Premessa
(novembre 2009)E’ per me un motivo di compiacimento che gli amici della rivista «Storicamente» mi abbiano chiesto il permesso – volentieri accordato – di ripubblicare, a più di trent'anni di distanza, il mio primo saggio schmittiano, ossia questa rassegna apparsa nel n. 1 del 1979 della rivista «Materiali per una Storia della Cultura Giuridica», fondata e allora diretta dal compianto Giovanni Tarello.
Il testo appare come allora fu stampato, con la sola correzione di alcuni refusi; non è aggiornato né contenutisticamente né bibliograficamente. Resta esclusa la più feconda stagione della presenza schmittiana in Italia, quella che va dal 1979 a oggi, che ha visto non solo la traduzione pressoché completa delle opere di Schmitt nel nostro Paese (mentre molte di esse sono qui citate in tedesco) ma anche l’ingresso di Schmitt e del suo pensiero – con tutte le cautele necessarie – nel canone moderno della filosofia politica e giuridica (più precocemente, ma non diversamente, di quanto sia avvenuto nel resto dell’Occidente, e dell’Estremo Oriente), e il formarsi di diverse scuole interpretative, nonché di uno schmittianesimo vulgato e scolastico.
Dalla rinnovata fortuna italiana di Schmitt – determinata dalla pubblicazione, presso il Mulino di Bologna, di Le categorie del ‘politico’, nel 1972 – derivava l’impulso che mi spinse, mentre muovevo i primissimi passi della carriera accademica, a studiare le cause e gli eventuali antecedenti di quello che mi pareva un autentico cambio di paradigma del pensiero filosofico-politico, cioè di quel passaggio, che con Schmitt si compiva, dal modello democratico (ma Rawls non era ancora stato tradotto) e da quello dialettico (allora dominante) a quello del pensiero negativo. Era questa infatti la chiave in cui già allora assumevo la sostanza della posizione schmittiana, cercando – collocandomi al di là della lettera dell’ideologismo cattolico, e ovviamente di quello nazista, di Schmitt – di dare un significato a un improvviso e per certo aspetti sconcertante interesse della cultura italiana, di centro, di destra, di sinistra, per un pensatore fino ad allora marginale, o ‘maledetto’ senza il beneficio del dubbio (e della conoscenza diretta).
Era soprattutto una parte della sinistra (quella operaistica) a cercare allora in Schmitt – nel suo decisionismo – un impulso al superamento della crisi del gramscismo e del francofortismo: uno sforzo che si collocava all’interno di quel sincretismo che nella seconda metà degli anni Settanta cercava di coniugare marxismo e post-strutturalismo, e in generale dialettica e antidialettica. Al di là degli esiti deludenti sotto il profilo pratico-politico, e anche delle contingenze e delle mode, la presenza di Schmitt in Italia prometteva quello che poi mantenne: accanto a forme di culto e di acritica maniacalità, portò nel nostro Paese un pezzo di grande cultura europea, una rinnovata capacità di interpretare con realismo le categorie della politica moderna, di leggere la storia delle istituzioni (dello Stato in primis) con occhi non solo giuridici o sociologici, ma propriamente politici, attenti cioè ai conflitti, alle durezze, agli scarti che hanno scandito la nascita, la vita e la morte delle forme occidentali della politica moderna.
Gli specifici passaggi argomentativi del mio saggio, i punti nodali da me rilevati, le ipotesi di interpretazione complessiva del significato delle interpretazioni di Schmitt in Italia, e della sua stessa proposta intellettuale, mi sembrano sostanzialmente tenere, anche se sono esposti con il linguaggio e lo stile di un giovane. Come ho cercato di mostrare nella seconda monografia che gli ho dedicato (Lo sguardo di Giano, del 2008), dopo la prima, Genealogia della politica (del 1996, nuova edizione nel 2010), oggi, nell’età globale, der letze Vertreter des jus publicum europaeum – come Schmitt si definiva – è certamente spaesato (almeno per certi aspetti Stato-centrici e euro-centrici del suo pensiero; mentre per altri, come la critica del parlamentarismo e della rappresentanza, o la tematica del caso d’eccezione è up to date). Comunque sia, può avere qualche senso vedere come la sua presenza nella nostra cultura filosofica e giuridica abbia lavorato nel nostro passato, recente e meno recente. La fortuna di Schmitt è stata – e potrebbe essere ancora di più se si estendesse questo mio lavoro fino ai nostri giorni – una importante cartina di tornasole della consapevolezza con cui gli intellettuali politicamente orientati comprendono quello che di volta in volta è il loro presente. E’ del sapere politico in generale che infatti si parla, quando si parla di Schmitt.
Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978)*
Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica
*Il presente saggio è stato terminato nel dicembre 1978, e consegnato alla rivista «Materiali per una Storia della Cultura Giuridica» nel gennaio 1979. Viene qui riprodotto nella edizione originale, mantenendo inalterata la formattazione dei riferimenti bibliografici.
I. Quando, nell’agosto del 1922, in risposta allo «sciopero legalitario» proclamato dall’Alleanza del Lavoro, le squadre fasciste distrussero la nuova sede dell’Avanti! in Milano, scomparve tra le fiamme della tipografia anche il manoscritto, in corso di stampa, della traduzione italiana della Dittatura di Carl Schmitt (apparsa, nella prima edizione tedesca, il 1921)[1]. Veniva così interrotta sul nascere una possibile «fortuna» di Schmitt in Italia, che si annunciava importante e promettente, data anche la straordinaria tempestività con cui la traduzione era stata eseguita. Ma né il fascismo né l’antifascismo recuperarono in seguito Die Diktatur[2], e la penetrazione di Schmitt in Italia fu poi condizionata non soltanto da quell’occasione perduta, ma anche da una recezione relativamente tarda e segnata dalla forte connotazione politica delle posizioni schmittiane, prima autoritarie (del genere «democrazia protetta») poi apertamente naziste (o comunque presentate e ritenute come tali).
A più di mezzo secolo di distanza, può apparire paradossale che siano stati i socialisti i primi a tradurre Schmitt in Italia, e i fascisti a bruciarne il manoscritto; ma forse in quella lontana violenza è possibile oggi cogliere — pur nella inconsapevolezza che la guidò — uno stimolo a una interpretazione di Schmitt diversa da quella che storicamente appare consolidata da più di cinquant’anni di critica italiana.
Se è logico che un autore come Schmitt risenta non poco del clima politico in cui opera e nel quale viene recepito, è però altrettanto vero che la fortuna italiana di Schmitt è stata sorprendentemente costante (una volta perduta quell’occasione iniziale), e segnata da una duplice caratteristica: una significativa «marginalità» del pensiero schmittiano nella nostra cultura, e una sua interpretazione essenzialmente «filosofica». Infatti, quello che potrebbe essere uno «spaccato» di più di mezzo secolo di cultura giuridica e politica italiana dal punto di vista dell’incidenza di Schmitt, rivela invece brusche fratture, significativi silenzi, omissioni, censure, fraintendimenti, almeno fino ad anni vicinissimi (vi sono state alcune eccezioni, che pur nella loro importanza restano tali). La storia delle interpretazioni italiane di Schmitt si è cosi rivelata episodica e frammentaria, ma non casualmente, anzi a causa di un atteggiamento di fondo che ci è parso importante dichiarare.
Abbiamo creduto di individuare il motivo principale di questa circostanza — più ancora che nella nota compromissione politica di Schmitt con il nazismo — nel fatto che la critica italiana (per una serie di fattori che si porranno in evidenza) ha voluto fin dall’inizio inquadrare il pensiero di Schmitt nelle coordinate storicistiche, dialettiche, spiritualistiche della filosofia tradizionale; tale operazione si è rivelata una vera camicia di Nesso per un pensiero che, come quello schmittiano, si concepisce — ed è questa l’ipotesi che sorregge tutto il presente lavoro — come analisi «scientifica» della politica, vista come un sistema di rapporti la cui struttura fondamentale è l’esclusione.
Non è dunque questa una rassegna soltanto delle più note prese di posizione, delle critiche più autorevoli e divulgate[3], ma, proprio attraverso il recupero minuzioso anche degli interventi più lontani, nascosti, marginali, un tentativo di fornire il panorama unitario e complessivo dei diversi canali attraverso i quali Schmitt è stato recepito nella cultura italiana, con puntuale attenzione alla specifica incidenza politico-culturale di ogni interpretazione.
