Frutto di un convegno celebrato a Milano nel dicembre 2005, il decimo titolo della collana “Storiografica” affronta una questione complessa, destinata a riemergere nel dibattito scientifico,
politico e politologico della penisola. Come spiega il curatore nella breve ma densa Introduzione, scopo dell’incontro era di riesaminare sia la vicenda politico-costituzionale del 1799,
sia la categoria di bonapartismo, attraverso un rigoroso rispetto della «dimensione idiografica» (p. 8) propria all’analisi storiografica.
Pierre Serna, autore di studi fondamentali in questo campo (cfr. tra gli altri il recente La République des girouettes, 1789 et 1815 et au delà, Champ-Vallon, Seyssel, 2005), apre il
volume con un lungo saggio sulle dinamiche che anticiparono e accompagnarono 18 brumaio. Tenendo ben distinte la realtà degli eventi e le costruzioni discorsive forgiate a posteriori, Serna colloca
l’agire di Napoleone I nell’atmosfera fibrillante della Repubblica direttoriale, puntando l’attenzione sulle finalità di lungo periodo del colpo di stato e sulle forze politico-sociali che lo
sostennero. Emerge così la categoria del «centro estremo», alla quale si affidava la governabilità dello Stato nato dalla Grande Révolution, che con l’ascesa del primo console non smarriva
l’humus repubblicano, bensì lo rafforzava attraverso il modello di governo autoritario, amministrativo e plebiscitario al quale si lega la figura del generale corso. Spostandosi sul piano
discorsivo, Serna individua il momento in cui Aulard – uno dei creatori della master narrative otto-novecentesca – passò dalla consapevolezza di quella continuità alla denuncia di 18
brumaio come usurpazione liberticida del potere del popolo. Fu il confronto traumatico con il fascismo italiano a determinare il cambio di rotta dei paladini storiografici della Terza Repubblica;
mentre nella penisola italiana del XIX secolo – lo dimostrano S.B. Galli, M. Cavallera, A. De Francesco – le letture del dominio napoleonico oscillavano da sempre da un fervoroso vituperio a danno
di Bonaparte alla argomentata nostalgia di certe élites lombarde per una stagione in cui lo Stato si era efficacemente fatto carico del progresso.
Altri saggi affrontano momenti e attori tardo-ottocenteschi e novecenteschi di questo irrisolto confronto con l’eredità napoleonica. Bonini e Battini riconducono entro binari di rigorosa
comparazione storica certi parallelismi ricorrenti nel discorso politico tra i due secoli, il primo occupandosi del binomio Crispi / Bonaparte, il secondo misurando affinità e distanze tra i
fautori di Boulanger e i portavoce dell’antiparlamentarismo italiano. Se la vicenda del monumento milanese a Napoleone III, minuziosamente percorsa da Canavero, apre su un teso frangente del
confronto tra sabaudisti e democratici nel primo quarantennio dello Stato nazionale, gli scritti di un friulano e quelli di alcuni ebrei massoni permettono a Riosa e a Catalan di illuminare
declinazioni poco note della memoria degli anni francesi.
Bracco approfondisce il concetto di verticalizzazione, che tra grande guerra e dopoguerra sembrò costituire una versione aggiornata alla società di massa del rapporto diretto tra leader e
popolo sperimentato dal generale di Ajaccio. Tre saggi si addentrano nella parabola segnata dal bonapartismo nella cultura politica dell’entre-guerre, mettendo in risalto gli aspetti problematici
che gli schematismi hanno lungamente rimosso. Campi ricostruisce il rapporto tra Mussolini e Bonaparte a partire dalle autorappresentazioni (i celebri Colloqui con Ludwig); Compagna
contestualizza le riflessioni di Salvatorelli; Burgio rintraccia i confini semantici dei termini bonapartismo e cesarismo negli scritti di Gramsci.
I saggi che chiudono il volume focalizzano a loro volta sulle metamorfosi che il “mito” napoleonico ha subito nelle personalità e nelle strategie di Charles De Gaulle (S. Bernstein) o di François
Mitterand (M. Gervasoni) o, infine, presso i leader affermatisi in Italia nella stagione della «personalizzazione» della politica (G. Grossi).
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