E’ lecito includere l’esperienza politica francese in un dossier dedicato a scardinare l’asse spaziale centro – periferie? In apparenza, la risposta dovrebbe essere negativa. Senza neanche bisogno di scomodare le note tesi tocquevilliane circa la continuità di un potere statale, che dall’antico regime alla monarchia di Luglio, ha ridotto l’intera società civile nello spettro di un’esangue periferia, è sufficiente menzionare le modalità specifiche di apprendistato della modernità politica da parte della Francia per ricordare come la centralizzazione amministrativa, sanzionata nell’anno VIII, non sia altro che un epifenomeno di una centralizzazione politica iscritta nel progetto del 1789. Rispetto alla proclamazione di una società d’individui, quale quella che si attua con la Rivoluzione, è lo Stato che si fa ad un tempo produttore e strumento di coesione del sociale. In questo contesto, non è neanche pensabile la nozione di periferia, se non nel significato assolutamente negativo di scarto, di residuo, irrefrattario ad identificarsi in quella equivalenza tra il “cerchio” e il “centro”, che ad osservatori più sensibili ad una dimensione pluridimensionale del potere appariva una vera e propria anomalia.[1] Da qui il significato denigratorio che per un lungo tratto di strada ha connotato l’esprit de province nella cultura francese, così come l’incommensurabile distanza che la gerarchizzazione dello spazio nazionale ha istituito tra Parigi e il resto del territorio.
Tuttavia, l’ultimo contributo di Pierre Rosanvallon, Le modèle politique français. La société civile contre le jacobinisme de 1789 à nos jours[2], permette di rimescolare i soggetti del quadro. E’ vero: se ci si limita agli enunciati ufficiali e ai precipitati istituzionali che da quelli derivano niente consente di rimettere in discussione la tradizione statocentrica e centralizzatrice che un’accreditata storiografia ci ha reso familiare[3]. Se però a quella lettura si affianca la contemporanea storia sociale, attenta alle movenze assunte dalla società civile così come al funzionamento effettivo delle istituzioni, il sistema politico francese può risultare meno coeso di quanto proclamato nel suo atto fondativo. Affiancare, tuttavia, non è l’espressione più esatta, perché dà quasi l’idea che sia sufficiente giustapporre le due “storie” per cogliere il sistema nella sua dinamicità: non si è dunque tanto in presenza di una storia “intellettuale” continuamente contraddetta o negata dalla prassi di attori inconsapevoli, quanto di “una storia riflessiva del sociale”, dove per sociale bisogna intendere i progetti e le percezioni di tutti gli attori direttamente coinvolti. E’ questo che caratterizza per Rosanvallon il “politico”, e vale la pena allora di soffermarsi sul punto in via preliminare.
1. Le modèle politique française, per esplicita ammissione del suo autore[4], non fa che dare risposta ad alcuni interrogativi cruciali sollevati dallo stesso Rosanvallon circa trent’anni fa in un libro la cui ambizione non era tanto rivolta a far avanzare il dibattito storiografico quanto a rinnovare nel profondo la cultura politica della sinistra. Pour une nouvelle culture politique, come pure il di poco precedente L’âge de l’autogestion[5], rappresentano, per ammissione comune, il manifesto di quella deuxième gauche rocardiana di cui Rosanvallon all’epoca, in qualità di dirigente della CFDT, ne era in certo senso l’ideologo ufficiale. La linea di congiunzione che lega l’ex-sindacalista al prestigioso docente del Collège de France potrebbe apparire tracciata a posteriori, nel tentativo di rendere coerente un percorso apparentemente parecchio accidentato. E tuttavia conviene invece prenderla assolutamente sul serio, per comprendere la coerenza di un percorso intellettuale segnato da un costante sforzo di auto-introspezione: auto-introspezione, che incentrandosi sul significato e sul valore della democrazia, diventa per ciò stesso un generoso tentativo di introspezione per conto altrui.