Da questa «storia di una presenza» si è poi proceduto non soltanto a un «bilancio» e a una «valutazione», ma anche — sulla base di una diversa ipotesi di lettura — a indicare nuove aree di possibile operatività scientifica del pensiero schmittiano: che è quanto si è tentato di fare nell’ultima parte del saggio, pertanto palesemente non avulsa dalle precedenti, e che anzi a quelle si collega necessariamente, nella convinzione che re-interpretare Schmitt sia non soltanto un’operazione politica, ma che implichi anche l’entrare in conflitto con alcune strutture tradizionali del pensiero politico italiano.
La pretesa di completezza che ha mosso l’autore a una scrupolosa ricerca è forse — nonostante i molti sforzi — non pienamente realizzata; sono stati tuttavia recuperati interventi che — sepolti in certi casi da decenni di oblio — non hanno trovato segnalazione neppure nella documentatissima bibliografia che segue alla traduzione italiana delle Categorie del ‘Politico’[4].
Collocato fra storia del pensiero politico, critica filosofica e proposte di «politica culturale», il presente lavoro vuole essere un modesto omaggio al «gran vecchio della politologia europea» in occasione del suo novantesimo compleanno, e un contributo all'interpretazione del suo densissimo pensiero.
II. È anzitutto da segnalare ed esaminare un gruppo di primissimi interventi intorno al pensiero schmittiano, importanti sia perché retrodatano di parecchio quello che solitamente è ritenuto l’ingresso di Schmitt nella nostra cultura (cioè i primi anni Trenta), sia perché non sono ancora influenzati dal saggio di Löwith[5], che eserciterà poi un’influenza decisiva sulle interpretazioni italiane di Schmitt (inserendosi tuttavia in una sostanziale predisposizione della nostra cultura alla diffidenza verso il pensiero schmittiano, come questi primi interventi documentano, con una sola eccezione). Si tratta tuttavia di segnalazioni specialistiche, slegate da una recezione ampia e articolata, che non trovano eco nella cultura italiana, tanto che di esse si era virtualmente perduto il ricordo fino ai nostri giorni.
Apre la serie — con quello che allo stato attuale delle ricerche pare il primo intervento in assoluto — Filippo Grispigni nel 1924[6], con una recensione di Politische Theologie, in cui viene esposto, brevemente ma con sicurezza e buona informazione, il concetto «veramente un po’ singolare» di teologia politica, sia nei suoi ascendenti storici (Leibniz, Cartesio, Rousseau, Atger, Boutmy), sia specificamente in Schmitt; si sottolinea inoltre che questi passa dalla percezione di un generico «rapporto» fra teologia e scienza dello Stato a una più impegnativa «sociologia dei concetti giuridici», per fissare i principi generali che in ciascuna epoca legano metafisica e politica (dall’assolutismo/trascendenza alla democrazia/immanenza).
Riconosciuto che l’assunto di Schmitt è interessante, Grispigni tende tuttavia a disinnescarne il potenziale critico (con un procedimento che è caratteristico di gran parte delle interpretazioni italiane), esprimendo «molte riserve sulla fondatezza di un tale principio (scil. il legame generale fra sistema metafisico e sistema politico) perché, se indubbiamente esso contiene qualche elemento di verità, è pure certo che una generalizzazione troppo affrettata risulta in evidente contrasto con la realtà storica»[7].
Nonostante il valore «sintomatico» di questa breve recensione, il suo peso intrinseco pare alquanto scarso; più interessante e articolata è invece quella che — dopo cinque anni di silenzio della critica — C. G. [8] dedica a Verfassungslehre, sia perché sviluppa un discorso molto ben informato e originale sul concetto schmittiano di sovranità, portato alla luce attraverso l’analisi delle principali opere del giurista tedesco, sia perché inquadra lo Schmitt — con indubbia competenza — nell’ambito del pensiero giuscostituzionalistico germanico (ricostruito a partire dall’Allgemeine Staatslehre, attraverso il concetto di Rechtsstaat, fino al neopositivismo giuridico della scuola austriaca e al polemico recupero del Polizeistaat nell’epoca «pluralistica» di Weimar). Goretti riconosce come filo conduttore del pensiero schmittiano l’elaborazione del concetto di sovranità come di un «irrazionale che sta al di fuori del diritto», «irriducibile a ogni valutazione giuridica», così che «lo Stato come forma di unità politica, di imperium, appare principalmente fondato su tale principio»[9].
Ma accanto a questa, che sembra al critico italiano la più sostanziosa acquisizione dello Schmitt — come più volte ripete —, vi è nel pensiero del giurista tedesco un’altra nozione fondamentale, quella di unità politica immediata di un popolo, vera fonte di ogni costituzione e depositaria della sovranità: ed è contro questo principio che si concentrano le critiche di Goretti. Secondo questi, infatti, tale unità politica sarebbe mitica, deriverebbe a Schmitt da forti suggestioni rousseauiane, e dimostrerebbe — anche attraverso gli espliciti riferimenti a Hobbes – di essere «una conseguenza di una generale concezione naturalistica che per quanto ammantata di orpello idealistico è un po’ dappertutto la caratteristica del nostro tempo»[10]. Al contrario di quanto sostiene Schmitt — prosegue il critico italiano — «la sovranità politica nelle sue diverse manifestazioni storiche non è affatto questa identità di popolo che si fa stato, ma è la risultanza di lotte politiche, il predominio di certe maggioranze o di certe minoranze che esercitano certe determinate funzioni sociali, per cui lo Stato non è altro che l’equilibrio di limiti e di controlli in modo da regolare appunto l’esercizio della sovranità»[11]; e lo stesso sovrano — il quale dovrebbe, secondo Schmitt, realizzare la «presenza» veramente democratica, superando la «rappresentanza» liberale e elitaria e i rischi di sterile meccanicismo a essa immanenti — è anch’esso mitico[12]. Molto più concreto appare allora il concetto giuridico-politico liberale secondo il quale «l’unità politica di un popolo non è un dato da accettare come mito, come un contratto sociale già perfetto, ma un lento sforzo che si ottiene attraverso un coordinamento e una autonomia dei gruppi sociali»; anche tale concetto liberale — e qui Goretti accetta la lezione schmittiana — «è certamente [... ] una ideologia politica, non un criterio giuridico astratto, ma il carattere giuridico che lo contraddistingue è quello di sostituire più che sia possibile al criterio politico della sovranità il criterio della funzione della competenza, che, come faceva osservare lo Jellinek, è essenzialmente giuridico»[13]. Ora, al di là dell’indubbia solidità dell’impianto teorico, questa recensione ci appare importante perché imposta da un punto di vista giuridico (ma non certamente digiuno di una più ampia problematica storica e filosofica) tutta una serie di critiche che verranno mosse in seguito a Schmitt e — più che al suo concetto di sovranità — a quello più immediatamente politico di «unità popolare», ritenuto insufficiente a dare ragione della complessità delle strutture costituzionali, critica che si rivelerà una costante delle letture italiane di Schmitt. Accanto a questo rilievo — e anche senza sottolineare la notevole carica di anticonformismo che anima la difesa della dottrina liberale in anni non certo favorevoli (ma è da ricordare che dal 1927 la «Rivista di Filosofia» traeva ispirazione diretta da Piero Martinetti) — ci appare notevolissimo il parallelo Kelsen-Schmitt, che in seguito verrà individuato da buona parte della critica[14] come uno dei nodi centrali per la definizione del pensiero schmittiano.
Così, nonostante una certa convenzionalità dell’interpretazione (rilevabile però soltanto alla luce di quelle che hanno seguito, e sulle quali questa di Goretti non pare peraltro aver avuto alcuna influenza) si può certamente affermare che questo lontano e dimenticato saggio critico è uno dei momenti di maggior sensibilità verso il pensiero di Schmitt nella cultura dell’Italia prebellica.
