Nel 1835, quando Carlo Contoli scrisse le Considerazioni sul processo e giudizio criminale, Jeremy Bentham era morto da tre anni. Questa e le precedenti opere del cancelliere (poi fiscale) del tribunale d’appello di Bologna sono ispirate, nella classificazione dei reati e delle cautele che il giudice deve avere, ai principi dell'algebra morale, un riferimento che riprendeva quasi alla lettera l’«aritmetica morale», vale a dire il calcolo quantitativo delle emozioni e delle loro conseguenze sulle azioni pratiche, prospettato dalla filosofia illuminista – in particolare da Claude-Adrien Hélvetius – e successivamente elaborato dallo stesso Bentham. Si manifestava così nel magistrato bolognese un’evidente tensione speculativa ad eliminare ogni forma di arbitrium, ma anche di emotività incontrollata, nella formulazione del giudizio e nella definizione della pena, una tensione che riaffiorava, dopo aver accompagnato la fine dell’ancien régime e l’esperienza rivoluzionaria, proprio nei decenni della Restaurazione. «La Ragion criminale», scriveva Contoli, «fondasi in divisioni, in frazioni, in sottrazioni, in moltiplicazioni per trovare i gradi morali della equazione più possibile tra il giusto naturale ed il giusto civile e politico» [Contoli 1835, V].
Sviluppando gli orientamenti importati in Italia negli anni della dominazione francese, si voleva affermare l’oggettività scientifica della prassi giudiziaria ed escludere che potessero essere ripristinati gli ampi margini di discrezionalità nella formulazione delle sentenze, soprattutto in caso di condanne a morte, propri del processo inquisitorio e degli uditori di ancien régime [1]. La criminologia ottocentesca avrebbe fatto ulteriori passi in questa direzione. In un famoso saggio Carlo Ginzburg ha reso da tempo evidente il legame tra la scienza medica, il cui prestigio era allora in grande crescita, e i processi conoscitivi del magistrato inquirente e dello storico [Ginzburg 2000]. La dottrina e la prassi giudiziaria e l’esperienza investigativa, come la storia e la medicina, pur non avendo lo stesso statuto epistemologico delle scienze esatte – peraltro a loro volta non regolate da una ferrea logica matematica – erano comunque caratterizzate da una razionalità analogica, indiziaria, ma non per questo meno rigorosa. Conan Doyle faceva dire al dottor Watson che Holmes aveva, come detective, «la passione delle cognizioni complete ed esatte» associando ad essa il vaglio ossessivo di ogni possibile ipotesi nel ricostruire la scena del delitto [2]. Molto tempo prima, nel 1841, la stessa corrente innovatrice che era arrivata a lambire anche Bologna si era espressa nei Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe, il quale confermava la fiducia assoluta nel metodo deduttivo, che costringeva l’inquirente a porsi ogni volta l’obiettivo di attingere alla Verità sviluppando le proprie congetture investigative a partire da qualunque particolare insolito osservabile nel modus operandi dei criminali, andando oltre alle conclusioni più ovvie che si sarebbero potute trarre dai limitati mezzi della polizia [3].
Fra le altre cose, questa ricerca della certezza delle prove e della razionalità del procedimento investigativo tendeva ad esorcizzare, nella vigenza della pena di morte, la possibilità che la sentenza capitale fosse iniqua in rapporto al reato. L’applicazione della condanna a morte, nel XIX secolo, pur continuando ad essere irrogata, per molti aspetti ci restituisce una sensibilità significativamente mutata: rispetto al passato, infatti, venne definendosi la linea di confine fra reato e peccato, e quindi tra sanzione corporale e interdizione spirituale, tra proscioglimento e remissione. Proprio nel passaggio tra Sette e Ottocento, la scena della ritualità delle esecuzioni aveva perso gran parte dello spazio occupato in precedenza dall’enfasi sulla sublimazione della morte (fisica) del condannato come atto di redenzione (spirituale). Per questo, in definitiva, le conforterie – le compagnie della buona morte e fra tutte quella bolognese – si erano costituite ed avevano assicurato per secoli lo spettacolo del riscatto in extremis dei criminali, trasformati in penitenti dai confratelli con il loro zelante volontariato, ad edificazione dei propri affiliati e della collettività dei credenti, nonché per la salvezza in punto di morte dell’anima immortale di quanti stavano per salire sul patibolo. «Attraverso l’imitazione di Cristo, un ladro e un omicida potevano diventare dei martiri. Sostenendo che il criminale era un fratello, i confortatori lo guidavano verso Cristo. Ritenevano che le preghiere del loro nuovo fratello avrebbero condotto le loro anime in paradiso» [Terpstra 2011, 324].