Da qui mi sembra derivano due qualità che lo distanziano da alcuni dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da François Furet all’Ecole des Hautes études en sciences sociales, al quale Rosanvallon ha partecipato attivamente a partire dal 1984, una volta rotti i ponti con l’impegno politico attivo. Innanzi tutto, l’insoddisfazione verso una nozione di democrazia unicamente negativa, in base alla quale, per usare un linguaggio popperiano “le democrazie non sono […] sovranità popolari, ma in primo luogo istituzioni attrezzate per difendersi dalle dittature”[6]. Per Rosanvallon, che pure condivide con Furet le medesime prevenzioni contro le patologie della volontà e le pretese totalitarie di confondere Stato e società civile, non ha invece senso alcuno l’affermazione con cui si conclude una ricerca uscita dalla stessa scuola: “Pour aimer bien la démocratie, il faut l’aimer modérément”.[7] Come dimostra la poderosa trilogia che anticipa quest’ultimo volume,[8] per Rosanvallon la democrazia è un processo e una tensione, che tende in maniera continuamente instabile a tenere insieme l’aspirazione all’autonomia individuale e la necessità del vivere comune: è in fondo la scommessa offerta alla politica fin dall’alba della modernità, nei tentativi, sempre provvisori e sempre discutibili, di dare un senso effettivo – in termini di identità sociali, di concrete indicazioni nell’agire – a quel potere di tutti il cui fondamento è interamente simbolico. E’ possibile “amare con moderazione” l’unica condizione che consente a milioni di uomini e donne di dare un senso alla dimensione comunitaria, che rappresenta il presupposto per l’esercizio di una vera e propria cittadinanza? Ed è possibile farlo, per colui che ritiene la storia politica la storia totale per antonomasia?
Tutto l’itinerario intellettuale di Rosanvallon sembra rispondere con un no. Da qui deriva l’altra particolarità che lo rende un unicum all’interno della pur variegata galassia della scuola furetiana. Se, come è a tutti noto, il mainstream di quest’ultima può ricercarsi non solo in un rinnovato approccio alla storia politica, ma soprattutto nel mettere a nudo le perversioni e il sostanziale illiberalismo implicito nella fondazione rivoluzionaria della democrazia in Francia, Rosanvallon, al contrario, proprio in quanto assume la democrazia come un processo in fieri, retto da una sostanziale indeterminatezza, tende a ridurre notevolmente l’eccezionalità francese rispetto ad un cammino normativo spesso fatto coincidere con quello anglosassone. La Francia, per la radicalità della sua esperienza, si presta anzi a rappresentare un laboratorio privilegiato per cogliere le aporie della dimensione democratica, ma non ne rappresenta affatto una deviazione. Lo vedremo meglio tra breve. Per il momento è invece opportuno soffermarsi su un’altra rilevantissima conseguenza di questa concezione aporetica e insieme elastica della democrazia. Se la democrazia è “un processo di esplorazione e di sperimentazione, di comprensione e di autoelaborazione”,[9] allora è solo storicamente che essa acquista la propria intelligibilità. E’ unicamente ricostruendo le scenografie che hanno consentito le messe in scena del vivere comune, dando fiato agli attori, ascoltando le reazioni del pubblico che la polis da teoresi si fa prassi. Nel caso della democrazia – o del politico, come Rosanvallon preferisce denominarla, utilizzando un’espressione globalisante – farne la storia non significa dunque apprezzare il peso dell’eredità; significa piuttosto “fare rivivere la successione dei ‘presenti’ intesi come altrettante esperienze che creano la nostra storia”.[10] Alla luce di questo approccio, tra lo storico di oggi e il militante di ieri, la distanza è solo metodologica, di certo non sostanziale. In entrambi è presente la stessa volontà di incidere nell’agone civile, anche se gli strumenti, oggi, sono notevolmente mutati. Non fino al punto, però, da mettere in discussione sia le domande fondamentali che Rosanvallon rivolge alla storia sia alcuni puntelli epistemologici necessari per affrontare lo studio della democrazia.