Di semplice presentazione riassuntiva è invece il breve commento di Mario Einaudi[15] a Der Hüter der Verfassung, che l’italiano considera di grande attualità politica per la situazione della Germania, nel momento in cui al binomio antitetico sovrano/parlamento si è sostituito un pluralismo politico e territoriale che rischia di minare la stessa struttura statale unitaria. La proposta schmittiana di un «protettore della Costituzione» nella figura del capo dello Stato è da Einaudi considerata in parallelo alla «protezione giudiziaria» fornita negli USA dalla Corte Suprema, ed è valutata come difesa della democrazia plebiscitaria, ben diversa quest’ultima — per i poteri tuttavia restanti al Parlamento — da una dittatura vera e propria. Nulla viene detto però dei rapporti di Schmitt con la cultura tedesca, né delle sue opere precedenti, così che il valore storico di questo intervento risiede soltanto nella prova di una sia pur timida apparizione di Schmitt nella cultura italiana fra gli studiosi di diritto internazionale, ma senza che — almeno per il momento — si accenda intorno al giurista e politologo tedesco un reale e significativo dibattito.
Dell’assenza di Schmitt dal panorama della cultura italiana si era del resto lamentato, l’anno precedente, Carlo Curcio[16] nel primo numero della rivista «Lo Stato», diretta da Carlo Costamagna, che in seguito sarà un importante veicolo di diffusione di scritti schmittiani[17], in un ambiente culturale rigidamente fascista. Siamo in questo caso agli albori di un’altra costante delle interpretazioni italiane di Schmitt (che però rimane sostanzialmente marginale, prevalendo, come si vedrà, il rifiuto da parte della cultura accademica, anche in periodo pre-bellico): la sua spregiudicata utilizzazione come teorico del fascismo, e non soltanto con riferimento agli scritti dello Schmitt compromesso con il nazismo (che comunque nel 1930 — anno in cui scrive Curcio — erano di là da venire), ma come interpretazione genericamente fascista di tutto il suo pensiero. È infatti questa l’operazione che più o meno scopertamente Curcio propone, ed è a questo fine che auspica la diffusione di Schmitt nella cultura italiana, la quale al contrario si fascistizzerà per altre vie e continuerà — non per antifascismo, ma per provincialismo e a causa dell’egemonia idealistica — a ignorare, in linea di massima, il pensiero di Schmitt.
In questa proposta di «politica culturale» sta tutto il senso dell’intervento di Curcio, poiché non si può certamente dire che la sua presentazione di Schmitt — e delle sue principali opere, con esclusione tuttavia del Begriff des Politischen, che pure nel 1930 aveva avuto già due edizioni — abbia grande valore scientifico: inserito Schmitt nell’ambito dei critici del Rechtsstaat e del liberalismo, Curcio trova soprattutto apprezzabile il rapporto schmittiano politica/diritto, quale si determina nella dittatura e nel complesso nodo costituzione-Stato-sovranità. E lo Stato «non giuridico, ma politico, vivo, umano, dinamico», che supera la rappresentanza democratica, è naturalmente per Curcio «realtà etica, politica, come ha detto Mussolini»[18].
Ma per fare rientrare completamente lo Schmitt degli anni ‘17-’28 in uno schema fascista (operazione non agevole, nonostante alcuni apprezzamenti schmittiani per Mussolini[19]) Curcio deve esorcizzare, imbarazzato, l’ascendenza rousseauiana di Verfassungslehre, edeve soprattutto sottolineare l’irrazionalismo romantico delle rivoluzioni, che sarebbe il momento essenzialmente politico e che poi la dittatura placherebbe in un nuovo ordine «classico» e statuale[20]. Ma l’equazione di romanticismo, rivoluzione e politica, che Curcio vede come fondamento di ogni Stato e come retroterra di ogni dittatura e di ogni «costituzione» popolare — che da quella trarrebbe la sua legittimità — contraddice apertamente il concetto schmittiano della Politische Romantik[21], secondo il quale il romanticismo (estetico, ma anche nella forma ideologica di «discussione» liberale) è l’esatto opposto della vera capacità politica di instaurare un ordine fondato sulla decisione sovrana e sulla capacità di distinguere ed escludere l’amico dal nemico.
Così, nonostante Curcio abbia l’intuizione — in seguito da altri ripresa e sviluppata — di una sostanziale mobilità e dinamicità del concetto schmittiano di Stato (ma si tratta pur sempre di uno Schmitt parziale, puramente decisionista, dimidiato della più importante problematica, quella relativa all’Ordine per esclusione), la sua presentazione di Schmitt si conferma un espediente per nobilitare la «rivoluzione» fascista e lo Stato mussoliniano, senza che, da una parte, ci sia reale rispondenza con il pensiero schmittiano (il fascismo, per Schmitt, è la conseguenza del «pluralismo» e delle «compatibilità illimitate», in una linea di analisi di ascendenza weberiana che sfugge completamente a Curcio), e senza che, d’altra parte, tale espediente abbia frutti importanti in campo fascista.
III. Di tutt’altro livello — e tale da produrre risultati ben diversi da quelli sperati da Curcio — è invece il saggio di Karl Löwith[22], che favorisce la posizione del «problema Schmitt» come di una questione anche — se non soprattutto — «filosofica»; sotto lo pseudonimo di Hugo Fiala, Löwith individua e critica, al di là delle questioni giuridiche, il centro teorico del pensiero schmittiano, in pagine di aspra polemica. Dato questo ruolo «storico» e data la fortuna veramente singolare e il grande favore trovato presso la successiva critica italiana, di questo articolo ci sembra giustificata una sia pur breve analisi, in via preliminare e quasi come propedeutica a larga parte delle interpretazioni italiane di Carl Schmitt. La tesi centrale di Löwith è dunque che, pur presentandosi come anti-romantico, il «decisionista» Schmitt sia altrettanto «occasionalista» di quegli autori il cui «eterno dialogo» critica violentemente nel suo Politische Romantik;tale occasionalismo deriva a Schmitt da una mancanza di nerbo teorico/pratico nel suo pensiero, che appare così la perfetta espressione di una «distruzione della ragione», ancora più definitiva e radicale di quella operata, rispetto a Hegel, da Marx e da Kierkegaard, perché non incentrata — al contrario di quelle — né su Dio né sull’Umanità[23]. Distrutta la ragione hegeliana in grado di riconoscere e superare nella forma autoassolutoria dello Spirito le contraddizioni da cui è prodotta, rimossi come spuri e antiscientifici i riferimenti supremi, gli «interessi generali» di Kierkegaard e di Marx, la contraddittorietà amico/nemico, alla quale Schmitt ricorre per interpretare il «politico», resterebbe, secondo Löwith, incapace di darsi una razionale autogiustificazione, priva di un vero punto di riferimento e chiusa ciecamente in se stessa, e proprio per questo pronta ad accogliere meccanicamente e passivamente ogni contenuto esterno e a farlo proprio[24]. L’analisi delle varianti fra l’edizione del 1932 e quella del 1933 del Begriff des Politischen[25] (nel caso specifico, la soppressione — agli albori del regime nazista — di «inopportuni» riferimenti a Marx, Lenin e Lukács) comproverebbe, secondo Löwith, questa sostanziale disponibilità di Schmitt ad accogliere acriticamente ogni stimolo esterno, convalidata anche dalla ben più probante circostanza di uno Schmitt via via normativista, decisionista, «avvocato del pensiero ordinato e formativo» (cioè nazista; e — si potrebbe aggiungere — su questa linea è possibile continuare imputando a Schmitt la sua — parziale — palinodia post-nazista e la sua rivalutazione del Jus Publicum Europaeum, che aveva proclamato superato, insieme alla forma classica dello Stato, dal concetto di Reich e da quello correlato di Grossraum[26]).
La riduzione di ogni concetto a «polemica» e la conseguente distruzione della ragione dialettica sono acutamente ascritte da Löwith a quel rapporto filosofia/spirito-del-tempo che, penetrato nella cultura tedesca, dall’eredità hegeliana mediata da Ruge si sviluppa attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Dilthey, Scheler, Weber, fino a Heidegger («l’impotenza creatrice del sapere» e la «sapiente risolutezza»), alla cui ontologia esistenziale è subordinata la politica esistenziale di Schmitt, totalmente dipendente, dunque, dallo spirito-del-tempo[27]. Il più profondo pensiero, il segreto più nascosto della filosofia tedesca, l’andar di pari passo della verità assoluta con il tempo storico, si rovesciano così nella «occasionale» decisione esistenziale, nel pensiero sequestrato nella realtà contingente e passivamente compenetrato da questa; consumato, nella «polemica» sostanzialità regressiva nazista e antisemitica, il sacrificio della ragione trascendente, la filosofia tedesca non è più, con Schmitt, la forza capace di evidenziare la razionalità del reale, non è più, insomma, filosofia della storia.
