Sulla fascistizzazione di quasi tutti i giornali, con l’eccezione de «La Difesa» (dal 1931 divenuto «L’Italia») e «Il Risorgimento», cfr. Trento 2011.
13. Rapport n. 29.631 du 10 novembre 1934 par le Commissaire Central de Toulouse au Directeur Général de la Sûreté Nationale, AN, F7 13466.
14. Telespresso n. 2686/108 del 20 marzo 1936 dal Consolato di Metz al Ministero degli Affari Esteri e all’Ambasciata, Archivio storico diplomatico del ministero degli Affari Esteri, Rappresentanza italiana in Francia (1861-1950), b. 254 e «Il Corriere», 7 novembre 1935, n. 45.
15. L’autonomia di monsignor Torricella è difesa da Rosoli, che ricorda anche gli scontri tra Chiesa e fascismo, originati proprio dall’azione del «Corriere» nel corso del 1934, cfr. Rosoli 1986.
16. Matarazzo mostrò il proprio apprezzamento per le conquiste africane, offrendo i prodotti della propria fabbrica al regime e garantendo che i suoi dipendenti che fossero partiti soldati per la conquista dell’Africa orientale avrebbero potuto conservare il loro posto di lavoro, cfr. Beneduzi 2011, 107. I funerali di Matarazzo, peraltro, si svolsero rispettando la “coreografia di regime”, con camicie nere e gagliardetti fascisti, cfr. Trento 2011.
17. Deve essere segnalato che anche nel movimento integralista la presenza di italo-brasiliani fu significativa. Secondo i dati riportati da Fulvia Zega, infatti, circa il 70% degli iscritti all’AIB sarebbero stati di origine italiana o tedesca, cfr. Zega 2008. Il potenziale conflitto nell’acquisizione del consenso degli italiani e degli italo-brasiliani tra fascismo e integralismo fu, secondo Bertonha, sostanzialmente, disinnescato da ragioni di natura generazionale. Gli italiani di nascita furono, così, più facilmente attratti verso il fascismo, mentre l’integralismo trovò i suoi sostenitori specialmente tra le seconde generazioni, anche se le ragioni di queste differenti adesioni sono da ricercarsi nel contesto politico degli anni Trenta e nelle modalità del processo di acculturazione dei due gruppi, cfr. Bertonha 2000, 98-100.
18. Rapport n. 14.151 du 25 mai 1936 par le Commissaire Central au Préfet de la Haute-Garonne, Archives Départementales de la Haute Garonne, 1960 13.
19. Nel luglio 1936, ad esempio, circa 500 bambini italiani partirono per le colonie marine dalla gare de Lyon a Parigi, indossando le divise da balilla e intonando canti fascisti, senza suscitare alcuna reazione tra gli abitanti della città, cfr. Milza 1983, 448. La forza del fascismo tra gli italiani in Francia fu dimostrata, ancora al principio del 1938, dalla partecipazione di 3.500 persone alla festa dello Statuto a Nizza, cfr. Schor 1991, 145.