Venuta meno con le codificazioni ottocentesche dei reati l’enfasi sulla celebrazione purificatrice dell’espiazione e del riscatto dal peccato, insieme con i rituali che suggerivano la reciprocità nella salvezza ultraterrena tra i condannati e coloro che li accompagnavano ai piedi del patibolo, non sorprende che la tensione ad attribuire criteri equitativi alla sentenza finale di un procedimento giudiziario si accentuasse e fosse al cuore dei dibattiti teorici dei giuristi e delle ambasce di quanti esercitavano nei tribunali. In realtà il dilemma su come debba operare concretamente la giustizia terrena ha molto a che fare ancora oggi con l’intento di raggiungere un bilanciamento perfetto tra colpa e redenzione. All’iconografia della giustizia e ai suoi occhi, bendati o scoperti, Adriano Prosperi ha dedicato alcuni anni fa un libro che si collega al tema dell’aspirazione all’assoluta equità del giudizio e che si apre con un riferimento a temi sensibili del XX e XXI secolo: lo spunto è dall’Antologia di Spoon River e dalla poesia dedicata da Edgard Lee Masters alle vittime della corruzione di alcuni giudici, mascherata da un’imparzialità di facciata. Da un evento del lontano1904, quando l’avvocato Masters perse la causa e la vita del suo patrocinato anarchico, Prosperi ha preso spunto per riflettere sullo sfascio del sistema giudiziario nell’Italia di oggi e su come, anche rispetto ad un passato ancora più remoto e ad una scienza giuridica preilluministica, «le radici storiche e religiose della periodica cancellazione delle pene si sono fatte sempre più deboli e le speranze dei condannati sono affidate alle disfunzioni di una impersonale macchina burocratica che non riesce a stivare tutti gli esseri umani che vorrebbe nelle celle delle prigioni e che per questo produce di tanto in tanto una sommaria schiumatura del pentolone punitivo» [Prosperi 2008, XVII].
Si sa che una tradizione iconografica ha spesso rappresentato nei secoli passati la giustizia come una donna bendata – di volta in volta, a seconda delle circostanze, per celebrarne l’irreprensibile imparzialità, insensibile ad ogni sollecitazione di favori, o viceversa per stigmatizzarne l’ottusa brutalità incapace di discernere le buone dalle cattive intenzioni, i malaugurati accidenti dalle intenzionalità perverse. Nella seconda accezione è significativa l’immagine a corredo del primo testo ufficiale a stampa della Constitutio criminalis Bambergensis pubblicato nel 1507 che rappresenta sei scabini e un giudice, tutti bendati e col cappello a sonagli del folle, che siedono ad amministrare giustizia, mentre una mano dal cielo regge un cartiglio con scritto «Auff boese gewonheyt urteyl geben / Die dem rechten wider streben / Ist diser plinden narren leben»: emettere sentenze sulla base di cattive consuetudini, di quelle che contrastano il diritto, è la vita di questi pazzi ciechi [Prosperi 2008, 37].
Come osserva Prosperi, in questo caso all’immagine della follia si associa un passaggio cruciale, dal diritto consuetudinario fondato sulla concreta conoscenza dei legami di vicinato e delle ragioni specifiche delle contese, alla prassi processuale mutuata dal diritto romano. La Constitutio avviava in una parte della Franconia una radicale riforma che consisteva nel redigere per la prima volta una codificazione penale – se si escludono gli statuti delle città comunali italiane - ispirata dal diritto comune al posto delle consuetudini punitive e processuali di quelle regioni. Il processo inquisitorio, formalmente strutturato e poco adattabile ai singoli casi prendeva il posto di pratiche giudiziarie che lasciavano ampi spazi alla negoziazione; gli scabini, giudici locali e spesso ignoranti, lasciarono il campo a giudici formati sul diritto romano. È evidente che in questa fase la benda ha ancora una connotazione visibilmente negativa, stigmatizzando l’approssimazione e l’incompetenza dei primi e preparando il passaggio ai secondi [34]. Ma se è vero che la tensione ad aprire gli occhi dei giudici e ad affilare con la cultura e le qualità morali l’acutezza dei loro giudizi aveva trovato una prima realizzazione, la giustizia sovrana non avrebbe potuto limitarsi a dettare leggi e pratiche il più possibile equitative: per legittimarsi come unica portatrice della prerogativa di condannare a assolvere, non poteva che ispirarsi alla Legge divina e assumere la clemenza e il perdono come elementi costitutivi del monopolio dell’esercizio terreno del potere giudiziario.