Infatti, afferma Löwith, la linea secolarizzante della «teologia politica» schmittiana è incapace di fornire una valutazione razionale della storia, come pure è impotente di fronte al problema di individuare il «centro» decisionale del mondo contemporaneo[28], limitandosi ad accettare dall’esterno il mito rozzo e aberrante dell’antisemitismo, la cui difesa appare così lo scopo vero di tutta l’opera schmittiana.
È evidente che il saggio di Löwith si muove ad altissimo livello teorico e che non costituisce un intervento casuale nell’ambito della produzione dell’autore di Da Hegel a Nietzsche e di Significato e fine della Storia, sulla cui stessa ipotesi è anzi costruito; la suggestione che muove da queste pagine (subito individuata da Cantimori[29] e per certi versi simile a quella di certi scritti di Massimo Cacciari[30], pur concepiti da ben diversa angolazione) sta soprattutto nella collocazione del pensiero schmittiano in un più ampio contesto, di cui Schmitt è considerato il punto d’arrivo necessario. Ma, a nostro avviso, il saggio ha un limite insuperabile — oltre che nella rigida ipotesi di fondo, che porta a considerare tanta parte della filosofia post-hegeliana come semplice «distruzione della ragione» — nella circostanza, pienamente giustificata ma non per questo meno rilevante, di essere quasi un invito per la cultura europea a una «battuta di caccia»[31] per smascherare l’antisemitismo di Schmitt. L’analisi teorica del rapporto Schmitt/secolarizzazione, che si rivelerà assai proficua, si intreccia invece non soltanto con il generale atteggiamento «filosofico» di Löwith, ma anche con un pathos carico di indignazione e a volte di astio: ne risulta una lettura fortemente «valutativa», e Schmitt viene in tal modo trascinato — in anni che certamente favorivano queste forti prese di posizione — davanti al «tribunale dello Spirito».
Le linee di penetrazione in Italia di questo saggio sono essenzialmente legate proprio a questo aspetto «polemico», mentre la «genealogia» filosofica di Schmitt dal pensiero negativo e da Weber (che pure vi si adombra) ha avuto fortuna molto minore e soprattutto molto più tarda; l’attacco di Löwith al pensiero schmittiano è assunto da gran parte della cultura italiana come pretesto per liquidare in nome della filosofia (non certo, in quegli anni, della tolleranza razziale) un pensatore troppo difforme dalla tradizione. In generale, i critici italiani (del periodo fascista, ma in gran parte anche del dopoguerra) traggono dal saggio di Löwith i seguenti stimoli interpretativi: la collocazione di Schmitt fra i prodotti più torbidi dell’anima irrazionale tedesca[32], e la conseguente critica al nichilismo schmittiano; il rilievo dell’assoluta mancanza di autonomia dell’elemento teorico (la «distruzione della ragione»), cui si accompagnano l’occasionalismo politico e l’incapacità di una razionale valutazione della storia (cioè di una filosofia «spirituale» della storia); l’accusa a Schmitt di non essere in grado di fornire (se non nella «occasionale» forma nazista) un criterio per la determinazione dell’amicus (accusa mossa anche da Brunner[33]), cioè del reale formarsi e perdurare dello Stato; la condanna della dismisura schmittiana (giudicata antitetica al razionalismo di Hobbes e di Hegel), inadatta a cogliere la vera essenza della realtà, e brancolante pertanto in una disordinata congerie di pseudo-concetti; l’osservazione che l’esito nazista del pensiero schmittiano è «necessario», proprio perché tale pensiero è occasionalisticamente disposto ad assorbire il più forte stimolo esterno (appare così anche l’accusa di empirica superficialità); insomma, la disposizione a una interpretazione di Schmitt fortemente «valutativa», orientata da punti di vista probabilmente estranei all’autore tedesco, a cui si chiede soprattutto di essere un sistematico filosofo della storia e della prassi.
La fortuna italiana di Schmitt nel periodo prebellico (ma anche in seguito) si situerà così fra i due estremi della «utilizzazione» (specialistica, da parte dei giuristi, largamente tributari — nei limiti che si indicheranno — della Verfassungslehre, oppure polemica eparziale), e della «condanna» filosofica «globale»: unica cospicua eccezione — sul versante storico/filosofico — è Delio Cantimori (alla cui traduzione di Schmitt[34] si deve del resto gran parte dell’interesse della critica italiana per il pensatore tedesco), la cui posizione, che culmina con un sostanziale rifiuto, passa almeno attraverso le oscillazioni di un rapporto diretto, problematico e travagliato con il testo di Schmitt.
IV. Gli interventi di Cantimori intorno al pensiero schmittiano si articolano in un arco di tempo che va dal 1930 al 1947, con significative revisioni di metodologia e di valutazione all’interno del complesso rapporto istituito dall’insigne storico con Schmitt; questi è infatti per Cantimori «quasi un’ombra che lo segua, un elemento di confronto e di discussione ineliminabile»[35]. Oltre a ciò, va ancora sottolineata l’importanza per la cultura italiana della traduzione dei Principii politici del Nazionalsocialismo;per trovare una circostanza altrettanto decisiva per la fortuna di Schmitt in Italia è infatti necessario attendere il 1972, anno di pubblicazione delle Categorie del ‘Politico’.
Il primo saggio di Cantimori su Schmitt[36] si situa in un contesto biografico che vede il giovane storico decisamente gentiliano e fascista, cioè orientato verso una concezione della prassi come dinamica ed effettuale autorealizzazione dello Spirito. In questa situazione, il brillantissimo saggio schmittiano sulle «Neutralizzazioni e Spoliticizzazioni»[37] appare a Cantimori — che lo analizza con estrema correttezza e precisione — un incitamento a lasciar cadere le sterili lamentazioni sulla tecnica come «morte dello Spirito», per accettare invece apertamente la sfida che al mondo contemporaneo è portata dal crescente macchinismo e dalla gigantesca potenzialità polemica che vi è contenuta, e che si presenta nella forma mistificante della «neutralità» tecnologica[38].
Ora, a prescindere dal fatto che Cantimori individui nel fascismo la forza capace di raccogliere questa sfida e di costruire una nuova cultura, è interessante notare come lo storico italiano avverta con sicurezza che Schmitt non si muove all’interno di una «filosofia» della storia, ma che anzi la descrive non come «progresso», ma soltanto come «passaggio» da un Zentralgebiet all’altro[39]: da ciò, anzi, Cantimori deduce una sorta di disimpegno filosofico-politico di Schmitt, che viene criticato in questa circostanza proprio per il suo «agnosticismo» scientifico, che gli permette di esprimersi in modo non apertamente negativo nei riguardi dell’URSS (suscitando così lo sdegno di Cantimori[40]). L’esigenza di un’attiva presa di posizione in senso progressivo alimenta, in questo momento, la critica al «freddo empirismo» schmittiano, ma cinque anni dopo, nel suo saggio più impegnato su Schmitt[41], Cantimori rovescerà la sua posizione per un intervenuto ripensamento delle precedenti coordinate etico-politiche fasciste e attualistiche: allora Schmitt sarà criticato per la sua eccessiva tragicità, per il suo esasperato decisionismo, per la confusione — nient’affatto scientifica — delle «distinte» categorie dello Spirito e della prassi (da una posizione, dunque, oggettivamente crociana[42]); inizia qui quella problematizzazione del rapporto teoria/prassi — dopo le giovanili certezze attualistiche — che accompagnerà tutta la pensosa esistenza di Cantimori, fino alla nota crisi in seguito alle vicende del 1956.
