Il tema della marcia fascista su Roma potrebbe sembrare un oggetto di ricerca storica ormai abbondantemente disaminato. Di tutt’altro avviso si dichiara invece la giovane autrice di questo libro,
che ha alle spalle già alcuni studi sul rapporto tra violenza politica e crisi dello Stato liberale nell’Italia del primo dopoguerra. Il lavoro di Giulia Albanese muove infatti da un paio di
considerazioni preliminari: che nell’ampia mole di scritti sulla marcia la cronaca e la memoria prevalgono sull’indagine storica; e che nello stesso campo storiografico, nonostante la persistente
attenzione per le origini del fascismo, solo di rado si è davvero studiato la marcia come un avvenimento di forte impatto politico da analizzare in quanto tale.
Questa lacuna deriverebbe fra l’altro da un’interpretazione piuttosto assodata, che tende a minimizzare l’importanza dell’evento e semmai a valutarlo come un «bluff». Per cui la storia della marcia
su Roma è stata subordinata a quella dell’evolversi delle trattative politiche che indussero all’affidamento del governo a Mussolini. Ciò ha portato a trascurare proprio quegli aspetti che invece
riacquistano centralità in questa nuova ricostruzione: la circolazione di precedenti disegni eversivi di stampo autoritario; l’entità e il ruolo delle violenze squadriste; l’occupazione degli
uffici pubblici di piccole e grandi città lungo tutta la penisola; la ricezione degli avvenimenti nel dibattito parlamentare e da parte dell’opinione pubblica.
Il libro, suddiviso in sei capitoli, di fatto procede ordinando la storia della marcia su Roma in tre fasi. La prima fornisce le premesse e si apre fin dall’immediato dopoguerra, quando negli
ambienti nazionalisti e militari (non solo italiani) si iniziò a ipotizzare progetti di colpo di Stato per rovesciare il sistema parlamentare e impedire il processo di democratizzazione.
Sull’esistenza di una cultura autoritaria, in parte condivisa non solo dalla classe dirigente ma anche dall’opinione pubblica moderata, trovò allora modo di radicarsi, di crescere e di essere
sostanzialmente accettata la strategia fascista, imperniata sull’uso della violenza.
La seconda fase è circoscritta ai giorni della marcia, alla mobilitazione fascista avviata il 27 ottobre 1922 e terminata il 7 novembre, cioè ben oltre l’investitura di Mussolini, in un crescendo
del tasso di violenza. Attraverso una meticolosa ricostruzione delle vicende, vengono seguite non solo l’entrata degli squadristi a Roma, ma anche l’invasione di tutte le città italiane e la
trasformazione degli equilibri di potere locali. La terza fase riguarda invece il primo anno del governo Mussolini, quando la costruzione di un discorso «rivoluzionario» sulla marcia rappresentò un
ambiguo strumento di legittimazione del potere fascista.
In disaccordo con buona parte degli storici, che nell’interpretare l’avvento del fascismo al potere hanno insistito sulle continuità istituzionali piuttosto che sulle fratture, l’autrice riprende
dichiaratamente la tesi di Adrian Lyttelton (La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1982), per il quale l’originalità delle tecniche di conquista messe in atto
con la marcia su Roma determinò il vero inizio della dittatura fascista.
Nel tentativo di mostrare «fino a che punto un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni» (p. X), si sostiene dunque che
il governo fascista sancì la fine dello Stato liberale già nel corso del primo anno di attività, e nonostante il carattere di governo di coalizione. In questo senso, il primo anniversario della
marcia costituì un momento particolarmente significativo, poiché «inaugura la ritualizzazione di una nuova epoca e istituzionalizza una rottura di notevole portata», definendo «la formazione di un
nuovo quadro politico» (p. 174).
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