Introduzione
Dinanzi ai drammatici effetti culturali, economici e sociali della presente emergenza sanitaria, l’opinione pubblica ha mostrato uno spontaneo interesse per le epidemie del passato. L’attenzione ha finito per focalizzarsi sull’influenza “spagnola” del 1918-1920, talora evocata come la “grande pandemia” del Novecento. Un appellativo giustificato dalle dimensioni del fenomeno: secondo la maggior parte delle stime, la “spagnola” uccise 50 milioni di persone (25 decessi ogni 1.000 abitanti) ed infettò un terzo della popolazione mondiale (500 milioni di persone). I tassi di letalità furono relativamente bassi (10% degli infettati), se confrontati a morbi, come il colera, che avevano flagellato l’Europa nell’Ottocento (Forti Messina 1984), ma l’altissima diffusibilità determinò un gran numero di morti. Inoltre, le statistiche vanno analizzate anche in un’ottica qualitativa: la “spagnola”, infatti, uccise soprattutto uomini e donne nella fascia d’età tra i 20 e i 40 anni, ossia le stesse generazioni che avevano pagato il prezzo più alto a causa del conflitto. Non va poi scordato che l’eccesso di mortalità si concentrò in un arco temporale di pochi mesi: la malattia colpì il globo in tre ondate nel periodo 1918-1920, ma il picco di letalità fu registrato durante la seconda nell’autunno 1918 (Patterson e Pyle 1991; Johnson e Mueller 2002).
A discapito della sua rilevanza, la “spagnola” è stata per decenni rimossa dalla memoria pubblica e ha avuto un peso marginale nella riflessione storiografica (Bianchi 2020). Se all’estero qualcosa aveva iniziato a muoversi a partire dagli anni ’90, in Italia neppure il centenario della pandemia (1918-2018) ha stimolato ricerche e iniziative pubbliche sul tema. Solo con l’emergenza del Covid-19 ha conosciuto un’inedita notorietà, tanto che – non a torto – sembra essere in atto un processo di «ri-memorizzazione collettiva e culturale dell’influenza spagnola» (Panico 2021, 86). La “grande pandemia” è stata mobilitata – sulla stampa, nel dibattito pubblico e, talora, nel discorso scientifico-divulgativo – «per raccontare l’emergenza da Covid-19» (Panico 2020), venendo spesso elevata a «termine di confronto peggiore possibile […], ritenuto […] non completamente irrealistico come sarebbe invece il caso della Peste Nera» (Alfani, Bidussa e Chiesi 2021, 38).
Molti paragoni con il Covid-19 sono però parsi forzati, volti a individuare similitudini tra le due emergenze, nella speranza che la pandemia di cento anni fa fornisse risposte rassicuranti sugli sviluppi della crisi sanitaria presente (Ferguson 2021, 214). Si tratta però di malattie che presentano differenze biologiche profonde, seppur accomunate dall’essere affezioni respiratorie, e di eventi collocati in contesti storici assai diversi sul piano sociale, politico (Webel e Culler Freeman 2020). La pandemia di “spagnola” fu strettamente correlata al suo tempo e, dunque, alla Grande Guerra. I movimenti di persone imposti dal conflitto, le interconnessioni globali create dalla colonizzazione europea, i moderni sistemi di trasporto, e, non ultimo, le grandi concentrazioni di persone negli acquartieramenti militari e nelle fabbriche contribuirono a trasformare una crisi sanitaria locale in un’emergenza globale nell’arco di pochi mesi (Phillips 2014, 11-4). La “spagnola” iniziò a propagarsi nel marzo 1918 ed entro l’inizio dell’estate aveva infettato quasi tutti i continenti. Proprio la sua rapida ed estesa circolazione determinò, verosimilmente, la mutazione dell’agente virale verso una forma più letale, poi ripresentatasi nell’autunno 1918 (Collier 1980, 12). Il contesto bellico condizionò soprattutto la gestione dell’emergenza sanitaria: i provvedimenti assistenziali, le misure profilattiche e le narrazioni pubbliche della pandemia furono subordinati alle necessità del conflitto. In qualche modo, la guerra e le sue conseguenze influirono anche sull’uscita dalla fase pandemica, contribuendo a “bandire” dal discorso pubblico e dalla memoria collettiva la “spagnola”. Come cercherà di illustrare questo contributo, la spagnola può essere meglio compresa tenendo presente i suoi legami con la congiuntura bellica. Si cercherà di esaminare i diversi piani della pandemia, focalizzando le attenzioni sul caso italiano, ma con raffronti con altre esperienze estere. Nel corso della ricostruzione, saranno proposti brevi momenti di riflessione sulla gestione dell’attuale crisi sanitaria, al fine di evidenziare le profonde discontinuità tra i due eventi.
