Il volume di Hingley – lecturer di archeologia romana all’Università di Durham – è sostanzialmente una rassegna critica della principale letteratura storiografica recente a proposito di Impero romano e imperialismo, romanizzazione e identità romana, globalizzazione e culture locali in età imperiale. Il libro è composto da sei capitoli, di cui il primo e l’ultimo costituiscono di fatto introduzione e conclusione (1. The past in the present; 2. Changing concepts of Roman identity and social change; 3. Roman imperialism and culture; 4. The material elements of elite culture; 5. Fragmenting identities; 6. ‘Back to the future’? Empire and Rome). Lo scopo che l’a. si prefigge è di esaminare come strutture e modelli coi quali si leggono il presente e l’attualità abbiano influenzato ed influenzino la ricerca corrente riguardante l’impero romano e la sua affermazione nel bacino del Mediterraneo. Il libro, dunque, si propone molto utilmente di spingere gli storici del mondo antico a una maggiore chiarezza nei confronti dei lettori rispetto alle categorie analitiche e teoretiche soggiacenti alle proprie indagini. Pensiero post-moderno e relativismo, post-colonial studies, studi culturali e analisi socio-economiche che utilizzano la categoria di globalizzazione stanno alla base di questa rassegna (va tuttavia rilevato a proposito di globalizzazione che mancano alcuni riferimenti bibliografici rilevanti, come ad es. gli studi del sociologo tedesco Ulrich Beck).
Il secondo capitolo fa il punto a proposito della ‘romanizzazione’ concetto utilizzato con accezioni diverse dagli antichisti per indicare il processo di diffusione della cultura romana. La decolonizzazione ha comportato un ripensamento di tale categoria in termini meno centralistici, secondo uno schema che prevede un’interazione nei due sensi tra il centro dell’Impero e le culture locali. La romanizzazione come diffusione della civiltà e del ‘progresso’ romani alle altre popolazioni, giudicate inferiori, ha lasciato il posto a un modello in cui l’imperialismo romano si è adattato alle diverse culture incontrate ed assimilate dando poi vita a una rete di culture unite da elementi comuni, ma anche profondamente diversificate da sostrati e sintesi originali. Quella che pare essere la chiave di lettura vincente attualmente è la struttura di un impero a forma di network con forti elementi di coesione, ma allo stesso tempo dotato di ampi margini di autonomia. Hingley, in modo molto interessante ed intelligente, non limita la propria analisi alla cultura delle élites, ma mette in evidenza come studi recenti di carattere regionale (ad esempio sulla Britannia o la Betica) abbiano fatto emergere un quadro della diffusione di prodotti e stili di vita ‘romani’ anche negli strati sociali medi e bassi. L’a. è tra quanti sostengono che l’immagine di una società romana piramidale con un vertice ristretto e subito a cadere un’ampia base di ceti bassi vada rivista secondo modelli in cui, soprattutto in epoca augustea e alto imperiale, vi sia una molto più decisa presenza di strati medi, formatisi proprio in seguito alle occasioni aperte dall’imperialismo romano.
Lo schema della rete viene richiamato anche a proposito dell’economia romana, un ambito in cui sono state prodotte ultimamente ricerche interessanti e innovative. L’archeologo ricorda a tale proposito il saggio dello storico dell’economia Peter Temin (A Market Economy in the Early Roman Empire, «Journal of Roman Studies», 91 (2001), 169-181), in cui viene formulata l’ipotesi che in età romana vi sia stata una forma embrionale di economia di mercato nel senso che l’Impero avrebbe messo in correlazione e interdipendenza diversi mercati locali. Le discussioni sorte intorno a questo e altri studi recenti riguardanti il tema del mercato in età imperiale vengono brevemente riprese da Hingley a sostegno e corollario dell’interpretazione dell’Impero come “un vasto network di intercomunicazioni” (p. 107).
Il volume è nel complesso una utile e aggiornata panoramica della storiografia antichistica sul tema dell’impero e della cultura romana, soprattutto per la fase dei primi secoli. Si possono muovere tuttavia alcune piccole critiche. L’analisi di Hingley è stranamente circoscritta all’area occidentale e latina dell’Impero, mentre l’Oriente greco avrebbe a mio modo di vedere arricchito e completato il quadro; sarebbe stato utile per il lettore avere da parte dell’a. una spiegazione della scelta operata, anche perché si parla di Western culture dando per scontato e acquisito tale concetto, al contrario piuttosto controverso. Per quanto riguarda le fonti, Hingley si limita in gran parte ad analizzare dati archeologici; nonostante questo taglio in un certo senso ristretto i case studies passati in rassegna sono tuttavia funzionali all’impianto del volume, oltre che aggiornati e significativi.
Ne emerge una storiografia antichistica contemporanea molto attenta al ‘discorso’ sull’Impero, evidentemente sollecitata dalla situazione presente, sebbene a volte in modo poco consapevole. Dispiace tuttavia notare che mancano in questo panorama alcune voci importanti della riflessione italiana su questi temi, come ad esempio il volume di L. Canfora Ideologie del classicismo (Einaudi 1980) e i contributi di S. Settis sul tema del classico, che potevano giovare ai capitoli secondo e terzo. Viene invece evocato il saggio di Negri e Hardt sull’Impero – in cui Roma viene riconosciuta come costruzione ideologica utilizzata all’interno del discorso identitario sulle origini dell’Occidente – in modo forse un po’ sbrigativo ed isolato, senza approfondire troppo le vivaci e articolate reazioni che sono succedute all’uscita di quel libro.
Nonostante questi difetti minori, nel complesso il libro si dimostra utile, sia sotto il profilo del bilancio storiografico, sia perché spinge gli storici dell’antichità a una maggiore
consapevolezza teoretica.