In merito vanno chiarite in via preliminare alcune questioni. Pur essendo maturate all’interno della CFDT, le posizioni politiche di Rosanvallon vanno tenute distanti sia dal cattolicesimo sociale – che pure rappresentava la matrice culturale del sindacato – sia dalle prospettive revisioniste, sull’onda di quelle espresse dalla Primavera di Praga. Piuttosto si trattava di un progetto politico “qui était d’abord fondé sur une définition de la gauche radicalement anti-totalitaire” [11]. E se l’indeterminatezza della democrazia si riflette nella crisi permanente del linguaggio politico, soprattutto delle sue parole d’ordine fondamentali[12], è brandendo e affinando il termine di “autogestione”, la parola-chiave della sinistra francese all’indomani del ’68, che Rosanvallon inaugurava la propria militanza politica[13]. Non si trattava solo di ampliare gli ambiti della democrazia economica, seguendo la declinazione che alcune contemporanee esperienze socialiste, dalla Yugoslavia a Israele, avevano dato all’espressione. In gioco era davvero la messa in cantiere di una nuova cultura politica, o, meglio, di una politica capace di superare sia le entropie democratiche delle istituzioni rappresentative della Stato borghese sia la devalorizzazione della politica implicita nell’analisi marxista dell’estinzione dello Stato. L’ambizioso progetto di Rosanvallon seguiva quindi un duplice percorso: da un canto, dare un contenuto positivo a questa nuova forma di democrazia adatta all’emergere della nuova società post-industriale, dall’altro – trattandosi di un discorso interno alla sinistra – dimostrare l’insufficienza delle categorie marxiste per affrontare ex novo la questione politica della partecipazione. L’ambizione antitotalitaria non si appuntava dunque solo sul rifiuto di quella rifrazione della società civile nello Stato che connotava l’esperienza sovietica, ma covava la volontà di chiudere i conti con il marxismo come categoria interpretativa della realtà.
Chi è interessato a cogliere le continuità tra il Rosanvallon prima maniera e quello attuale, dei due risvolti della medaglia, quello costruttivo e quello distruttivo, deve privilegiare il secondo. Il primo, infatti, se ha inciso per qualcosa, lo ha fatto più in termini di aspirazioni che di soluzioni operative. Ha reso cogente l’esigenza di una democrazia capace di trascendere gli aspetti procedurali per attingere la dimensione di una cultura: ha sollevato una domanda piuttosto che dare risposte. Tanto che sia le sue movenze contestatarie nei riguardi dei poteri burocratici sia l’estensione generalizzata delle procedure democratiche nei diversi aspetti della vita sociale hanno inciso nella realtà politica francese lo spazio di un mattino.[14] Molto più rilevanti sono invece gli strumenti concettuali con i quali Rosanvallon riteneva di inaugurare questa nuova stagione intonata alla democrazia partecipativa. Alla nozione di struttura, a suo dire, era necessario sostituire quella di istituzione; la visione lineare del tempo, con la meccanicistica filosofia della storia che questa comporta, doveva essere surrogata da una deframmentazione e dello spazio e del tempo. Solo in questo modo sarebbe stato possibile istituire la sperimentazione come spazio strategico dell’innovazione, voltando le spalle alla concezione rivoluzionaria classica della trasformazione sociale: altrimenti, l’autogestione non avrebbe avuto altro avvenire che “d’être récupérée par le centre ou rejettée à la phériphérie”.[15].
L’ambito organizzativo della democrazia è dunque uno “spazio differenziale”, capace di rompere gli schematismi verticali dell’antitesi centro / periferia. E in quanto spazio della politica, si presta ad essere meglio indagato tramite l’analisi istituzionale piuttosto che attraverso lo strutturalismo soggiacente della teoria marxista. Se Rosanvallon non è incasellabile tra gli storici del pensiero politico – come lui stesso al riguardo ha tenuto in più luoghi a ribadire[16] – , è proprio per il fatto che tutta la sua riflessione può ritenersi un felice approfondimento di alcune geniali intuizioni metodologiche offerte da L’invention imaginaire de la société di Cornelius Castoriadis. Così come quest’ultimo, introducendo il concetto di storico-sociale, aveva affermato che ogni istituzione – a partire della stessa società – è insieme prodotto della struttura sociale e della rappresentazione “immaginaria” con cui quest’ultima la legittima; che ogni istituzione vive della contraddizione irrisolta di istituito (regole riconosciute) e istituente (chi la contesta, rimanendo o meno all’interno dello stesso “immaginario”)[17]; che l’analisi funzionalista comporta una reificazione tautologica, dal momento che anche i bisogni sono creazioni umane, psichiche e al contempo storicamente determinate, anche il Rosanvallon degli anni ’70 scriveva: «Le critère d’intérêt et de besoin est insuffisant pour rendre compte de motivations collective d’un groupe ou d’une classe par rapport à la question du changement social. Il faut aussi faire intervenir ce que certains appellent le ‘désir’, d’autres ‘l’imaginaire social’, c’est-à-dire la représentation d’une alternative possible pour laquelle un ensemble d’hommes est prêt à courir des risques»[18]. Per questo, « seul une analyse de type institutionnel permet de comprendre la société comme autre chose que le produit des modifications opérées par le développement des forces productives. Elle permet de comprendre la richesse des conflits sociaux qui ne se réduisent pas à des symptômes de la contestation du système ou à des répétitions de la lutte finale. Elle permet de saisir le mouvements sociaux comme des moments d’avancée de l’instituant contre l’institué, créateurs de la contre-institution et déséquilibrant le système ».[19] Ma possiamo considerarlo tanto distante dal Rosanvallon di trent’anni dopo? Che cosa comporta la “storia concettuale del politico” che Rosanvallon intende praticare, se non la presa d’atto che “le rappresentazioni e le ‘idee’ costituiscono una parte strutturante dell’esperienza sociale”? «Lungi dal venire considerate in modo autonomo e dall’essere studiate nella cerchia chiusa dei loro punti di contatto o delle loro differenze – così continua - tali rappresentazioni costituiscono delle reali e potenti ‘infrastrutture’ nella vita della società. […] Si tratta di prendere in considerazione tutte le rappresentazioni ‘attive’ che guidano le azioni, che delimitano il campo del possibile con quello del concepibile e che definiscono il quadro delle controversie e dei conflitti»[20].