Isolare, assistere, curare
L’emergenza sanitaria provocata dal Covid-19 ha spinto i governi della maggior parte del globo a intraprendere azioni dalle forme e dalle dimensioni inedite, impegnando ingenti risorse per potenziare la sanità pubblica, dopo decenni di politiche neoliberiste (Brown, Cueto e Fee 2007, 82-6), e applicando rigide misure di contenimento a quanti più ambiti possibili della quotidianità. Simili provvedimenti sono stati possibili e hanno avuto una qualche efficacia perché la collettività, al netto di alcune resistenze, vi ha aderito con responsabilità, specie soprattutto durante la prima ondata. Governi e popolazioni hanno tendenzialmente riconosciuto la priorità di tutelare la salute pubblica, a costo di limitare la socialità, ridurre le libertà individuali, danneggiare le attività economico-produttive (Alfani, Bidussa e Chiesi 2021, 52).
Nel 1918 i provvedimenti quarantennali, le limitazioni alla libertà di circolazione e i cordoni sanitari furono raramente adottati per contrastare la “spagnola”. Indubbiamente, simili misure erano difficilmente applicabili nell’antigienico scenario bellico, che agevolò la diffusione del morbo (Rasmussen 2014, 340-1). Inoltre, la malattia avanzò incontrastata perché impattò su popolazioni fiaccate dalle privazioni belliche. Nel caso dell’Italia, tra le nazioni europee più colpite in termini assoluti e relativi – per cui si stimano 490-600.000 vittime, ovvero 10-15 decessi ogni 1.000 abitanti (Mortara 1925; Fornasin, Breschi e Manfredini 2018) –, l’alta incidenza della “spagnola” può essere compresa solo considerando anche i ritardi dello sviluppo alimentare e sanitario nazionale, che la guerra aveva acuito. Lo sforzo bellico aveva sottratto risorse umane e materiali ad alcune iniziative chiave in campo sociale e sanitario (Rochat 2008, 198-9), come la campagna antimalarica e quella antitubercolotica (Detti 1984; Snowden 2006, 115-41). L’assistenza sanitaria gratuita agli indigenti divenne discontinua. Il numero dei medici impegnati tra i civili, insufficiente già nell’anteguerra (7 ogni 10.000 abitanti), subì una drastica contrazione dopo la mobilitazione generale, quando circa il 65% di essi (i nati dopo il 1870) fu richiamato nell’esercito (Cammelli e Di Francia 1996, 57).
A ogni modo, durante la seconda ondata pandemica, molte vite furono sacrificate perché le autorità pubbliche, in Italia come nel resto d’Europa e Nord America, non attuarono provvedimenti igienico-sanitari per non compromettere servizi e attività necessarie al funzionamento della macchina statale e militare (Barry 2004, 148). Stretti tra due crisi, quella sanitaria e quella militare, gli Stati scelsero di dare assoluta priorità allo sforzo bellico, a discapito della tutela della salute pubblica. In Italia il governo guidato da Vittorio Emanuele Orlando diramò alcune vaghe raccomandazioni igieniche da osservare a discrezione, come l’invito a evitare assembramenti: una misura difficilmente applicabile nel contesto bellico. L’inizio della scuola fu quasi ovunque posticipato. L’orario di apertura dei negozi fu ridotto, mentre le farmacie ebbero un allungamento dei turni. I cinema e i teatri furono soggetti a chiusure e riduzioni di capienza, scatenando le proteste dei gestori, che lamentarono di essere i soli esercenti ad aver subito limitazioni alle proprie attività (Cutolo 2020, 166-72).
