Questo lavoro di De Luna si inserisce appieno nella nuova fase della ricerca storica italiana sulle guerre del Novecento che, già nel corso degli anni ’80, ma in modo più maturo e produttivo lungo gli anni ’90, ha spostato sullo sfondo gli aspetti e le conseguenze economici e sociali di quei conflitti per mettere in primo piano “oggetti” di studio (connessi alle guerre del XX secolo ma anche alla guerra in generale) che appartengono agli ambiti della violenza, della sofferenza, del trauma fisico e psicologico.
Che la guerra sia, in sé, violenza e generi sofferenza, e che in essa si muoia e si uccida, appare sicuramente ovvio e forse proprio per questo tali aspetti non hanno attirato l’attenzione degli storici fino a tempi così recenti. Tempi in cui la fisicità e brutalità di quella violenza e di quella morte sono divenute visibili all’interno delle nostre case, attraverso il televisore, quasi quotidianamente e praticamente in diretta.
La nuova sensibilità storiografica verso questi temi (che dalla metà degli anni ’90, oltre a dare i maggiori frutti in Italia, ha motivato e alimentato ricerche e dibattiti sul piano internazionale, coinvolgendo anche altre discipline) è passata (ritengo inevitabilmente) attraverso una fase di concettualizzazione della guerra come evento autonomo, meritevole di un’analisi propria, e di astrazione di tale evento dalla politica, dall’economia, dalle strutture e culture sociali e anche dal tempo e dallo spazio, per poi tornare, come dimostra questo libro, a collegare strettamente la guerra a tali ambiti dopo avere prodotto nuove categorie e nuovi strumenti utili a osservare più in profondità non solo “la guerra”, ma anche “le guerre”.
Nel lavoro qui considerato, infatti, De Luna propone nuove rilevanze e nuove conoscenze all’analisi storica delle guerre del Novecento (fino a quelle recentissime in Afghanistan, Cecenia, ex Jugoslavia, ecc.) partendo dal “risultato” più immediato e materiale della violenza bellica: il corpo del morto in guerra. Corpo del nemico soprattutto, ma anche dell’amico, del soldato, ma anche del civile. Un corpo “visto” e studiato utilizzando prevalentemente fotografie e altre immagini (oltre a schede anamnestiche di medici legali e informazioni raccolte presso antropologi, medici, giornalisti e testimoni) e che diviene a sua volta fonte, «straordinario documento per conoscere l’identità del carnefice».
È un corpo sempre rispettato e spesso onorato, se amico, a volte rispettato ma quasi sempre profanato, se nemico. Le modalità del rispetto e/o della profanazione sono strettamente legate ai particolari contesti (temporali, geografici, ideologici, giuridici, culturali, strategici e tecnologici) nei quali si sono svolti i conflitti presi in considerazione, ma, contemporaneamente (rispondendo una tensione scientifica che ha bisogno di confrontare il “particolare” con categorie più ampie), possono essere ricondotte ad alcune tipologie di guerra (simmetrica, asimmetrica, civile, ai civili) definite dall’a. analizzando non fattori come le forze militari e/o economiche messe in campo o l’evoluzione tecnologica, ma il “trattamento riservato” ai corpi dei nemici uccisi. Gli elementi nuovi e gli spunti di riflessione che emergono analizzando i conflitti del Novecento da questo innovativo punto di vista sono numerosi e interessanti. La seconda guerra mondiale, per esempio, acquisisce un ulteriore motivo di “totalità” (De Luna la definisce «compiutamente totale»). In essa, infatti, tutti i tipi di guerra messi a fuoco dall’a. risultano essersi assommati e aggrovigliati producendo una violenza estrema all’interno della quale il corpo del nemico ucciso (che poteva essere il corpo del soldato avversario, ma anche quello del civile colpito dalle bombe o fucilato, o quello dell’ex compagno di scuola, e che comunque, quasi sempre, aveva le caratteristiche di “nemico totale”) ha avuto un ruolo centrale nell’attivare e alimentare il terrore degli avversari (militari e civili) e nell’accorpare i carnefici esaltando la loro potenza di gruppo e/o incanalando il loro desiderio di vendetta.