Ma nonostante l’apparente contraddittorietà delle critiche rivolte a Schmitt, sembra rilevarvi una costante: l’accusa di troppa aderenza alla realtà immediata[43], di mancanza, cioè, di «interesse» al mutamento. E questo è vero sia quando l’attivismo attualistico spinge Cantimori a coltivare l’illusione di un nuovo e dinamico centro di formazione della civiltà (contro l’insufficiente scienza meramente descrittiva di Schmitt), sia quando la scoperta dolorosa e inquietante della violenza implicita nella politica lo consiglia a mantenere rigorosamente distinta da questa la cultura (in polemica con la «confusione» decisionistica di Schmitt, il cui pensiero — nonostante non venga mai identificato tout-court con l’ideologia nazista — resta pur sempre il semplice rispecchiamento della «distruzione della ragione», testimonianza di una compromissione politica della teoria, emblema di una civiltà avviata verso la catastrofe).
Infatti (dopo un intervento sostanzialmente interlocutorio e di presentazione delle principali tesi di Schmitt[44], alle cui «idee reazionarie» viene riconosciuta una «grandiosa durezza»), nel saggio del 1935, si mettono in evidenza, oltre che l’estremo rigore logico e la lucida coerenza dell’autore tedesco, anche gli esiti fallimentari del suo pensiero; Cantimori afferma così che «Schmitt per troppa aderenza alla politica quotidiana rimane al di qua della filosofia» e «non assurge alla posizione del problema filosofico». Pur riconoscendo a Schmitt l’ambizione di portata «europea» di «distinguere il più nettamente possibile la politica dalle altre forme dello spirito», l’opera schmittiana viene collocata «del tutto entro il mondo culturale tedesco», e ricondotta alla particolare esigenza «sentimentale» della coeva cultura germanica (Jünger, Moeller van den Bruck, Salomon) e al nichilismo borghese di questi autori, rivoluzionari e «anarchici per nostalgia d’ordine assoluto»[45]. Da questo confuso pathos per una decisione quale che sia, Schmitt deriverebbe, secondo Cantimori, le nozioni di «sovranità» e di «politica», centrate appunto sul concetto di Entscheidung: e dalle nuove prospettive aperte dal così raggiunto «decisionismo dittatoriale» è assai facile per Schmitt aderire al nuovo ordine promesso dal nazismo, che trova così nell’Ordnungsdenken schmittiano la sua legittimazione teorica. L’inquieto e tragico rivoluzionario raggiunge allora la quiete «nel più classico esempio di Stato autocratico che la storia conosca: lo stato militare prussiano»[46].
È sintomatico della sua lontananza dall’esperienza nazista il fatto che Cantimori sottolinei all’interno del totalitarismo tedesco la componente prussiano-militaristica e non quella — veramente «ortodossa» — più strettamente völkisch;del resto, la distanza dal nazismo appare ulteriormente accentuata anche dalla presentazione in Italia, come Principii politici del Nazionalsocialismo, proprio del pensiero di Schmitt, di un autore, cioè, che di tali principi era già, all’epoca, interprete originale, eterodosso (sospetti erano soprattutto i suoi legami con la Reichswehr e con il generale von Fritsch, accusato di tentativo di colpo di Stato, a cui Schmitt avrebbe dovuto fornire il supporto giuridico[47]), e che di lì a poco sarebbe stato fatto oggetto di pesanti accuse da parte della rivista delle S. S., Das Schwarze Korps[48].
A prescindere tuttavia dal problema — assai spinoso — di una valutazione del nazismo di Schmitt, pare che non vi sia, da parte di Cantimori, un’adesione piena al pensiero schmittiano, quanto piuttosto, come si è già detto, un’ammirazione notevolmente perplessa; è decisivo, a nostro avviso, che Cantimori, pur rifiutando esplicitamente l’ipotesi «occasionalistica» di Löwith, dipenda tuttavia sostanzialmente dal suo concetto fondamentale: che cioè Schmitt, pur non dovendo essere valutato soltanto «filosoficamente», né dovendosi dare un’interpretazione «prescrittiva» dei suoi principali concetti[49] (particolarmente della categoria amico/nemico, nella quale Cantimori vede un’indeterminatezza che la porta a inglobare anche le altre — logiche, morali, estetiche, economiche — da cui quella si vorrebbe invece distinguere in autonoma purezza), resti soltanto un polemista estemporaneo, anche se brillante, e un ideologo (e anzi, tutta l’insistenza di Cantimori sull’intima coerenza — anche se non filosoficamente sistematica — del pensiero schmittiano vale dopo tutto a impedire una lettura articolata dell’opera di Schmitt, e a confermare implicitamente il punto di vista di Löwith come quello determinante).
A questo punto — e nonostante Cantimori escluda (excusatio non petita) ogni sospetto di «rozzezza» dal pensiero schmittiano[50] — la cauta polemica (condotta quasi esclusivamente nelle note) con cui lo storico italiano contrappone alla «filosofia tendenziosa» di Schmitt il rigore liberale dei «distinti» crociani, così come la svalutazione della teoria schmittiana («geniale constatazione nel campo empirico e intrinsecamente inane come teoria nel campo speculativo»[51]) dimostrano un rifiuto sostanziale di ogni avventura teoretica al di là delle colonne d’Ercole dell’idealismo.
Anche gli ulteriori interventi di Cantimori su Schmitt sono segnati da questa oscillazione fra la valutazione oggettiva del brillante politologo (di cui si sottolinea tanto la distanza dal nazismo ufficiale quanto la diversità, propria dello studioso di formazione occidentale, dagli aspetti «appassionati e romantici» della vita politica tedesca[52], in parziale opposizione con l’ipotesi del 1935, che faceva di Schmitt un tipico rappresentante dell’inquietudine germanica — ipotesi che sarà ripresa invece più tardi —), e — d’altra parte — la velata polemica in nome di una politica «razionale» e «popolare», non fondata sull’abisso dell’inimicizia. Tale polemica è evidente nella recensione dello schmittiano Der Leviathan, del 1938[53], opera estremamente importante e complessa, giocata su di un intreccio di simbolismi teologico-politico-mitologici, tanto da apparire non «un vero e proprio saggio storico, dalla linea ben definita, ma piuttosto una serie di brillanti variazioni sul tema "fortuna del Leviathan"»[54]. All’ampia e puntuale esposizione dei nodi fondamentali del saggio schmittiano (scontro Behemoth-Leviathan, meccanizzazione dello Stato, interiorizzazione moralistica della politica, esoterismo massonico-liberale, divisione pubblico-privato, politicizzazione totale democratica), Cantimori affianca discretamente critiche di merito (sul ruolo dei riformatori italiani[55]) e di carattere più generale (conservatorismo di Schmitt spinto al punto da eliminare quasi ogni accenno al popolo, alla nazione, e al tentativo hegeliano — razionale! — di «superare il contrasto fra interno ed esterno in una sintesi dialettica»[56]): nel contesto storico di quegli anni e nello sviluppo della biografia intellettuale di Cantimori, Schmitt appare così il reagente che fa definitivamente precipitare alcune convinzioni fondamentali dello storico italiano in merito al rapporto politica-morale-cultura.
Il confronto con Schmitt accompagnerà, come si è detto, la riflessione storiografica di Cantimori anche in seguito, ma ormai le rispettive posizioni teoriche appaiono scontate e chiarificate; Schmitt viene trattato da «nemico», sia pure acuto e penetrante, e ascritto definitivamente a un momento di «discussioni e di rivoluzionarismo e antirivoluzionarismo astratti di un certo periodo della cultura tedesca»[57], dove l’astratto vale per torbido, mistico, confuso, non razionalmente politico ma meta-politico; discussioni, cioè, «del tipo di quelle fra Settembrini-Croce e Naphta-Schmitt»[58].