L’intervento sanitario non interessò, però, gli agglomerati all’ingresso dei negozi alimentari, per non suscitare il panico tra la popolazione, che aveva più timore di rimanere senza viveri che di infettarsi (Ratti 2010, 181). Le industrie e gli uffici pubblici non subirono riduzioni d’orario e sospensioni, ma continuarono a movimentare quotidianamente migliaia di lavoratori, agevolando il contagio. Per l’indifferibile necessità di far affluire rifornimenti al fronte, il personale ferroviario rimase privo di tutele. Siccome le questioni sanitarie erano competenza dei Comuni, secondo la Legge del 1888 (Cea 2019), i provvedimenti consigliati da Roma furono applicati in maniera piuttosto disomogenea. Nel dopoguerra, Alberto Lutrario, a capo della Direzione generale della sanità pubblica (ufficio del Ministero dell’Interno responsabile delle questioni sanitarie), ammise che «le prevalenti esigenze dell’ora compromisero così il successo che, sia pure limitatamente, avrebbe potuto sperarsi da varie disposizioni di indiscutibile valore profilattico» (Lutrario 1921, 22). A dire il vero, le autorità pubbliche agirono con scarsa determinazione su vari ambiti della quotidianità. Non intervennero, ad esempio, nel regolamentare l’accesso ai luoghi di culto per non creare attriti con le istituzioni religiose, che assicuravano un decisivo apporto assistenziale e propagandistico, e per non turbare l’animo della popolazione (Tognotti 2015, 92). Mentre la “spagnola” continuava a seminare morte, si tollerarono le manifestazioni pubbliche per la vittoria (novembre 1918). Un atteggiamento permissivo analogo a quello di altre nazioni: il 28 settembre 1918 a Filadelfia, quando le condizioni sanitarie apparivano già deteriorate, le autorità locali permisero lo svolgimento di una parata per promuovere il prestito nazionale, la Liberty Loan Parade, fortemente voluta dal presidente Wilson. Nei giorni seguenti, il contagio dilagò in città (Barry 2004, 205-9).
In Italia non si tentò poi di implementare un sistema di controllo igienico-sanitario collettivo, attraverso una campagna di educazione alla salute. Le autorità, attraverso la stampa filogovernativa, imputarono la malattia a quanti trascuravano l’igiene [1], in modo da far ricadere la tutela della salute sul singolo e favorire un’adesione individuale ai dettami profilattici. Nondimeno, in assenza di ammortizzatori sociali, il grosso della popolazione non poteva ridurre la frequentazione degli spazi pubblici, necessitando di un’occupazione per la sussistenza di sé e dei propri cari. Molti contrassero e diffusero l’infezione lavorando e muovendosi senza alcuna precauzione igienico-profilattica. Dopotutto, l’uso di dispositivi di protezione individuale fu sconosciuto in territorio italiano, a differenza del Regno Unito e degli Stati Uniti, dove le anti-flu mask furono raccomandate e persino rese obbligatorie in vari Stati (Barry 2004, 347; Johnson 2006, 125). Solo in ambito ospedaliero furono fornite le istruzioni per fabbricarsi una maschera antigrippale rudimentale, ma ai sanitari non fu imposto alcun obbligo di indossarla (Cutolo 2020, 184).