Alle testimonianze delle pratiche caritatevoli che ininterrottamente si svelano nella storia dell’Europa cristiana, intrecciate con quelle della vendetta e del castigo, è dedicato l’ultimo libro di Adriano Prosperi. Come sempre nei suoi lavori più importanti – a partire dal richiamo alla supplica di Paolo VI alle Brigate Rosse che costituisce l’incipit di Tribunali della coscienza [Prosperi 1996] – anche in Delitto e perdono l’autore ha preso spunto dall’immediata attualità – l’uccisione di Osama Bin Laden celebrata, per il popolo americano e il suo leader, come atto di giustizia, in contrasto con la cultura giuridica e la sensibilità europea che hanno da tempo abbandonato, pressoché nella totalità degli stati, l’idea della morte del reo come risarcimento della società. Questo approdo divergente delle rispettive dottrine e pratiche legali viene riferito dall’autore alla dicotomia tra vendetta e perdono che ha percorso la cultura mediterranea sia nella sua declinazione classica sia in quella giudaico cristiana, e che dall’XI secolo ha trovato una conciliazione con l’assunzione del sacrificio di Cristo a «fondamento ideale delle strategie penali dell’Occidente» [Prosperi 2013, 8], una condanna a morte ad espiazione del peccato originale nella quale si possono rispecchiare ogni singola esecuzione e ogni singolo condannato nell’aspettativa del proprio riscatto.
Tuttavia, una volta radicata l’idea della pena di morte come forma di giustizia legittimata dalla religione, si impose nella pratica, anche prima di Beccaria, il problema di proporzionare le pene ai reati, di «graduare la bilancia della giustizia» [20] e di scindere il reato dal peccato – definendo cioè le specifiche fattispecie criminali e dando dei riferimenti concreti per punire nelle corti secolari le singole manifestazioni della insondabile perversione degli animi. Nel tardo Seicento Gian Domenico Rainaldi – fra gli altri – aveva provato a costruire una classificazione delle pene che dipendeva da come il magistrato si disponeva nei confronti del reo, affidando il vaglio imparziale delle prove e le garanzie per gli inquisiti alla rettitudine morale del giudice - che, se intemerata, avrebbe reso superflua anche la funzione del difensore – giustificando così il margine di soggettività nell’applicare nei singoli casi le sanzioni prevviste dai bandi [4]. Un secolo e mezzo prima Pino da Cagli aveva a sua volta cercato nella integrità del magistrato la garanzia di equità che gli inquisiti potevano aspettarsi: quando egli «bene essaminando & bene intendendo le parti troverà modo da sententiare secondo le leggi ma con temperamento tale che non mostri crudele il legislatore per la severa sentenza, quasi della legge data dal giudice né che esso giudice si scuopra male intendente della legge, sententiando con la mente a fatto dell’auttore. Nel quale caso sarà il giudice veramente discreto & savio & per dire chiaramente galant’huomo quando tra le apparenti ragioni degli avversarij contendenti troverà ragionevole via da scoprire il torto & da ben vedere le ragioni d’essi» [5].