V. L’incidenza dell’interpretazione di Löwith si fa sentire, sia pure indirettamente e forse più per una certa affinità ideale che per diretta conoscenza del saggio del 1935, anche sul versante rigorosamente gentiliano dell’idealismo; in questa sede, infatti, si assume quello stesso atteggiamento «classicamente» filosofico, e si rivendica, con Volpicelli[59], all’etica il compito di sostanziare la politica la cui schmittiana «purezza» appare — alla luce del presupposto della vita effettuale dello Spirito come totalità sintetica — un vero e proprio errore logico: Schmitt ha infatti con cepito, secondo Volpicelli, soltanto l’inimicizia, e non anche la comunione spirituale — da quella implicata —, e ha così fallito di fronte all’Atto spirituale totale. Corollario di questo errore è l'incapacità di sintesi fra Stato, Movimento, Popolo, da Schmitt soltanto empiricamente giustapposti e pertanto non in grado di dare vita a quella totalità, inverante le parti, che vuol essere lo Stato etico gentiliano-fascista. Una delle più interessanti intuizioni di Schmitt — il superamento della forma classica dello Stato, cui consegue il permanere della politicità con una pluralità di centri, vero leit motiv della sua produzione più matura, sia di quella più ideologicamente impegnata sia di quella «scientifica»[60] — non è dunque avvertita da Volpicelli, che la liquida da un punto di vista classicamente speculativo, e dunque assai lontano da quello peculiare di Schmitt.
Così, anche Felice Battaglia[61] definisce la schmittiana categoria del «politico» un’astrazione, uno pseudoconcetto, «una guisa non assolutamente necessaria dello Spirito», e afferma che lo Stato — il quale, secondo Schmitt, si limiterebbe a porre l’inimicizia — deve essere ed è in verità uno Stato etico, la concretezza del volere universale, concludendo che l’uomo schmittiano, nella sua tragica ostilità, è al di sotto anche dell’animale, poiché vien meno al suo telos di ragione. E la storiografia «costituzionale» — di cui Schmitt dà un saggio, sia pur discutibile, in Compagine statale e crollo del secondo Impero —, appare a Battaglia costruita su pseudoconcetti giuridici, validi soltanto in sede scientifica particolare, ma incapaci di rappresentare efficacemente la complessità del reale. Infine, contro la fondazione del diritto sulla «comunità di stirpe» — giudicata pericolosamente affine allo «scopo rivoluzionario» della giurisprudenza bolscevica[62] — il filosofo gentiliano rivendica gli oggettivi permanenti valori del diritto di un popolo, e poi del diritto dell’umanità, affermando così la superiorità della tradizione «italiana, cristiana, latina», realizzata dalla coincidenza (e non dalla schmittiana giustapposizione) di Stato e società nella corporazione, cioè attraverso e non contro l’individuo.
La fortuna italiana di Schmitt si presenta dunque, fino al 1936, assai dubbia, nonostante la partecipazione del giurista tedesco a un convegno sugli «Stati Europei a partito politico unico», organizzato da Ranelletti presso il Circolo Giuridico di Milano[63]. Le resistenze della cultura accademica italiana del periodo fascista di fronte alla «stravaganza» e alla «dismisura» del pensatore germanico (letto nella chiave più facile e immediatamente polemica di pensatore politico irrazionalistico, senza sondarne, cioè, — come è del resto facilmente comprensibile, dato il clima intellettuale dell’epoca — la complessa ascendenza sul versante del «pensiero negativo», che almeno Löwith ha presente, sia pure con accenti fortemente critici) attraversano in pratica quasi tutte le correnti culturali del tempo, e non si lasciano vincere dall’amicizia ufficiale dei due regimi; il fascismo, nel perseguire finalità antidemocratiche preferisce affidarsi al supporto ideologico dell’idealismo gentiliano e dello Stato etico[64], molto più compassati e rassicuranti che non il vertiginoso ed estremistico pensiero schmittiano. I giuristi, anzi, pongono molta cura, come vedremo, nel sottolineare le differenze dell’ordinamento italiano da quello tedesco, alla cui formulazione iniziale Schmitt ebbe tanta parte[65]. Si assiste, tuttavia, dal 1937 al 1942, a un relativo intensificarsi della presenza di Schmitt nella cultura italiana, attraverso la traduzione di saggi di diritto internazionale[66], orientati quasi tutti in senso fortemente polemico nei riguardi dell’impero britannico e degli USA, secondo un indirizzo caratteristico della politica e della propaganda fascista in quegli stessi anni, senza che tali posizioni schmittiane vengano inquadrate nell’ambito più generale della sua riflessione teorica, ma soltanto «utilizzate» ai fini di una polemica immediata; ma anche questa nuova attenzione verso Schmitt non travalica i limiti dello specialismo giuridico o del consenso da parte di un fascismo estremistico e radicale, il cui più autorevole rappresentante è il futurista-mistico Julius Evola.
Questi, in un intervento su di una rivista legata al fascismo farinacciano, razzistico ed antisemitico[67], rivolge la sua attenzione al concetto schmittiano di «guerra totale» e ai suoi caratteri fondamentali: superamento della distinzione fra soldato e borghese ed esplosione incontrollata del principio politico dell’ostilità, senza più il freno della forma statuale classica e del diritto di guerra. Pare a Evola che il concetto schmittiano di politica e quello correlato di guerra totale corrano il rischio di produrre «schieramenti puramente irrazionali, passionali, militanti», e che invece sia necessario che «la politica si subordini a un’idea, cioè a veri e propri principi, validi immutabilmente e indipendentemente dalla loro utilità immediata e dalla loro attitudine a essere sfruttati come "miti"». Ora, la guerra totale, che Evola accenna come se fosse una diretta «proposta» schmittiana, deve avere per obiettivo, secondo il critico italiano, la difesa di questi valori dai loro «naturali» nemici (e non è difficile capire a chi si alluda), in nome di una spiritualità trascendente: così anche l’auspicata educazione guerriera della nazione non dovrà condurre a un cieco irrazionalismo, ma dovrà essere finalizzata al riconoscimento del «vero» nemico.
Come si vede, ancora una volta e sia pure in un contesto notevolmente diverso da quello consueto, il concetto schmittiano di politica è interpretato come una teoria dei «fini» dello Stato (per la verità, in questo caso anche grazie all’ambiguità dello Schmitt ideologo del nazismo, o presunto tale), e proprio da questo punto di vista è, naturalmente, ritenuto insufficiente, e integrato in una più «solida» dottrina di valori spirituali su cui orientare la stessa «politica» schmittiana, trasformata così in potente strumento ideologico: parrebbe che proprio la valenza «scientifica» del ‘concetto’ (la sua adattabilità conoscitiva a diverse situazioni) venga rifiutata da Evola, almeno implicitamente, appunto perché troppo facilmente applicabile (utilizzabile come «mito», dice l’italiano), in favore di un’ideologia più univoca e rassicurante; probabilmente, anche dietro il pensiero schmittiano più politicamente compromesso si intravvede o si sospetta la ‘scientificità’.
Ma, a indicare una tutt’altro che solida preparazione dottrinale de gli ambienti fascisti più militanti, e a sottolinearne la notevole approssimazione e la totale mancanza di una riflessione consolidata e soddisfacente intorno alle prospettive «strategiche» del regime, interviene in risposta ad Evola, e sulla stessa rivista, Maurizio Claremoris (uno pseudonimo)[68], ad accusare, piuttosto volgarmente, in verità, sia Schmitt sia Evola di astrattezza professorale, e a rivendicare l’aspetto artistico, irrazionale ed empirico sia della guerra che della politica, contro ogni «deduzione» da superior principi (Evola) o da inimicizie precostituite (Schmitt).
Ma si tratta soltanto, in realtà, dell’esigenza di una politica di piccolo cabotaggio, incerta sul domani e riluttante ad abbandonare il rassicurante empirismo mussoliniano per impegnative assunzioni di principio (posto che Schmitt ne possa fornire l’occasione), quasi una crisi d’identità germogliante dal consueto relativismo fascista.
La secca risposta di Evola[69] vuole chiarire le differenze fra lo stesso Evola e Schmitt, e soprattutto far rilevare all’«inopportuno» Claremoris come Schmitt abbia designato e accettato nella guerra totale una linea di tendenza emergente in modo oggettivo dalla situazione internazionale, e non una meccanica regola astratta (in ogni caso, la proposta di Evola era stata appunto di collegare a un ideale spirituale superiore la scoperta schmittiana dell’inimicizia, per dare a essa maggiore incisività ideologica e polemica).
