In questo libro Massimo Firpo ricostruisce la vicenda di Vittore Soranzo, vescovo cinquecentesco di Bergamo: un personaggio certo non di primo piano nella storia del suo tempo, ma la cui vicenda è
emblematica del passaggio all’età della Controriforma in Italia.
Controriforma: un termine che la storiografia jediniana avrebbe voluto veder cancellato o quantomeno sminuito nella discussione scientifica, a favore del più rassicurante “Riforma cattolica”. Ecco,
il caso di Soranzo è particolarmente interessante perché egli come vescovo di Bergamo si dedicò ad un’imponente ed impressionante attività di riforma della Chiesa. Ma questa attività di riforma
ebbe ben poco di “cattolico”.
Pupillo del celebre umanista Pietro Bembo, Soranzo nella giovinezza coltivò l’ideale di una vita agiata, conforme alla sua estrazione sociale (era un patrizio veneziano), rassicurata dai proventi
dei benefici ecclesiastici. La svolta avvenne con la nomina del Bembo a cardinale (1538). Nel 1539 Soranzo era a Roma, al seguito del Bembo. Di lì passò a Napoli, dove frequentò il circolo di Juan
de Valdés. Sin dal 1541 fece quindi parte del circolo viterbese del cardinal Pole. Eletto il Bembo nel 1544 vescovo di Bergamo, fu da questi nominato suo coadiutore, con diritto di successione. Nel
gennaio 1547 Bembo morì e Soranzo gli succedette come previsto.
A contatto con Juan de Valdés e gli “spirituali”, maturò nel Soranzo una conversione interiore, che condizionò la sua attività pastorale come vescovo di Bergamo, molto lontana dal modello del
vescovo della “Riforma cattolica” proposto in diversi, ormai datati, lavori di studiosi cattolici o laici: si oppose al culto dei santi e delle reliquie, tentò di moralizzare il comportamento dei
preti, dediti al vino, al gioco, alla violenza e alla promiscuità sessuale, non imponendo il celibato ma favorendone di fatto il matrimonio (segreto), sciolse voti di castità, favorì la lettura di
libri eterodossi, tra i quali il ben noto Beneficio di Cristo, e della Bibbia in volgare anche presso i ceti popolari.
Fu proprio la sua azione pastorale a farlo cadere nelle maglie dell’Inquisizione guidata dal cardinal Gian Pietro Carafa. Soranzo, convocato a Roma, nel marzo 1551 fu arrestato e quindi sottoposto
ad un processo umiliante. Riconobbe la sua eresia ed abiurò (luglio 1551). La protezione degli amici “spirituali” – i cardinali Pole e Morone -, fu fondamentale nell’attenuare gli esiti di quel
processo. La “strana” sentenza (settembre 1551) mostra come alla fine Soranzo fu di fatto “perdonato” da papa Giulio III, che intervenne di persona in contrasto con il cardinal Carafa; nel 1554
Soranzo fu poi reintegrato nella sua diocesi.
Il processo riprese con l’elezione al papato del Carafa (1555). Papa Paolo IV chiese alla Repubblica di Venezia l’estradizione a Roma del vescovo eretico, che ovviamente non fu concessa. Nel 1558
Soranzo, condannato in contumacia, morì a Venezia.
Questo libro fa seguito all’edizione del Processo Soranzo, conservato presso l’Archivio dell’ex Sant’Uffizio (fino al 1998 non accessibile), di cui Firpo stesso è stato curatore insieme a Sergio
Pagano (I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo, 1550-1558, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2004). È sulla base di una documentazione di rara ampiezza che Firpo elabora
la sua critica sia contro la storiografia jediniana, che ha ignorato lo scontro tra “spirituali” e intransigenti, tanto difficilmente accettabile per una sensibilità cattolica quanto oggettivamente
documentato dalle fonti, sia contro interpretazioni oggi più in voga anche tra studiosi laici che vedono nella Controriforma (e nell’Inquisizione) la via italiana alla modernità, ovvero un aspetto
del tanto discusso “disciplinamento sociale”.
Una categoria troppo sfumata e generalizzante, che secondo Firpo non aiuta a comprendere la particolarità e l’originalità del processo storico che si svolse in Italia in quel decisivo tornante e le
conseguenze di lungo periodo dell’affermazione dei modelli normativi e disciplinari della Controriforma.
Elaborando la sua critica contro tali orientamenti storiografici, Firpo si muove alla ricerca del “Cinquecento riformatore” che il trionfo dell’Inquisizione negò all’Italia, costituendo “un freno –
se non un ostacolo – a ogni istanza riformatrice non meramente disciplinare, a ogni tentativo di rinnovare la vita religiosa e spirituale, che era stato invece l’obiettivo perseguito dagli
sconfitti” (516). Un problema, quello posto da Firpo, che appare ben più complesso rispetto al classico problema della mancata Riforma in Italia, al quale è stato frettolosamente equiparato.
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