Nel mondo globale il cibo italiano ha un posto tanto preminente quanto e più dei fast-food americani: pizza, espresso, spaghetti sono tutti diventati oggetto di catene distributive di grande successo, ma anche i ristoranti italiani di alta qualità hanno colonizzato un po’ tutti i paesi sviluppati, così come il riferimento simbolico all’italianità emerge nelle sempre più numerose pubblicazioni gastronomiche rivolte ad un fitto, quanto variegato, pubblico di classe media che ha caricato la cucina di valenze edonistiche ed estetiche. Sul suolo nazionale, il settore gastronomico è peraltro tra i più dinamici in termini economici e sociali – con tassi relativamente alti di crescita annui, una forte apertura all’imprenditoria migrante, un fiorire di nuovi e diversi luoghi di consumo, un vero e proprio boom dell’editoria gastronomica, e, non da ultimo, un fiorire di iniziative educativo-promozionali (dalle fiere ai corsi di degustazione) e di associazionismo davvero impressionante. Non sorprende quindi che, accanto alla storia dell’alimentazione e giovandosi della sua consolidata tradizione nostrana, comincino oggi ad emergere ricerche di taglio storico-sociologico, per lo più focalizzare sul triangolo italianità, localizzazione, globalizzazione [1].
I saggi raccolti in questo dossier si iscrivono in questo triangolo, trattando, in una prospettiva sociologica e storica diversi fenomeni inerenti al cibo e la cultura alimentare. Il saggio di Giuseppe Parente cerca di aprile il black box della “globalizzazione”, considerando le sue diverse sfaccettature e dimensioni, mostrando che persino i prodotti alimentari di massa, standardizzati e “rapidi” si devono inserire in contesti locali di uso e consumo e di produzione. Prima di essere “mcdonaldizzato”, ovvero prodotto e distribuito secondo procedure burocratizzate e standardizzanti, il “cibo veloce” è stato cibo di strada, street food, alimenti semplici e artigianali da gustare rapidamente in piedi e all’aperto. E la produzione artigianale di cibi veloci da passaggio non si è interrotta né in Italia né altrove; al contrario, continua ad alimentare, con la sua infinita varietà e necessaria fantasia, l’industria della ristorazione veloce che magari rinchiude le pratiche del consumo in spazi chiusi e ordinati, senza per questo determinarne il senso. Che il consumo, incluso il consumo alimentare, abbia molto a che fare con la capacità dei soggetti di attribuire senso alle pratiche, con il loro capitale culturale, e con la sollecitazione di frames cognitivi per la comprensione del cibo – con gli occhi, la testa e il cuore, oltre che con il palato e le mani – è il punto di partenza dell’articolato lavoro di Federica Davolio. Davolio considera l’evoluzione dell’editoria gastronomica nel nostro paese, dai manuali di cucina sino al boom delle riviste gastronomiche nei tardi anni ’80 del Novecento. Attraverso una metodica ricostruzione empirica, il suo lavoro individua l’emergere di riviste “epicuree” (che pongono enfasi estetizzante sulla dimensione edonistica del cibo, dal consumo della rivista, all’eventuale preparazione alimentare, al gesto nutritivo) accanto a riviste “funzionali” (che ripropongono l'approccio familiare, pragmatico e tradizionale alla cucina che contraddistingue le riviste destinate a un pubblico femminile già dai primi del Novecento). Il consumo alimentare in effetti è oggi, soprattutto per le nuove classi medie, non solo e non più una pratica da comprendere e condurre secondo le logiche della convenienza, salute e abitudine, bensì un rituale estetico che inquadra il cibo come “emozionante oggetto di passione”, carico di valenze simboliche e identitarie. Il nuovo inquadramento delle pratiche alimentari espresso dalle riviste epicuree ci dice dunque qualcosa di come sta mutando, anche nel nostro paese, la cultura alimentare nel suo complesso: ci mostra chi può e come ci si può accostare ai fornelli con piena legittimità culturale, chi può e come si può esperire il cibo in modo adeguato, quali cibi ci possono fornire un piacere legittimo, e come noi possiamo legittimamente rivendicare per noi tale piacere. Le nuove classi medie e il loro orientamento