Così, con questo che ci pare un duplice desolante fraintendimento generato dall’incapacità di ripensare la complessa problematica schmittiana e di decifrarne, dagli aspetti marginali, la linea teorica fondamentale, l’elíte più impegnata del fascismo lascia cadere l’embrione di querellesull’interpretazione di Schmitt (a parte due riprese di temi schmittiani attuate qualche anno dopo da Evola[70]); lo studioso tedesco, insomma, valutato come spurio ed empirico dalla filosofia idealistico-gentiliana[71], appare del tutto impraticabile e inutilizzabile anche per l’esangue cultura di regime. D’ora in poi, come si vedrà, il pensiero schmittiano ritornerà a essere, per lunghi anni, terreno esclusivo di ricerca in ambiti strettamente specialistici, particolarmente giuridici.
VI. Sono i giuristi, infatti, che tributano a Schmitt, negli ultimi anni ‘30 e nei primi anni ‘40, l’attenzione che ci pare più cospicua e fruttuosa, soprattutto per quegli studiosi (e non sono pochi) che hanno interessi di diritto pubblico, costituzionale e internazionale comparato; oltre a registrare un notevole numero di presenze in questo tipo di studi, Schmitt gode in alcuni casi, non sempre, in verità, di una posizione di notevole prestigio, come di un Maestro riconosciuto, tanto che anche le pur numerose confutazioni e riserve sono rispettose e ammirate della grande dottrina schmittiana, che tuttavia non si può certo affermare abbia prodotto in Italia qualche cosa di simile a una scuola.
Esemplare a questo riguardo è l’opera di Costantino Mortati, la cui Costituzione in senso materiale[72] testimonia, all’interno di una sterminata dottrina giuridica, di un preciso e costante debito concettuale verso lo Schmitt giurista, di cui il grande costituzionalista italiano dimostra di conoscere pressoché l’intera produzione.
Alla ricerca della fonte giuridica primigenia che determina il sorgere di un ordinamento e che ne pone l’unità e la specificità, garantendo il mantenimento costante del fine istituzionale, Mortati passa preliminarmente in rassegna «le principali teorie sulla costituzione materiale[73]; e in questa sede, dopo aver analizzato e rifiutato sia il positivismo empirico che quello logico di Kelsen — come pure ogni tentativo, anche quello nazista, di trovare il fondamento del diritto in qualcosa di eterogeneo rispetto al diritto stesso —, l’autore esamina in un denso paragrafo le principali opere giuridiche di Schmitt[74]. A questi, Mortati riconosce maggiore concretezza che allo Smend e al Ross, precedentemente presi in considerazione, avendo Schmitt individuato l’origine della costituzione (e qui la fonte di Mortati è la Verfassungslehre)nella decisione politica fondamentale. Mortati non manca però di rilevare una contraddizione tra Verfassungslehree Staat, Bewegung, Volk, in merito al problema del titolare della decisione politica[75], indicato — nella prima opera — nell’indifferenziata comunità popolare, e — nella seconda — nella consapevole azione politica dei portatori del potere originario organizzati in partito.
Anche per quanto riguarda le caratteristiche della decisione, Mortati ravvisa in Schmitt una oscillazione fra un concetto di volontà sempre uguale a se stessa perché produttrice della norma, e una valutazione delle modificazioni costituzionali come rivoluzionarie[76]; dalla critica mossa da alcuni a Schmitt — non avere questi veduto la contrapposizione esistente fra il momento esistenziale decisionistico/politico e quello normativo — Mortati difende invece l’autore tedesco, che avrebbe effettuato la sintesi fra questi due momenti attraverso la considerazione del l’ordine concreto[77]. Questo concetto incontra anzi l’alto favore di Mortati (che lo trova affine a quello di «durata costante», per lui fondamentale), ma a patto che non sconfini nel neo-organicismo völkisch, incapace, nella sua indeterminatezza, di costituire il fondamento costituzionale di uno Stato.
Ma Mortati muove a Schmitt un’obiezione decisiva: il tedesco lascerebbe imprecisato il contenuto tipico della costituzione materiale, e nella sua opera norma e ordine concreto resterebbero separati[78]. A questo punto, il riconoscimento finale (che Schmitt ha posto in rilievo come la costituzione normativisticamente intesa postuli un principio ordinativo superiore alle norme — dal quale le stesse ricevono valore —) potrebbe sembrare un tardivo onore delle armi a un avversario debellato, se nor fosse che nel seguito della sua opera Mortati ci pare fortemente tributario di Schmitt, come testimonia tra l’altro, da un punto di vista meramente esteriore, l’abbondanza delle citazioni. Già nel secondo capitolo, infatti, là dove si esaminano il contenuto e la natura della costituzione materiale, Mortati fa riferimento al concetto di «forza politica» che forma una comunità sulla base del rapporto «potere/obbedienza», di cui quello schmittiano «amico/nemico» è senza dubbio parte, almeno nel momento in cui un partito si organizza contro gruppi antagonistici, portatori di diversi concetti di ordine statuale[79]. Nello Stato moderno tale forza politica, tesa a instaurare, come costituzione materiale, un determinato rapporto potere/obbedienza, è, secondo Mortati, incarnata da partiti «totalitari», ciascuno depositario di un diverso progetto di ordine politico[80]: tema, anche questo, di parziale derivazione schmittiana, come ugualmente dal giurista tedesco Mortati riprende svariate suggestioni polemiche antipositivistiche e antiliberali, come attestano i costanti rinvii allo Schmitt in occasione delle critiche a Kelsen[81].
È certamente vero, tuttavia, che la posizione dottrinale di Mortati è ben distinta e indipendente da quella di Schmitt, soprattutto riguardo al valore politico/giuridico (non soltanto normativo, dunque, né soltanto politico) attribuito dall’italiano alla costituzione fondamentale, in opposizione al carattere esclusivamente politico individuatovi dal tedesco. Mortati in questo modo intende reagire, come si è detto, a impostazioni molto diffuse (quella sociologica, quella marxista e, in quegli anni, anche quella nazista), tutte in vario modo e in varia misura postulanti un sostrato pre-giuridico o non-giuridico a fondamento strutturale della sovrastruttura «diritto»: non basta cioè porre il fine dello Stato in una decisione spontanea e popolare, ma questa deve diventare oggetto di conoscenza riflessa, essere organizzata in una necessaria unità e in una attività di svolgimento concreta e durevole[82]. Tale attività, che sostanzia la costituzione materiale, non può essere «puramente» politica o esistenziale: chi ne contesta l’immanente giuridicità (e fra questi c’è indubbiamente Schmitt) ha un concetto di costituzione come di qualche cosa di instabile, incandescente, in eterno fluire[83].
A questo concetto «tragico» della politica, Mortati oppone la «classica» misura e la salda concretezza della costante volontà dello Stato, che ha incorporato in sé come «norma di scopo» il fine politico da svolgere. Ritorna così, sia pure in forma più meditata e convincente, il rilievo tipico mosso dalla cultura italiana a Schmitt, ma con una variante: la non-classicità di Schmitt (originata, secondo parecchi critici, dalla «confusione» del suo 'concetto') è da Mortati fatta risalire a una eccessiva «purezza», al fatto che la politica è solo una parte, sia pure ricca di grande dinamismo, di una realtà più complessa. In sostanza, Mortati si distacca da Schmitt proprio là dove Schmitt concepisce la costituzione come il momento magmatico dello «Stato nascente» oppure, (che è lo stesso concetto, ma ampliato e sviluppato) là dove considera la contraddizione politica come struttura ineliminabile e primordiale di qualsiasi ordine, vero «volto demoniaco del potere». L’insistenza di Mortati sui temi classici di durata e di equilibrio delle forze converge, nel momento della sua maggiore efficacia, in quel concetto di «norma di scopo» che — politica e giuridica a un tempo — sostanzia la costituzione materiale di uno Stato che voglia consapevolmente il proprio fine (il tema della consapevolezza — cruciale per Schmitt, da più parti accusato di distruggere l’autonomia della ragione — è altamente qualificante nella concezione «giuridica» di Mortati[84], ed è proprio su questo punto che si concentra il problema dell’interpretazione di Schmitt, come del resto si vedrà anche in seguito).