Eccettuata l’attenuazione dell’angolatura militante anti-sistema, e la sua compiuta decantazione all’interno di una riflessione storica, le coordinate epistemologiche non sembrano granché mutate. Né diverso appare l’oggetto d’indagine: il sistema politico che Rosanvallon ultimamente descrive non è fatto della interrelazione di quei soli soggetti che richiedono espressamente un’obbligazione politica (come potrebbero essere i partiti) ma di tutte le forme di auto-organizzazione che ha saputo esprimere la società civile. Si potrebbe obiettare che la specificità francese consista proprio in questo: nel confiscare ad esclusivo beneficio dello Stato l’intero spazio politico, rendendo in tal modo arduo il dialogo di quest’ultimo con il pluralismo latente nella società civile. Ma a quest’obiezione si potrebbe anche rispondere che solo l’imprinting della cultura politica “autogestionaria” consente di leggere come ricca di una politicità latente l’esistenza dei corpi intermedi presenti in maniera autonoma nella società.
2. Difficile riferire di quest’ultima ricerca senza imbastire un confronto, ancorché superficiale, con la riflessione precedente dell’autore, e soprattutto con i tre volumi dedicati alla democrazia. Anche se attraverso angolature diverse – lì si trattava di dar conto dell’accesso di tutti alla ragione (Le sacre du citoyen), di risolvere la contraddizione tra la rappresentanza del popolo-uno e la sua effettiva organizzazione sociologica (Le peuple introuvable), di concedere infine a tutti e a ciascuno un potere effettivo (La démocratie inachevée) – i problemi sul tappeto sono gli stessi: quello della composizione sempre provvisoria dell’autonomia e della partecipazione, della formalizzazione democratica e del protagonismo dei soggetti, del numero e della ragione. Familiari, del resto, appaiono anche le scansioni cronologiche che segnano i tornanti dell’esperienza politica francese. Come i precedenti, il libro s’apre con un affresco sulla cultura politica rivoluzionaria, che in questo caso viene declinata lungo tre direttrici principali: come generalità sociale (il rifiuto dei corpi intermedi e l’aspirazione a costruire un’Unica società); come qualità politica dell’immediatezza (nel significato specifico del rigetto di qualsiasi istanza capace di strutturare in maniera funzionale l’espressione del volere collettivo); infine, come dimensione procedurale (il culto della legge, in cui volontarismo e razionalismo fanno tutt’uno). Anche in questo caso, poi, l’autore del Moment Guizot[21] individua negli anni Trenta dell’Ottocento una svolta decisiva. A fronte della messa in discussione del modello rivoluzionario, sia per garantire la governabilità della società civile (è il caso dei ricorrenti progetti d’istituzione di nuove corporazioni), sia per la rilevanza che il fenomeno associativo svolge all’interno della nascente classe operaia, sia infine per influenza di un’autentica cultura liberale favorevole alla decentralizzazione e allo “spirito” associativo, la tenuta e la ricomposizione pacificata delle parole d’ordine rivoluzionarie sono possibili grazie ai dottrinari. E’ la loro sovranità della ragione che consente la definitiva acclimatazione sul suolo di Francia della cultura politica della Rivoluzione, paradossalmente proprio disancorandola dalle fragili fondamenta volontaristiche proprie del 1789. Definendo la democrazia nei termini semplicistici di consenso e legittimazione, declinando la libertà unicamente come un diritto individuale, questa nuova filosofia del potere consente di mantenere coesa la generalità delle istituzioni centrali, nel caso specifico identificate con il governo rappresentativo.