Prima ancora il giurista e umanista Andrea Alciato aveva stigmatizzato la mattanza praticata nel Cinquecento con il ricorso indiscriminato alla pena capitale: «I suggerimenti di Alciato individuavano con grande anticipo quelle soluzioni alternative alla pena capitale che Beccaria doveva suggerire due secoli dopo» [Prosperi 2013, 23]. Ma ancora a lungo finalità di controllo sociale avrebbero messo a tacere le voci contrarie alla pena di morte e il compito di impartire e ritualizzare il perdono cristiano sarebbe stato assunto dai confortatori. Un episodio raccontato in una lettera di santa Caterina Benincasa riassume il senso sacrale della conforteria e sublima la suggestione mistica delle nozze di sangue e di morte celebrate dalla santa sotto il patibolo di un condannato del quale sappiamo il nome, Niccolò di Toldo da Perugia, ma non il reato. Caterina arrivò sul luogo dell’esecuzione e spronò l’uomo ad apprestarsi alla celebrazione della loro unione nel sangue di Cristo: «Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi il collo, e chinàmi giù e rammentàli el sangue dell’agnello: la bocca sua non diceva, se non ‘Gesù’ e ‘Caterina’ e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie» [103].
A partire da questo episodio, tutta la seconda parte del libro è dedicata a rintracciare, nel corso del tempo, le prove di come, «per quanto vile, degradante e disgustoso fosse quel compito, la risposta dei devoti della carità fu straordinariamente positiva e portò rapidamente a una diffusione di quel tipo di confraternita in una gran quantità di città e di centri minori dell’Italia» [144]. Un modello dell’attività di persuasione dei condannati, assolta dai confortatori, affinché accettassero senza suscitare scandalo l’esecuzione della sentenza capitale e la sua regolata spettacolarizzazione può essere considerata l’attività della confraternita bolognese di S. Maria della Morte e il suo quattrocentesco «manuale di conforto», in particolare il Capitulo trigesimoquarto che tracta de coloro che la morte non li doleria se la havesseno cum ragione meritata. Le sacre scritture e in primo luogo la stessa morte di Gesù offrono alle coscienze dei giudici e al risentimento degli innocenti condotti al patibolo senza colpa un robusto deterrente al rimorso per i primi e alla pubblica invettiva per i secondi. Il manuale infatti suggerisce una risposta che suona così:
E cussì fratello mio, tu ti dèi al presente recognoscere che se tu non hai facto el male che t’è opposto, tu serai posto nel numero de coloro che moreno innocentemente, e cussì nell’altra vita tu serai posto nel numero di sancti martiri innocente, se tu porai portare questa pena cum pacientia e cum la volontà de Dio. E se tu hai facto el male, non dire de no, ma più tosto taci e non parlare de questo, a ciò che tu non condanni l’anima tua [Troiano 2007, 429].
Nella secolare attività della confraternita di S. Maria della Morte di Bologna non si segnalarono solo successi. Ricordo qui il caso di una donna, Diamante Mori, condannata a morte per l’uccisione del marito della figlia Maddalena nel 1640, che rifiutò di adeguarsi al cerimoniale edificante previsto dal manuale
ne mai volle attendere al suo consolatore, che svisceratamente la pregava, a considerare il luogo, dove era, e che deponesse l’odio, e lasciasse per amor de Dio queste sue opinioni, epperò a piedi del patibolo si riconciliò, o almeno ebbe la benedizione del sacerdote, avante del quale veramente assai pronta se prostrò in ginocchioni in mezzo al fango, ma mai replicò cosa alcuna che se gli era suggerito, anzi nell’ultimo invece di udirla dire Giesù si sentì a dire oime e così spirò lasciando molto di che temere della sua salute, perché l’estrinseco fu molto cattivo, e non diede segni di dubitarne qualora la divina assistenza non l’avesse aiutata in quell’estremo e con un interno atto di vera contrizione come si può sperare; per altro fu una femina molto disubbidiente, testarda, fissa nelle sue opinioni, e piena di chiarle, maligna, e tutta odio, e rancore, che se gli vedia sino dagli occhi, e lo manifestava con dibattimenti di mano quallora era slegata, e persino con la voce, che alzava a tutto potere per solamente da pazza sfogarsi. Si preghi pure il sig. Iddio che nisuna mai delle donne, ma principalmente di questa sorte, siano mai per dover essere giustiziate, perché non vi è per queste consolazione e conforto che le renda capace a ridursi, essendo un doloroso martirio de consolatori medesimi una tale indicibile ostinazione [6].
