L’immagine evocata dal titolo – la divisa-emblema dei lavoratori dell’industria – ben introduce al tema del volume, che ripercorre l’evolversi della rappresentazione dell’operaio così come è stata
veicolata da giornali, romanzi, televisione, cinema, fotografia e fumetti, nel corso del trentennio che ha visto la centralità dell’operaio e dell’industria nella società italiana.
L’analisi si suddivide cronologicamente in quattro sezioni – Campo lungo (1950-57), Mettere a fuoco (1957-1968), Primo piano (1968-73), Immagine mossa e
dissolvenza (1973-80) – che inseguono con occhio cinematografico il rapido svolgersi di una parabola, denunciando l’oblio e il preoccupante silenzio che sono seguiti alla scomparsa di questa
“classe-che-non-c’è-più”.
A mettere in luce la radicalità dei mutamenti che hanno investito quadri mentali, concezioni, sensibilità del mondo operaio, oltre l’ombra di questo vuoto di “smemoratezza” sintomatico della crisi
ideologica che ha investito il nostro paese nel corso degli ultimi decenni, è l’esame dell’immagine pubblica dell’operaio e delle sue culture politiche dominanti. Dal lento affermarsi della figura
del lavoratore industriale negli anni ’50, all’imposizione quale protagonista degli scontri durante gli anni ’60 e ’70, alla veloce fase di declino e scomparsa del mito conclusasi con la marcia dei
quarantamila.
Gli scatti fotografici si distinguono per la nitidezza delle immagini proposte. E questo nonostante la molteplicità delle fonti utilizzate e degli elementi portati a supporto dell’argomentazione.
Lo sguardo poliedrico e attento dell’a. rompe la costruzione idealizzata a cui è stata a lungo piegata la realtà che ha circondato la grande fabbrica, declinando al plurale le esperienze delle
culture operaie che si articolano secondo le diverse realtà industriali, politiche e generazionali. La “classe”, spesso intesa dal movimento operaio come omogeneità assoluta, mostra dunque le
differenze e le pluralità da cui è costituita. Ne emerge una comunità che è inizialmente mantenuta coesa, pur nelle sue diverse declinazioni, dal forte sentimento di appartenenza alla fabbrica, ma
che poi vedrà questa compattezza identitaria infrangersi col venir meno del senso di appartenenza al mondo del lavoro capace di modellare anche le altre sfere del vissuto.
La forte etica del lavoro e della produzione accomuna lungo tutto il decennio ’50 la subcultura comunista e quella cattolica: la prima è animata dal mito della separatezza e dell’antagonismo cui fa
da controparte la costruzione di un’immagine pubblica degli operai comunisti come classe pericolosa; la seconda fa invece perno sulla figura dell’operaio integrato costruita sul mito del
pauperismo, vale a dire del lavoratore costruttore del miracolo e allo stesso tempo vittima dei suoi costi sociali. Al di là di queste rappresentazioni cristallizzate, si stende un vuoto di
conoscenza nei confronti del mondo operaio, ancora rinchiuso nelle fabbriche e nei suoi bastioni, su cui prevalgono gli stereotipi. Sarà lo scontro politico degli anni ’60 a ridare visibilità agli
operai e ai loro cortei che invadono le città; l’esplosione della radicalità – che coglie tutti di sorpresa – fa poi emergere altre linee di frattura: oltre a quella politica, quella del grado di
professionalità, quella della provenienza e dello scarto generazionale. Al turn-over geografico-generazionale si affianca un progressivo allontanamento tra identità e ruolo lavorativo. La distanza
tra le aspettative di larghe masse di giovani immigrati e i limiti che i costi del miracolo impongono alle reali possibilità di ascesa sociale porta a mettere in discussione l’intero modello di
vita imposto dalla fabbrica. Sarà poi la generale messa in discussione del modello industriale ad accelerare drammaticamente il distacco dalla fabbrica, e a spingere nuovamente l’operaio quale
soggetto collettivo ai margini dell’immaginario collettivo.
Pochi sguardi attenti, qualche voce “non allineata” riescono a percepire il mutamento di un intero orizzonte culturale. Dal continuo confronto tra la scarsa capacità di comprensione di fonti di
informazione, intellettuali, partiti e sindacati nei confronti degli operai, la proiezione stereotipata e compatta che di questi arriva nella società e nell’opinione pubblica, e le fratture che
attraversano la realtà sociale, emerge un pesante sfasamento di tempi, una miopia sulle cui conseguenze il libro di Sangiovanni ci invita a riflettere.
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