Come nel volume immediatamente precedente,[22] anche in questa sede viene poi data rinnovata enfasi alla strategia politica del Secondo Impero, in cui l’iper-giacobinismo politico non disdegna il riconoscimento inedito di attori collettivi in campo economico e sociale. Tuttavia, se negli scritti anteriori Rosanvallon tendeva a privilegiare il legame che univa i padri fondatori della “Repubblica assoluta” con l’esigenza, che era già dei dottrinari, di una “sovranità sociale organizzata”,[23] qui invece prevale la continuità tra la sperimentazione portata a termine da Napoleone III e la successiva storia repubblicana: con diverse movenze, nell’una e nell’altra la fedeltà al monismo politico rivoluzionario si accompagna infatti alla delega di funzioni ai corpi organizzati, che stentano per ciò stesso a acquisire una loro politicità. Infine, è ancora una volta attraverso la rivoluzione silenziosa portata avanti tra il 1880 e la prima guerra mondiale che Rosanvallon vede concluso nei suoi termini essenziali il percorso politico intrapreso dal 1789 (rispetto al quale tutto il secolo XX avrà ben poco da dire). Se la normalizzazione in Le sacre du citoyen era individuata soprattutto nell’impegno pedagogico nei confronti della democrazia, se in Le peuple introuvable l’accento era posto invece sul riconoscimento dei partiti e nell’affermazione di organi dell’amministrazione consultiva, se infine in La démocratie inachevée era la questione del referendum o il diritto di manifestazione che modificavano il quadro,[24] qui invece grande enfasi viene posta sulla legge sindacale del 1884 e su quella del 1901 relativa alle associazioni. Annullando lo spettro simbolico di Le Chapelier, queste leggi consentono una rinnovata forma di convivenza tra la cultura politica monistica e una società civile organizzata.
Il centro di gravità rispetto a cui gravita la riflessione di Rosanvallon è dunque sempre lo stesso. Eppure, non ci si può esimere dall’evidenziare almeno due conclusioni scaturite in margine a queste riflessioni.
La prima, la più rilevante sembra proprio quella relativa al grado di anomalia che si è disposti a riconoscere alla fondazione della democrazia francese. Già alcuni lettori del trittico precedente dedicato alla storia della democrazia in Francia si erano chiesti se fosse plausibile lenire il forte malessere nei riguardi della democrazia – nota caratteristica dello scenario politico europeo dopo il crollo del muro di Berlino – con una narrazione disposta più a sottolinearne le aporie e le incongruenze che le indicazioni positive: e proprio partendo da quell’esperienza nazionale, che il sentire comune considera il capostipite della cultura democratica.[25] Una risposta implicita a questo cruciale interrogativo è contenuta nelle pagine che, a guisa di giuntura, collegano la disanima della cultura politica di cui si fa interprete la Rivoluzione con la sua messa alla prova successiva nel confronto / scontro con la realtà della società civile. Chi conosce la centralità avuta da L’Ancien Régime et la Révolution di Tocqueville nella storiografia revisionista gravitante intorno a Furet, così come il metro di misura che al suo interno ha svolto l’esperienza anglosassone,[26] non può che rimanere stupito dalla vera e propria liquidazione che in queste pagine viene fatta di Burke e Tocqueville. A parere di Rosanvallon, l’uno denunciando il demone francese dell’astrazione, l’altro stigmatizzando l’implacabile centralizzazione amministrativa, hanno reso il caso francese un Sonderweg particolarmente inquietante: e soprattutto l’hanno rinchiuso “dans la malediction d’une origine”.[27] Ma la fondazione rivoluzionaria della democrazia in Francia al contrario non ha nulla d’eccezionale: nella sua radicalità, semmai, rende più evidenti le aporie comuni a qualsiasi esperienza di modernità democratica. Inutile dunque contrapporle, come sua antitesi di maniera, il modello britannico, quasi che quest’ultimo non abbia anch’esso le proprie antinomie. Facendosi schermo con alcune note pagine dei Grundlinien der Philosophie des Rechts di Hegel, Rosanvallon rifiuta così di leggere i due modelli secondo la coppia antinomica usuale democrazia / liberalismo, per scorgervi piuttosto “une forme pathologique de chacune de ces deux figures”.[28] In un caso – quello della Francia – la generalità[29] è prevalsa sul particolarismo, dando origine ad una comunità politica interamente fondata sull’universalismo astratto; nell’altro – quello dell’Inghilterra – si è sì riusciti a valorizzare la concretezza dei rapporti sociali, ma a scapito di una vera rottura con l’universo dei privilegi. Nell’uno è prevalsa, di conseguenza, un’utopia legicentrica, speculare all’astrazione compiuta del soggetto collettivo, nell’altro una governance, incapace di esprimere spesso una sovranità realmente condivisa. Rendere effettiva la compenetrazione tra l’universale e il particolare è invece la scommessa sempre aperta inaugurata dalla democrazia.