Dunque, il rapporto fra «pazienti» e confortatori non ebbe sempre un esito positivo, con il pentimento e l’accettazione del supplizio con cristiana rassegnazione. «Ma i loro metodi aiutarono a nascondere nel segreto delle notti e nel chiuso delle loro cappelle i momenti più drammatici del rapporto col morituro e a soffocare nel bisbiglio delle preghiere le grida disperate di chi si vedeva destinato a una sorte intollerabile» [Prosperi 2013, 15]. Nella terza parte del libro lo sguardo si fa più attento alle differenze, ai modi diversi di interpretare l’amministrazione della giustizia e l’esecuzione della pena capitale nei diversi stati italiani ed europei. In ambito cattolico spicca la progressiva assunzione del ruolo di protagonisti da parte dei gesuiti e il peso attribuito alla casistica applicata al conforto dei condannati, condensata in un’opera pubblicata a Bologna nel 1658, le Notti malinconiche di Giacinto Manara.
Nel passaggio tra Sette e Ottocento le confraternite della giustizia non scomparvero ovunque, ma al contrario rimasero ben presenti sulla scena dell’esecuzione, come nel caso di Modena. Anche a Bologna prevalse la continuità col passato, anche se, a partire dall’età napoleonica, le funzioni di conforteria passarono ai religiosi e venne definitivamente meno la partecipazione di devoti laici fra i confratelli che ne aveva connotata la lunga tradizione precedente. Tuttavia, l’elemento nuovo fu la tipologia dei reati perseguiti, in prevalenza politici e di opinione; sia pure private del tradizionale peso dei membri secolari, il fatto che le compagnie della buona morte fossero ancora pronte ad accompagnare i condannati ai piedi del patibolo fu comunque una importante persistenza del passato che ha attraversato gli anni francesi ricongiungendo nelle pratiche devote di accompagnamento alla morte dei condannati l’ancien régime ai decenni della Restaurazione.
Contemporaneamente, nello Stato pontificio Carlo Contoli fra gli altri aspirava ad una innovazione e ad un taglio netto con il passato: in particolare, auspicava che si moltiplicassero all’infinito le fattispecie criminali ‒ le possibilità teoriche contemplate dai codici penali da applicare ai reati concreti ‒ per annullare il rischio dell’iniquità giudiziaria, cioè di una attribuzione irragionevole della pena di morte per una dose di colpa insufficiente. Le sue Considerazioni sono appunto la riflessione sul codice di procedura penale del 1831 in relazione ad una tensione speculativa ed etica destinata a restare insoddisfatta [7]. Comparivano invece le prime crepe di questa cultura: Conan Doyle avrebbe superato la Verità di Legge di Contoli attribuendo al suo detective le risorse della razionalità geniale, ma in entrambi i casi questi sacrosanti rovelli che dovevano orientare l’attività dei giudici rendendoli imparziali e pressoché infallibili complicarono le cose e soprattutto, rispetto al passato, contribuirono a dilatare i tempi dei procedimenti, in considerazione anche dell’appellabilità dei giudizi, in antico regime quasi eccezionale e rimpiazzata dal frequente ricorso alla supplica e dalla concessione discrezionale della grazia, in molti casi onerosa, da parte del sovrano.
Pur come risultato di procedure spesso sommarie, le esecuzioni capitali di antico regime erano state l’ultima tappa di un percorso rapido ma non necessariamente al di fuori di ogni regola. I reati per i quali in età moderna la pena ordinaria prevista dai bandi era la condanna a morte erano numerosi, dal parricidio alla stregoneria, dal furto reiterato alla sodomia ma Gian Domenico Rainaldi stese le sue considerazioni sul modo di irrogarla a partire dal crimine per il quale meno facilmente potevano essere richieste attenuanti dai difensori e cioè l’omicidio qualificabile e comprovabile come volontario, commesso senza provocazione e senza causa. Gli omicidi premeditati dovevano essere perseguiti con il massimo del rigore «quod si iura servaretur multi ab homicidiis retraherentur, quando ob indulgentiam tot committuntur homicidia, ut difficile sit dicere an frequentiores sint hominum caedes an nativitates» [8].