edonistico-estetico ai consumi – inclusi quelli alimentari – figurano come importanti elementi esplicativi anche nel saggio di Daniele Tricarico. Nel suo contributo Tricarico considera l’espansione, legittimazione, creolizzazione ed evoluzione della cucina italiana in Gran Bretagna, sottolineando - in continuità con i recenti lavori di Montanari e Capatti, ma anche con la tradizione sociologica che da Simmel in poi ha sempre concepito l’identità come funzione di riconoscimento e differenza – che l’enfasi sul locale (e la stessa rilevanza delle denominazioni di luogo) è il portato di flussi culturali, sociali ed economici che incoraggiano disarticolazione geografica e de-localizzazione. Le migrazioni hanno quindi contribuito a diffondere la cucina nostrana sul suolo britannico, offrendo ai nostri connazionali un settore in cui era più semplice sviluppare progetti imprenditoriali che richiedevano capitali economici non elevatissimi ma sfruttavano elevati livelli capitale culturale (la tradizione gastronomica italiana) e sociale (le reti famigliari). La cucina italiana, che si è creolizzata nell’incontro con i gusti britannici, è stata poi progressivamente connotata - anche grazie al lavoro di innumerevoli intermediari culturali (dai celebrity chefs agli scrittori di guide gastronomiche) – come esotica ma mediterranea, semplice ma estetizzante, salutare ma piacevole. L’immagine della gastronomia italiana costruita in Gran Bretagna avrebbe così ricomposto alcuni dei conflitti che maggiormente si avvertono nella cultura alimentare occidentale, contribuendo tra l’altro a legare inscindibilmente un’Italia immaginata, e spesso assaggiata mediante le vacanze e il turismo, ad una tradizione gastronomica re-inventata. Il legame tra italianità e tradizione gastronomica è anche l’oggetto del saggio, più schiettamente storico, di Agnese Portincasa. Mettendo a fuoco la costruzione dell’identità italiana e la storia della pasta alimentare, Portincasa parte dall’assunto che la cucina di una nazione è sì espressione della sua cultura, ma è anche un insieme di pratiche (economiche, sociali, simboliche) attraverso cui tale cultura si costituisce. Cucina e identità nazionale sono dunque co-costitutive, e nelle pieghe del loro mutuo consolidarsi si può rinvenire l’arbitrarietà – ovvero la non necessità - delle associazioni simboliche e delle pratiche sociali che le legano.
In tutti questi contributi, sebbene venga prestato un occhio privilegiato agli elementi culturali (testi, documenti ed immagini, sono le fonti primarie), non viene dimenticato il contesto socio-economico. Che si tratti di rappresentazioni della cucina italiana in Gran Bretagna, del modo in cui noi italiani ci siamo rappresentati come mangiatori di pasta, o di quant’altro, gli elementi culturali figurano come situati nel mondo economico-sociale e in relazione dialogica [2]. Seguendo un’impostazione che ha avuto forte impulso nella recente sociologia culturale, questi lavori insomma sembrano concepire la cultura alimentare o gastronomica come un prodotto culturale. E questo prodotto si consolida attraverso l’azione concreta di una varietà di attori sociali che agiscono all’interno di istituzioni (produttive, distributive, di consumo, ma anche fuori dal mercato, movimenti sociali e soggetti politici) rielaborando una serie di elementi simbolici che, come una “cassetta degli attrezzi”, costituiscono degli strumenti, in parte flessibili e certo contraddittori, che facilitano e orientano l’azione.
Note
[1] La sociologia dell’alimentazione è una sub-disciplina consolidata in numerosi paesi, tra cui la Gran Bretagna, gli USA e la Francia. Su questo si può vedere il numero monografico di «Rassegna Italiana di Sociologia» curato da chi scrive (4, 2004) e in particolare, R. Sassatelli, L’alimentazione: gusti, pratiche e politiche, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 4 (2004), 475-92.
[2] Cfr. Di Maggio, Culture and Cognition, «Annual Review of Sociology», 23 (1997), 263-87; W. Sewell, A Theory of Structure, «American Journal of Sociology», 98 (1992), 1-29; A. Swidler, Culture in Action. Symbols and Strategies, «American Sociological Review», 51 (1986), 273-86.