All’insuccesso della campagna profilattica si sommarono le difficoltà riscontrate nell’assistenza sanitaria. Le carenze di medici tra la popolazione non furono colmate, nonostante gli appelli delle autorità civili ai vertici del Regio esercito. Questi accolsero le richieste in minima parte e con lentezza, concentrando le risorse nella tutela dell’integrità dell’esercito, ritenendo l’emergenza nel Paese di secondaria importanza (Cutolo 2019). Fatta eccezione per i centri maggiori, dove i medici privati e la borghesia filantropica si mobilitarono per supplire alle mancanze statali, l’assistenza ai civili fu a carico di un personale esiguo e in larga parte anziano, costretto a lavorare in condizioni estreme, senza protezioni e mezzi di locomozione. I medici e il personale sanitario espressero il proprio disagio, chiedendo aumenti di organico e un trattamento economico migliore, ma le proteste ebbero caratteri sporadici e individuali (Cutolo 2020, 163-4). Le amministrazioni locali non tentarono di mitigare l’emergenza attraverso l’istituzione, come nel Regno Unito, di servizi infermieristici a domicilio, reclutando volontari e preparandoli a somministrare un’assistenza sanitaria di base (Witte 2003, 51-2; Johnson 2006, 140). È vero che i sanitari non disponevano di farmaci efficaci, né comprendevano l’esatta natura dell’infezione, ma il loro intervento poteva essere determinante per fornire indicazioni sulle strategie di recupero e per dare un sostegno psicologico al paziente, mitigando così il senso di abbandono vissuto (Phillips 2014).
Narrare la pandemia
Negli ultimi due anni, il mondo dell’informazione ha dedicato alla pandemia una copertura mediatica ampia e quasi ininterrotta. Quando ben usata e gestita, questa ricchezza di informazioni ha rappresentato una risorsa per rendere più efficaci le misure di contenimento (Vacca 2020), mettendo in guardia la popolazione sulla minaccia sanitaria incombente (Paltrinieri 2020), e per ricercare il coinvolgimento della cittadinanza nella campagna vaccinale. Nondimeno, i punti oscuri sono molti. La ricchezza si è spesso tramutata in sovrabbondanza di notizie, sovente poco attendibili (Alfani, Bidussa e Chiesi 2021, 25). Per catturare l’interesse del pubblico, diversi mass-media hanno fatto ricorso a «toni concitati», al «catastrofismo», al «complottismo», alla «bulimia informativa (infodemia)», finendo per generare «ansia» e diffondere «il panico» (Arcangeli 2020, 192). Specie sui social network e sul web, hanno iniziato a circolare teorie cospirazioniste sulla malattia e sulle cure. Nel turbamento del momento, molti lettori hanno riscontrato difficoltà a orientarsi tra le notizie offertegli. Secondo l’Oms, l’infodemia ha indotto a comportamenti controproducenti per la salute, per il contrasto del virus e per la tenuta dell’ordine pubblico (Alfani, Bidussa e Chiesi 2021, 25). Proprio questa massiccia circolazione di notizie ha contribuito a rendere la pandemia del Covid-19 un’esperienza compenetrante e “totalizzante”.
Sul piano delle narrazioni pubbliche, restano profonde le distanze tra oggi e ieri. L’arrivo della prima ondata (primavera 1918) suscitò scarso interesse nelle opinioni pubbliche dei Paesi belligeranti, che non distolsero le loro attenzioni dal conflitto, entrato nella sua fase decisiva. D’altra parte, le regole censorie non permettevano di affrontare liberamente problematiche interne che potevano destare allarme tra i civili. Ebbe così origine il nomignolo “spagnola”: durante la prima ondata, in Spagna, nazione neutrale, la stampa, libera dalla censura, dedicò dettagliati resoconti alla pandemia. Al contrario, nelle nazioni in guerra, i giornali, per le restrizioni censorie e il loro coinvolgimento nella mobilitazione totale, quasi tacquero del contagio nei rispettivi Paesi, ma diedero conto del suo propagarsi in terra iberica. La malattia appariva, pertanto, confinata alla Spagna e da lì aver avuto origine (Davis 2013, 31; Phillips 2014).