E’ quanto il libro del resto racconta, anche se questa “sintesi” in Francia è avvenuta attraverso percorsi tortuosi, tentennamenti, provvisori passi indietro, aggiustamenti e soprattutto senza alcuna consapevolezza di quanto si stava compiendo. Se esiste una specificità del sistema politico francese, questo allora può individuarsi in quel “riformismo indicibile”, con il quale si chiudono le pagine del volume.[30] All’alba del XXI secolo, nel mentre il modello “giacobino” ha lasciato il campo ad uno Stato reticolare che non disdegna il contatto con associazioni e sindacati, dal punto di vista delle rappresentazioni non si è molto distanti dalla sintassi del 1789. L’integralismo repubblicano, mai sconfessato, ha finito per opacizzare tutti i soggetti sociali coinvolti, impedendo di affrontare la dinamica reale del modello politico in questione. Secondo Rosanvallon, quello che è mancato e tuttora manca alla Francia (ma per estensione il discorso vale per la democrazia tout court) è una cultura della generalità adatta ad esprimere la dimensione organizzativa plurale in cui la sovranità storicamente si è realizzata. E’ una diagnosi già suggerita nelle conclusioni di La démocratie inachevée[31], ma che qui, proprio attraverso il serrato confronto tra l’immaginario sociale e la prassi istituzionale, acquista un rinnovato spessore, al punto da sollecitare una domanda. Se Rosanvallon dissente dai corifei della democrazia negativa, con coloro che l’intendono interamente risolta nella difesa della triplice dimensione del mercato, dell’opinione, dei diritti dell’uomo; se rifiuta di rendere equivalente ogni progetto collettivo con un presunto costruttivismo sociale, non è perché, in fondo, è erede di quella stessa cultura politica universalista, che lui stesso ha messo in discussione? Scriveva Castoriadis che «l’existence effective du social est toujours disloquée intérieurement ou, comme on voudra dire, constitué en soi par le hors soi […] Et ce dans et par quoi le social se figure et se fait être, l’institution, est ce qu’il est en tant que, fondé en arrière, il l’a été pour rendre possible l’accueil de ce qui est en avant, puisque l’institution n’est rien si elle n’est pas forme, règle et condition de ce qu’il n’est pas encore».[32] Questo « hors soi » nel caso di Rosanvallon è rappresentato nel 1789, e niente ci consente dunque di affermare alla sua presenza che la rivoluzione è davvero “finita”.
Note
[1] Penso a John Adams, che, commentando nelle sua Defense of the Constitution of the Governement of the United States of America il proposito di Turgot, di “raccogliere tutta l’autorità in un solo centro, la nazione”, sollevava l’aporia implicita nella coincidenza tra il “cerchio” e il “centro” (si veda adesso il passo in trad. it .in J. Adams, Rivoluzioni e costituzioni, a cura di M. Mioni, Napoli, Guida, 1997, 77).
[2] Paris, Seuil, 2004.
[3] Che conta, tra l’altro, un rilevante volume dello stesso P. Rosanvallon, L’Etat en France de 1789 à nos jours, Paris, Seuil, 1990.
[4] Cfr. Le modèle politique français, cit., 19.