Negli anni nei quali scriveva Rainaldi le «caedes» a Bologna si erano fatte meno frequenti ma non era per questo che le condanne a morte erano vistosamente diminuite dagli inizi del Cinquecento. Parecchi decenni dopo, nel 1756, la propensione a introdurre elementi di garantismo e di attenuazione degli aspetti più arbitrari e feroci della legislazione preesistente, evidente nel bando promulgato a Bologna dal cardinale Fabrizio Serbelloni, non si tradusse però in una significativa e sistematica mitigazione delle pene che anzi, per alcuni delitti che destavano particolare riprovazione o allarme sociale, risultano addirittura aggravate. Le pene corporali, così come la pena di morte, anche con modalità atroci, come il tanagliamento con ferri roventi, il mazzolamento e lo squartamento del cadavere, per i delitti più gravi come il parricidio o l’assassinio proditorio, furono confermate.
La ricerca di un equilibrio fra diritti individuali e ragion di stato non fu neppure la cifra del codice penale italico del 1811, pura e semplice traduzione di quello francese del 1810, ispirato da un’antropologia cupa e pessimista, ben diversa dall’ottimismo filantropico e dalla mitezza del codice rivoluzionario del 1791. Il codice del 1810 distingueva fra diversi gradi e tipologie della pena: afflittive e infamanti, come quella di morte, i lavori forzati a vita e a tempo, la deportazione, la reclusione, il marchio a fuoco e la confisca dei beni; solo infamanti come la berlina, il bando e la degradazione civica; correzionali, quali la detenzione per periodi relativamente brevi, l’interdizione temporanea da alcuni diritti civici, la multa. Tuttavia la difesa intransigente della sicurezza dello stato, dell’ordine pubblico e della proprietà [Lascoumes et al. 1989], si traduceva in un sistematico rigore che sconfinava nella spietatezza, reintroducendo forme di punizione atroci e degradanti che ignoravano le considerazioni umanitarie dell’illuminismo giuridico e sembravano ricondurre all’antico regime [9]. La pena di morte era prevista per oltre trenta fattispecie di reato e nel caso del parricidio, cui erano assimilati l’attentato o la cospirazione contro la persona del sovrano, l’esecuzione era preceduta dal taglio della mano destra.
Negli anni della Restaurazione, un’aspirazione, sempre frustrata, ad una codificazione che fosse adeguata alle idee che erano circolate nei decenni precedenti si fece sentire anche nello Stato pontificio, ma il fatto che proprio nello Stato pontificio i riti della morte confortata abbiano resistito più a lungo è significativo della scarsa eco che ebbe. A metà dell’Ottocento ad uso degli affiliati dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione di Ferrara (per statuto, dal 1853, depurati dagli elementi popolari e operai) fu redatto, probabilmente dal marchese Girolamo Canonici, un opuscolo che doveva orientarli nelle loro funzioni e che ribadiva la liceità della pena di morte [Prosperi 2013, 547-550]. Confortatori furono attivi, sempre più informalmente, ancora nella Roma di Pio IX, fino alla vigilia della sua caduta nel 1870. Vent’anni dopo il nuovo codice penale italiano avrebbe portato all’abolizione della pena di morte e, in apparenza, alla fine della morte confortata.
In tutta la storia secolare della conforteria, osserva Prosperi, ben pochi in imminenza della morte resistettero all’esortazione di convertirsi, permettendo che il rituale dell’esecuzione assumesse il suo carattere di sacralizzazione del trapasso come prova del perdono del condannato e della salvezza della sua anima. La paura del passaggio all’Al di là non è venuta meno nemmeno oggi, non solo negli stati nei quali la pena capitale è ancora in vigore, ma anche nelle corsie degli ospedali dove, almeno nei paesi cattolici, l’assistenza religiosa ai malati terminali ha assunto forme nuove, che tuttavia si ricollegano all’antica tradizione della morte confortata. «La paura di morire, l’insopprimibile bisogno di vivere ancora e l’offerta della speranza di una religione nata intorno alla crocefissione di un profeta ebreo trovano così antichi e nuovi motivi d’incontro» [10].
Bibliografia
- Contoli C. 1835, Considerazioni sul processo e giudizio criminale nei due sistemi del processo scritto e orale, Bologna: Tipografia e Fonderia del Genio.
- Elias N. 1985, La solitudine del morente, Bologna: il Mulino.
- Ginzburg C. 2000, Spie. Radici di un paradigma indiziario, ora in Miti, emblemi, spie: morfologia e storia, (2° ed.), Torino: Einaudi.