Durante l’ondata autunnale, per la sua gravità, il controllo sull’informazione divenne più stringente, specie in Italia. Via via che l’emergenza si aggravava, rendendo palesi i limiti dell’azione statale, il governo Orlando ricorse a una strategia comunicativa volta a minimizzare, fino al punto di censurare, la criticità della situazione (Forno 2015). I giornali dovevano cessare la diffusione dei bollettini sulla mortalità, limitare i riferimenti all’influenza nei necrologi ed evitare notizie allarmanti, pubblicando al contrario reportage rassicuranti. In questo modo, le autorità miravano a tutelare lo spirito pubblico in un momento decisivo del conflitto, ma potevano anche giustificare la mancata adozione di misure igieniche e assistenziali. I vertici civili italiani poterono contare sulla collaborazione della stampa filogovernativa, dell’associazionismo patriottico e del clero, a cui Orlando si appellò affinché concorressero alla «propaganda tranquillante» [2]. Solo L’Avanti!, il quotidiano del Partito socialista italiano, e pochi giornali locali rimasero a criticare l’atteggiamento delle autorità e del resto della stampa, riaffermando l’importanza di un’informazione accurata per sensibilizzare le persone sui rischi derivanti dal contagio [3]. Questi fogli, specie quello socialista, subirono inevitabili interventi censori e gli attacchi delle testate filogovernative, secondo cui le allarmanti notizie sull’influenza erano state diffuse dai disfattisti per suscitare il panico tra la popolazione [4].
Altre misure imposte ai civili possono essere ricomprese nella strategia comunicativa del governo. Per rafforzare l’immagine rassicurate che traspariva dai giornali, le autorità pubbliche locali limitarono l’esposizione del lutto. Le processioni funerarie furono vietate o costrette a compiere il percorso più rapido per il cimitero, in orari notturni o prima dell’alba. Per il Giorno dei defunti, i cimiteri furono un po’ dappertutto chiusi e l’accesso consentito solo ai parenti più prossimi. Tali provvedimenti erano dettati sia da ragioni sanitarie – del resto, a qualcosa di simile si è assistito anche nella primavera 2020 – sia finalizzate a nascondere all’opinione pubblica gli effetti dell’eccesso di mortalità (circa 400.000 decessi in poche settimane) sul servizio di pulizia mortuaria. In varie parti del Paese, la popolazione assistette a scene orrifiche: le salme trasportate verso i cimiteri ammassate nei carretti, le fosse comuni, i corpi ammassati negli obitori (Collier 1980, 155).
La strategia comunicativa imposta dal governo riuscì a “nascondere” la pandemia sui mezzi d’informazione, ma erose la trasparenza delle notizie sull’emergenza e alimentò le dicerie popolari. In assenza di terapie specifiche, numerose voci riguardarono presunte cure miracolose, che, in genere, avevano effetti nulli, se non controproducenti e dannosi: si verificarono infatti casi di avvelenamento per l’ingestione di disinfettanti [5]. I medici, incapaci di fornire risposte ai malati, persero credibilità, come testimonia il ritorno a pratiche terapeutiche tradizionali, quali purghe con l’olio di ricino, sanguisughe e salassi (Tognotti 2015, 128). L’approccio governativo non valse, inoltre, a tranquillizzare i ceti popolari, ma anzi ne esacerbò la persistente sfiducia verso lo Stato, già aggravata dal conflitto. Si diceva che la scadente qualità dei beni razionati avesse causato il contagio, oppure che il governo avesse diffuso la “spagnola” per ridurre gli indigenti percettori di un sussidio (Giovannini 1987, 375-6). La classe medica, in particolar modo, fu sospettata di fiancheggiare il presunto complotto delle autorità. Stando a un articolo de Il Tempo, poi censurato, in un villaggio dell’entroterra calabrese la folla respinse con violenza i medici, accusandoli di diffondere il «veleno di Stato», e assassinò i due militari di scorta [6]. Pur trattandosi di episodi isolati, come altri fenomeni epidemici di vasta portata – si pensi alle epidemie di colera (Tognotti 2000, XI) –, la “spagnola” innescò intricate relazioni sociali e culturali, che avrebbero necessitato di una diversa gestione da parte delle autorità.
