Il tempo presente ci ha abituato alla ripetuta esperienza quotidiana della violenza: non solo di quella individuale all’interno della famiglia, nella strada, nella città, ma anche di quella collettiva organizzata da una autorità. Negli ultimi anni la nostra esistenza è regolarmente scandita da immagini di occupazioni militari che costituiscono una continuazione della guerra con altri mezzi. Occupanti e occupati praticano entrambi forme di violenza estrema e ripetuta: uccisioni e stupri di massa e persino genocidi, atti di sabotaggio e attacchi terroristici.
Sono fenomeni tipici del Novecento, come suona una domanda ricorrente tra alcuni storici italiani [1]?
Per gli storici tedeschi che hanno curato il e contribuito al volume miscellaneo pubblicato giusto a due anni dal convegno svoltosi presso la Freie Universität di Berlino (18-20 settembre 2003) la risposta è certamente negativa, motivata come è sia da solide ricerche sulle fonti di una prima età moderna che – nei diversi e molteplici casi studiati – va dagli inizi del ’500 alla buona metà del ’700, sia da serie impostazioni critiche teoriche e metodologiche.
Tema centrale del volume, come già del Convegno [2], è il campo di tensione tra potere legittimo e violenza illegittima, tra Gewalt intesa come potestas e Gewalt intesa come violentia, che caratterizzò esperienze, prassi e discorsi lungo tutta la età moderna.
Forte della pratica di una storiografia che, a partire dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, ha contribuito a mutare il paradigma in base al quale potere (potestas) e violenza si escludevano l’un l’altra nel processo di progressiva costruzione dello stato, Gewalt in der Frühen Neuzeit si occupa della violenza interrogandosi sulle concezioni fino ad ora prevalenti in merito al potenziale e ai limiti della potestas. È proprio la dimensione violenta della potestas della prima età moderna che porta a mettere in discussione potestas come concetto esclusivamente positivo. Nella concreta analisi storica questo significa verificare che sia potestas sia violentia non sono in sé legittime o illegittime. L’una e l’altra vengono legittimate o delegittimate solo nei discorsi e nelle pratiche sociali.
Gewalt non è una costante antropologica. Nel costante confronto, tra gli altri, con Wolfgang Sofsky [3], le tre curatrici e i trentuno autori del volume [4] sostengono che Gewalt venga praticata, e di conseguenza sottoposta al mutamento storico e culturale. Le concezioni, esperienze, rappresentazioni e immaginazioni di potestas e violentia interagiscono con i corrispettivi contesti dell’agire e dipendono dai differenti luoghi del conflitto (comunità, territorio; tribunale, chiesa, locanda, etc.) nel quale viene posto il problema di che cosa si debba considerare come potere e violenza legittime oppure illegittime. La categoria analitica Gewalt è dunque, per curatori e autori, particolarmente adatta a raccordare ambiti di ricerca storica parzialmente autonomi e paralleli che hanno indagato la violenza fisica e psichica nel quotidiano: la microstoria, la storia delle donne e di genere, la storia della criminalità. Ponendo al centro del proprio interesse non tanto il problema delle cause della violenza, quanto i meccanismi e le possibilità della violenza, con una attenzione privilegiata agli uomini che usarono violenza o la subirono, l’uso di quella categoria analitica ha modificato, tra l’altro, il modo di vedere la guerra. L’indagine è ora sulle esperienze di guerra e sull’uso della violenza in guerra, come dimostrano numerosi studi recenti soprattutto sulle guerre di religione in Francia nel ’500 [5] e sulla Guerra dei Trent’anni nel ’600.
Non è un caso che molti dei saggi che compongono il volume trattino il problema della violenza in guerra e, come si è detto al’inizio, delle occupazioni militari di un territorio (non necessariamente da parte di eserciti “stranieri” ma, come normale in età moderna, di milizie e guarnigioni del principe dello stesso territorio) che dalle popolazioni civili dei sudditi erano considerate alla stregua di una guerra.
Ricchi di spunti e suggestioni anche per ricerche su realtà territoriali e politiche diverse da quelle prevalentemente analizzate nel volume [6] sono, in questo senso, la sezione curata da Hans Medick sul massacro nella prima età moderna; quella curata da Horst Carl su ruolo e funzione della violenza organizzata nei processi di intensificazione del potere; quella curata da Peer Schmidt su guerra e diritto nell’incontro e nel confronto interculturale di spazio mediterraneo e spazio atlantico.