- Lascoumes P., Poncela P., Lenoël P. 1989, Au nom de l’ordre. Une histoire politique du code pénal, Paris: Hachette.
- Meccarelli M. 1998, Arbitrium. Un aspetto sistematico negli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano: Giuffrè.
- Prosperi A. 1996, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino: Einaudi
- Prosperi A. 2008, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Torino: Einaudi.
- Prosperi A. 2013, Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo, Torino: Einaudi.
- Terpstra N. 2011, Parentela al patibolo. La fratellanza spirituale tra condannati e confratelli nel Cinquecento, in V. Lavenia e G. Paolin (eds.) 2011, Riti di passaggio, storie di giustizia. Per Adriano Prosperi, vol. III, Pisa: Scuola Normale Superiore, Edizioni della Normale, 317-327.
- Troiano A. 2007, Il Manuale quattrocentesco della Conforteria di Bologna. Il ms. Morgan 188 della Pierpont Morgan Librery (New York), in Prosperi A. (ed.), Misericordie. Conversioni sotto il patibolo tra Medioevo ed età moderna, Pisa: Scuola Normale Superiore, Edizioni della Normale, 347-479.
- Vinciguerra S. (eds.) 2001, Codice dei delitti e delle pene pel Regno d'Italia (1811), ristampa anastatica, Padova: CEDAM, 23-32.
Note
1. Su questi temi si rimanda all’importante studio di Meccarelli 1998.
2. Doyle, A. C. 1971 (1887), Uno studio in rosso, Milano: Oscar Mondadori, 20.
3. «È attraverso queste deviazioni dal piano dell’ordinario che la ragione si apre la via, quando se la apre, nella ricerca della verità»: Poe E. A. 1970, Racconti straordinari, Firenze: Sansoni, 270.
4. G.D. Rainaldi, Observationes criminales, civiles, et mixtae, Romae, ex officina Haeredum Corbelletti, MDCXCI, dove la rettitudine del giudice contrasta la mancanza di certezze comune a tutti gli uomini: «Omnia sub luna esse incerta, fallacia, mendacijs et erroribus exposita, sed quia ut diximus ad actus humanos regendos & sustinendos sufficit certitudo moralis», p. 303.
5. Del galant’homo overo dell’huomo prudente et discreto di M. Bernardino Pino da Cagli libri tre Nei quali con bellissimo modo & ordine copiosamente si contiene quanto si aspetti a chi fa professione di perfetto galant’huomo, in Venetia, appresso i Sessa, MDCIIII, p. 164.
6. Archivio di Stato di Bologna, Catalogo di tutte le giustizie seguite in Bologna dall’anno 1030 sino al 1539 tratto da varie croniche e manoscritte, e stampate come si vede dalle note in margine. Dall’anno poi 1540 sino al tempo presente dalli libri della Conforteria.
7. Regolamento per la disciplina dei giudici e tribunali, e per le tasse giudiziarie, in Raccolta delle leggi della Pubblica amministrazione, vol V, disp. N. 10.
8. Syntaxis rerum criminalium cum adnotationibus ad bannimenta generalia civitatis et legationis Bononiae a clara memoria em.mo & rev.mo domino cardinali Benedicto Iustiniano legato a latere condita autore Ioanne Dominico Raynaldo dictae civitatis & legationis olim auditore nunc vero in Romana curia advocato, opus in duobus libris. digestum iudicibus et omnibus foro versantibus, ut speratur, non inutile, cum praeter explicationem, et quandam adiectionem ad dicta bannimenta, quaestiones ventiletur iuxta tramites et apices iuris communis, doctorum auctoritatibus ac tribunaliumexterorum decisionibus illustratae, divo Petronio dicatum liber primus, Romae MDCXXXVIII, excudebat Dominicus Antonius Hercules, p. 431.
9. Cattaneo M. A. 1811, L’autoritarismo penale napoleonico, in Vinciguerra S. (eds.) 2001, Codice dei delitti e delle pene pel Regno d'Italia (1811), ristampa anastatica, Padova: CEDAM, 23-32.
10. Prosperi 2013, 554. Il richiamo dell’autore, implicito in tutto il libro, è qui apertamente al Delitto e castigo di Dostoevskij, ma le sue parole rinviano anche a Elias N. 1985.