La disinformazione esasperò poi lo smarrimento della popolazione, complice la stretta censoria sulle corrispondenze private. Gli Uffici di revisione dell’esercito obliterarono e tolsero di corso le lettere per il fronte riportanti dettagliate descrizioni dell’emergenza, perché rischiavano di deprimere lo spirito delle truppe. Nonostante la censura, la truppa sapeva del dilagare del contagio tra i civili e, per questo, appariva – agli occhi degli ufficiali del servizio P – in stato di forte ansia. Le medesime paure toccavano i parenti dei combattenti nel fronte interno (Cutolo 2019). Inoltre, l’intensificazione dei controlli, unitamente all’impatto del contagio sul sistema postale, rallentò il flusso delle lettere da e per la zona di guerra, esasperando l’angoscia delle famiglie e dei combattenti. Il timore dei soldati per i propri cari era più che motivato. In particolare, le donne con il marito al fronte e rimaste senza assistenza sperimentarono un profondo senso di abbandono. Alcune, in preda alla disperazione e terrorizzate dal morbo, scelsero di suicidarsi [7]. Le autorità italiane avevano però posto un velo di silenzio sulla tragedia collettiva, ricorrendo alla pratica repressiva maturata negli anni bellici. Le descrizioni più vivide della pandemia affiorano quasi esclusivamente dalle scritture diaristiche e memoriali private, che sfuggirono alla scure censoria. Da essi traspaiono il disorientamento, per un evento che si faticava a comprendere, e i tratti più orrifici e patetici dell’esperienza della “spagnola”. In varie storie, l’influenza divenne la tragedia conclusiva di anni di attesa, sofferenze e peripezie per affetti familiari divisi dal conflitto.
Quel che resta di una crisi
Nonostante le dimensioni della tragedia vissuta dalla popolazione, la pandemia uscì rapidamente dalla scena pubblica. Quando la censura fu allentata, verso fine novembre, il picco della seconda ondata era stato superato e questioni ritenute più urgenti del dopoguerra – quali l’assetto internazionale post-bellico e i problemi sociali – fagocitarono l’attenzione dell’opinione pubblica. Solo durante la recrudescenza del febbraio-marzo 1920 il dibattito pubblico sulla “spagnola” si riaccese. Le testate vicine al governo sottolinearono che la nuova forma aveva caratteri ben più benigni della seconda ondata [8]. I socialisti, al contrario, accusarono le autorità di affrontare la recrudescenza con gli stessi mezzi impiegati nell’autunno 1918, ripetendo così i medesimi errori [9]. Il nuovo picco si esaurì in poche settimane, con numeri abbastanza contenuti, e i giornali persero rapidamente interesse per la “spagnola”. Negli anni successivi non si verificarono poi ulteriori rilevanti ondate che potessero ravvivare l’interesse per l’argomento.
Dopo la Grande guerra, il “grande dopoguerra” erose lo spazio della “spagnola” nel dibattito politico. Eppure, l’emergenza non fu priva di ricadute politiche. Come altre crisi sanitarie, la pandemia influenzale rappresentò un momento di rottura che spinse i governi a riflettere sulla salute pubblica, evidenziando l’importanza dell’intervento pubblico e innescando, così, progetti di riforma. Nel 1919 il governo britannico istituì un ministero per coordinare i servizi assistenziali e sanitari a favore della popolazione (Winter 2007, 286). La “spagnola”, aggravando gli sconvolgimenti demografici provocati dal conflitto, fu tra i fattori che spinse molti Stati – compresa l’Italia – a implementare politiche volte a favorire la natalità e a istituire timidi programmi di welfare (Pironti 2007, 2).