Vale la pena ritornare brevemente alla questione delle occupazioni militari, che rivela un particolare potenziale euristico per la ricerca. Soprattutto dai saggi di Maren Lorenz, Markus Meumann e Ralf Pröve (studiosi protagonisti, in Germania, della nuova storiografia militare) emerge che in età moderna una forza di occupazione militare non doveva confrontarsi solo con il problema che la sua legittimità fosse precaria, ma anche con il fatto che la continuata presenza militare toccava il mondo della vita di individui e comunità. Quindi la stessa forza di occupazione doveva preoccuparsi di ridurre al minimo le azioni di violenza dei propri soldati contro la popolazione civile, poiché solo regolando la violenza militare poteva pretendere di essere riconosciuta come autorità legittima. Se i tentativi in questo senso non avevano successo, allora la violenza militare sentita come violenza ingiusta provocava controviolenza dei sudditi, che era legittimata in base al principio della resistenza lecita, e di fatto apriva la strada ad una intensificazione progressiva della violenza.
Se occupazione è, oggi, un concetto non solo militare, ma anche e altrettanto politico e morale, ancora di più lo era nella prima età moderna. Nella prassi quotidiana una occupazione militare investiva esperienze fisiche ed emozionali, come emerge dalle diverse fonti analizzate: diari e petizioni individuali, discorsi pubblici e scritti pubblici. Se nella concezione del diritto e della giustizia preilluministica una occupazione militare non era una forma di dominazione straniera, ma una forma di dominio legittimo, nella percezione di chi la subiva la legittimità poteva trasformarsi facilmente in illegittimità, cioè in tirannide. I confini tra potere legittimo e illegittimo potevano essere superati molto facilmente. Il potere dello stato del principe cadeva allora sotto il sospetto di produrre esso stesso violenza e, di conseguenza, ne provocava altra.
L’analisi di tali processi conduce curatori e autori a mettere fortemente in dubbio le “magnifiche sorti e progressive” della attuazione del monopolio della violenza da parte dello stato in età moderna, come anche altri filoni storiografici da qualche tempo sottolineato.
I temi affrontati nel volume non si limitano a quello appena accennato. Nelle altre tre sezioni (Francisca Loetz, Ideale politico e modello sociale; Winfried Schulze, Opzioni e composizione del potere/violenza interstatale; Monika Mommenrtz, Violenza e immaginazione) la categoria analitica Gewalt serve per mettere in relazione tra loro anche problemi di confessione, età e sesso, inclusione ed esclusione, vicinanza e distanza (rispettivamente “centro” e “periferia”), nella pratica di una costante interdipendenza tra microstoria e macrostoria.
Anche per questo il volume – molto più ricco di quanto questi brevi note non possano far immaginare – costituisce un importante punto di riferimento per la ricerca storiografica su un problema, come quello della violenza, che si presenta certamente in forme diverse in epoche diverse, ma che non è proprio di nessuna epoca o secolo in particolare. La storiografia più aggiornata su questi temi si mette alla prova.
Note
[1] Come, proprio in questo periodo (21 settembre 2006), Marcello Flores, in uno degli appuntamenti di Unibocultura “Domande alla storia”: Il Novecento: il secolo della violenza?
[2] Sul quale, ad un mese dalla conclusione, si poteva leggere un buon resoconto redatto da Reiner Prass: http://hsozkult.geschichte.hu-berlin.de/tagungsberichte/id=305
[3] W. Sofsky, Traktat über die Gewalt, Frankfurt am Main, Fischer, 1996 (trad.it., Saggio sulla violenza, Torino, Einaudi, 1998).
[4] Dei quali è impossibile qui riferire singolarmente.
[5] Ai quali si connette espressamente il saggio di C. Magoni, R. Silvagni, Guerre di religione e violenze rituali. Immagini dalla Francia del Cinquecento, in questo stesso numero di «Storicamente».
[6] Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca; Francia, Confederazione svizzera, Irlanda, Impero ottomano, Colonie inglesi d’America, Impero spagnolo nel Nuovo mondo e nell’Africa del nord.