[5] Cfr. P. Rosanvallon – P. Viveret, Pour une nouvelle culture politique, Paris, Seuil, 1977 e P. Rosanvallon, L’âge de l’autogestion, Paris, Seuil, 1975.
[6] K. R. Popper, La lezione di questo secolo, intervista di G. Bosetti, Venezia, Marsilio, 1994, 65.
[7] Così P. Manent, Tocqueville et la nature de la démocratie, Paris, Julliard, 1982, 181.
[8] Mi riferisco a Le sacre du citoyen. Histoire du suffrage universel en France, Paris, Gallimard, 1992 (trad. it. La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Milano, Anabasi, 1994); Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Paris, Gallimard, 1998; La démocratie inachevée. Histoire de la souveraineté du peuple en France, Paris, Gallimard, 2000.
[9] P. Rosanvallon, Il Politico. Storia di un concetto, trad. it., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, 13. Si tratta della lezione inaugurale tenuta al Collegè de France nel 2002 in occasione del conferimento della cattedra di Storia moderna e contemporanea del politico.
[10] Ibidem.
[11] E’ lo stesso Rosanvallon a ricordarlo in un testimonianza resa alla «Revue française d’histoire des idées politiques», 2 (1995): cfr. 363.
[12] Cfr. Il Politico, cit., 32.
[13] Degno di nota che L’âge de l’autogestion, cit., 7, porti in esergo i versi di Paul Eluard “Et par le pouvoir d’un mot je recommence ma vie”.
[14] Cfr. quanto riferisce lo stesso Rosanvallon, in una sorta di auto-analisi retrospettiva, in La démocratie inachevée, cit., 385-388.
[15] Cfr. Rosanvallon – Viveret, Pour une nouvelle culture politique, cit., 115. Ma si veda anche L’âge de l’autogestion, cit., 83-89.
[16] Si veda, ad esempio, P. Rosanvallon, Pour une histoire conceptuelle du politique (note de travail), «Revue de synthèse », 1-2 (1986), 105 o quanto afferma nell’intervista rilasciata a M. Rouyer, Sur quelques chemins de traverse de la pensée du politique en France, «Raisons politiques», 1 (2001), 55.
[17] Cfr. C. Castoriadis, L’invention imaginaire de la société, Paris, Seuil, 1975. Sul forte legame che lo univa a Castoriadis in quegli anni cfr. quanto lo stesso Rosanvallon afferma in Sur quelques chemins de traverse, cit., 51.
[18] Rosanvallon – Viveret, Pour une nouvelle culture politique, cit., 20.
[19] Rosanvallon, L’âge de l’autogestion, cit., 94-95.
[20] Rosavallon, Il Politico, cit., 25.
[21] Mi riferisco naturalmente a Le moment Guizot, Paris, Gallimard, 1985.
[22] Cfr. La démocratie inachevée, cit., 181-221.
[23] Cfr. ad esempio ivi, 227-229, ma anche La rivoluzione dell’uguaglianza, cit., 351-366.
[24] Cfr. ivi, 367-396 ; Le peuple introuvable, cit., 171-217 e 255-276 ; La démocratie inachevée, cit., 285-335.
[25] Cfr. ad esempio A. Jainchill – S. Moyn, French Democracy between Totalitarianism and Solidarity: Pierre Rosanvallon and Revisionist Historiography, «The Journal of Modern History», 1 (2004), 107-154 e G. Verdo, Pierre Rosanvallon, archéologue de la démocratie, «Revue historique», 3 (2002), 693-720.
[26] L’interpretazione della Rivoluzione di Tocqueville è ad esempio centrale nel testo fondativo che ha aperto la stagione revisionista della scuola: cfr. F. Furet, Critica della rivoluzione francese, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1980, 23 ss. Si deve poi a P. Raynaud la rimessa in circolazione nel mercato editoriale francese del testo fondamentale di Burke: cfr. E. Burke, Refléxions sur la Révolution française, suivi d’un choix de textes de Burke sur la révolution, Paris, Hachette, 1989.
[27] Rosanvallon, Le modèle politique français, cit., 117.
[28] Ivi, 119.
[29] Degno di nota il fatto che il termine “jacobinisme” presente nel sottotitolo del volume (per ovvie esigenze evocative) venga sempre tradotto all’interno del testo con “culture politique de la généralité”.
[30] Le modèle politique français, cit., 433.
[31] La démocratie inachevée, cit., 401-422.
[32] Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, cit., 301.