Come anticipato nell’introduzione, la “spagnola” lasciò però flebili tracce nella memoria pubblica, sopravvivendo nei ricordi familiari. Le cause dell’oblio cui andò soggetta la “grande pandemia del Novecento” sono molteplici: la censura imposta sull’emergenza, l’egemonia della memoria eroicizzante dei caduti in guerra sul ricordo dei morti per la pandemia, il diverso modo di vivere la morte per malattia a inizio Novecento, l’emergere dei problemi politico-sociali del dopoguerra (Bianchi 2020; Tognotti 2015, 28; Spinney 2018, 66). Bisogna anche considerare che i governi e la stessa classe medica preferirono dimenticare la pandemia, visto il fallimento nel contenerla, nel comprenderla e nel curarla (Harrison 2015).
Non furono, pertanto, innalzati monumenti ai morti per l’influenza. Solo recentemente, in occasione del centenario (2018), alcune comunità locali – in Nuova Zelanda, negli Stati Uniti e in varie nazioni europee – hanno eretto memoriali in ricordo dei morti per la “spagnola”, nell’ambito di percorsi di risignificazione della memoria collettiva (Lima e Sobral 2020). Niente di analogo, per quel che si è constatato, è avvenuto in Italia: viene da interrogarsi se, di fronte alla riscoperta recente del tema, qualcosa si muoverà in questo senso. Intanto, la massima espressione del dolore per la perdita erano e restano le strazianti iscrizioni sulle lapidi, talora sopravvissute nei cimiteri di campagna, che testimoniano il tentativo di esternare pubblicamente il proprio dolore per la perdita patita. Nel 1918, come ha scritto Giovanni Contini, le «innumerevoli morti di ‘spagnola’» furono «tante morti individuali, piante singolarmente dalle famiglie, senza che ci fosse un filo che collegava questi lutti». Dimensione pubblica e privata rimasero separate, facendo mancare «una cornice che potesse aiutare a elaborare il lutto» (Bianchi, Casellato e Contini 2021, 88).
Al contrario, a partire dal 2020, con l’emergenza ancora in corso e senza prevedere con precisione la sua fine, in Italia – come all’estero – ha iniziato a comporsi, sotto l’egida delle istituzioni, una memoria pubblica della pandemia di Covid-19. È stata stabilita la “Giornata nazionale della memoria per le vittime del Covid-19” (18 marzo) e sono stati inaugurati, specie nei territori più colpiti del Settentrione, memoriali in ricordo delle persone decedute e celebranti gli sforzi del personale sanitario. In vari casi questi memoriali, frutto dell’incontro tra le sollecitazioni provenienti dal basso e la volontà istituzionale, mimano le forme e gli accenti dei monumenti dedicati ai caduti delle guerre mondiali (Mazzucchelli e Panico 2021). Attraverso una retorica dolorista, questi manufatti commemorativi cercano di ricomporre i lutti privati in una cornice pubblica, valorizzando la perdita, ma anche riaffermando la rappresentazione istituzionale di una società che ha unitamente fronteggiato l’emergenza sanitaria.
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Note
1. “Il decalogo per mantenersi sani”. La Stampa (28 settembre 1918).
2. “Una circolare di Orlando sulle voci false ed esagerate sull’epidemia”. Corriere della Sera (24 ottobre 1918).
3. “La febbre spagnuola in Italia”. L’Avanti (26 settembre 1918).
4. “Nuovi provvedimenti contro l’influenza”. Corriere della Sera (16 ottobre 1918).
5. “Un giovane colono morto avvelenato”. Nuovo Giornale (26 ottobre 1918).
6. “La credenza del veleno di Stato”. Il Tempo (25 ottobre 1918).
7. “Si uccidono per paura dell’influenza”. La Nazione (22 ottobre 1918).
8. “Misure profilattiche contro l’influenza”. La Stampa (30 gennaio 1920).
9. “Salus pubblicae”. L’avvenire: giornale socialista settimanale del circondario di Pistoia (28 febbraio 1920).