Il concetto di costituzione materiale, pur elaborato da Mortati nel 1940, ha mostrato, come è noto, una vitalità scientifica eccezionale, tanto da apparire, nel dopoguerra, uno dei principi-chiave del nostro ordinamento costituzionale e della riflessione giuridica su di esso[85]: alla determinazione di questo concetto si può dire che lo Schmitt giurista abbia contribuito almeno con il suscitare una certa sensibilità per il fatto politico, facendo così superare gran parte del nostro tradizionale positivismo giuridico, nonostante la lezione di Schmitt sia sempre stata filtrata dalla particolare impostazione classico-romanistica della nostra scuola di diritto, che ne ha così grandemente attenuato la presunta vis tragica.
Accanto a quello di Mortati — indubbiamente il più fruttuoso e sistematico, anche se orientato in gran parte a trascurare l’opera più specificamente politologica dello Schmitt — i giuristi italiani dedicano, nel periodo prebellico, altri interventi all’opera schmittiana, sia che si tratti, in sede di diritto pubblico comparato, di esaminare la funzione e il ruolo dell’ordinamento giuridico della Germania nazista, sia che vengano analizzate — nell’ambito degli studi di diritto internazionale — le concezioni schmittiane di Reich, Grossraum, Interventionsverbot[86], di cui però si coglie prevalentemente l’aspetto polemico anti-occidentale, e particolarmente anti-britannico, soltanto raramente collegato allo sviluppo più propriamente scientifico del pensiero di Schmitt (soprattutto all’importantissimo tema dell’esaurimento della funzione politica dello Stato).
Così Luigi Vannutelli Rey sottolinea all’interno del saggio schmittiano Il Concetto d’Impero nel diritto internazionale[87] l’auspicio del crollo dell’impero britannico, in quanto fondato «non sul consolidamento di una normale e graduale espansione, ma sulla trama e sulla preservazione di una rete di comunicazioni tra parti diversissime [... ] ciò che porta alla pretesa del controllo marittimo universale»[88]; parallelamente a questo auspicio si pone in rilievo, tra l’altro, la necessità di una «redistribuzione territoriale» — secondo rapporti di «clientela» fra grandi e piccoli Stati — dei grandi spazi mondiali tra le potenze di primo piano (il che, salva la previsione della parte vincente, è poi realmente avvenuto). Il «pregio» di Schmitt starebbe dunque nella introduzione nel diritto internazionale del «triangolo sillogistico»: Grande Spazio, Impero, Esclusione dell’intervento per la potenza estranea, a definitivo superamento del concetto classico di Stato come unico detentore della sovranità, superamento tuttavia letto in chiave polemico-ideologica e non collegato con lo scientifico concetto schmittiano di «politico».
Più ampia e articolata si presenta invece l’appendice, alla stessa opera di Schmitt, firmata da Franco Pierandrei[89], che procura una disamina precisa e informata del pensiero politico e giuridico dell’autore tedesco, attraverso l’analisi delle sue principali opere. Dopo un’esposizione del concetto schmittiano di storia — quale risulta, secondo Pierandrei, dalla lettura di Teologia Politica e di L'Epoca delle Neutralizzazioni e delle Spoliticizzazioni — e della correlata analisi del tempo presente come «morte dallo Spirito» (ucciso dalla stessa concezione «tecnica» che ha fatto dello Stato la machina machinarum, puro strumento dell’amministrazione), Pierandrei mostra, attraverso l’esame di Politische Romantik, come Schmitt abbia individuato nel romanticismo quel germe negativo di «occasionalismo» che si riscontra anche nella inconsapevole neutralizzazione del mondo contemporaneo; a questa l’autore tedesco reagisce tramite il concetto di «decisione sovrana», cioè attraverso la riscoperta della politica come specifico destino dei moderni[90].
A questo punto, illustrate le critiche di Schmitt al liberalismo, Pierandrei passa ad esaminare la pubblicistica più specificamente nazista, dando conto delle polemiche sorte in Germania intorno alla pubblicazione di Staat, Bewegung, Volk, ed insistendo sul concetto di Ordnungsdenken, e sulle sue implicazioni giuridiche. Il saggio si conclude con una fedele esposizione dei concetti schmittiani relativi al diritto internazionale, soprattutto in relazione al superamento della forma statuale, e dell’implicito «decisionismo», a favore del concreto ordine imperiale dei grandi spazi.
Ma nonostante l’aperto riconoscimento di una lineare coerenza nell’opera schmittiana, il saggio di Pierandrei, che pure si presenta come una esposizione ragionata dei principali temi del pensiero di Schmitt, è tutto solcato e intersecato da osservazioni, obiezioni, critiche: già per quanto riguarda il concetto di storia dello Schmitt — centrato secondo Pierandrei, sulla tendenza dello spirito umano alla neutralizzazione dei conflitti[91] — l’autore italiano avanza l’ipotesi che questa ricostruzione «filosofica» della storia risulti in realtà l’applicazione di una legge di causalità a ritroso, mentre le susseguentisi neutralizzazioni potrebbero al contrario essere state determinate da ragioni più immediate e specifiche che non la tendenza dello Spirito sopra ricordata[92]. La lettura di Schmitt come di un «filosofo della Storia» è, come si è visto uno specifico portato delle critiche di Löwith, al quale Pierandrei si rifà direttamente nell’avanzare riserve sull’interpretazione schmittiana di Kierkegaard, e soprattutto nel riprendere la nota questione, se il contrasto amico/nemico sia «necessario» ovvero empiricamente determinato[93]; viene invece decisamente respinta l’accusa di opportunismo mossa da Löwith a Schmitt, affermando Pierandrei — come in precedenza aveva fatto Cantimori — che il passaggio dal decisionismo all’Ordnungsdenken è stato per Schmitt una necessità storica, che cioè l’autore tedesco col suo decisionismo aveva reagito alla situazione di Weimar senza possedere, per motivi puramente cronologici, quel saldo punto di appoggio che avrebbe poi necessariamente trovato nell’ordine nuovo nazista[94]; difesa che, come si vede, pur togliendo alle obiezioni di Löwith il carattere di attacco personale, appare piuttosto incerta, estremamente «datata», e sostanzialmente succube della metodologia di lettura di Löwith.
Ancora più deciso il distacco di Pierandrei da Schmitt per quanto riguarda i problemi giuridici, secondo una linea interpretativa propria della giurisprudenza italiana, legata, come si è detto, al concetto romanistico di persona e alla certezza del diritto: pur dando per scontata la condanna di liberalismo, normativismo, positivismo giuridico, Pierandrei solleva alcuni dubbi (del resto avanzati in parte anche da Schmitt) sulla ammissibilità di considerare la Volksgemeinschaft come la prima fonte dell’efficacia della norma, e afferma il valore centrale della certezza giuridica ai fini del rispetto della personalità individuale, rilevando come si possa dare anche un normativismo non astratto né infecondo[95], e rifiutando così implicitamente la soluzione data dallo Schmitt alla questione, soluzione consistente nell’identità razziale fra giurista, giudice e popolo[96]; e altre perplessità sono sollevate da Pierandrei in relazione al diritto internazionale, parendogli inesatta l’affermazione di Schmitt che i futuri rapporti tra Imperi sarebbero fondati non più sul decisionismo, come in passato avveniva fra gli Stati, ma su di una nuova forma di rapporto «concreto»[97].
L’interpretazione del Pierandrei, ricca, articolata, decisamente favorevole a quanto di brillante e di originale c’è nel pensiero schmittiano, risulta dunque pur sempre informata — al di là del plauso di circostanza al «patriottismo» dell’autore tedesco — a un cauto riserbo di fronte a parecchie posizioni decisive dello Schmitt, interpretate in modo da risultare troppo lontane e difformi dalla tradizione italiana[98].
Sempre nell’ambito degli studi di diritto internazionale, Riccardo Monaco dedica a Schmitt e a Triepel un breve saggio[99], in cui dà conto della produzione schmittiana in materia, avendo come fonte soprattutto Positionen und Begriffe, oltre che Il Concetto di Impero nel Diritto Internazionale. Anche presso questo autore è viva la preoccupazione per il mantenimento della specificità giuridica del diritto internazionale, di fronte alla trattazione esclusivamente «politica» che ne farebbe invece lo Schmitt, la cui «singolare impostazione dottrinale [... ] è ancora lungi dall’offrire una teoria giuridica dei fenomeni»[100]. Come il Pierandrei, anche il Monaco (e con ancora maggior vigore) difende dalle accuse di Schmitt (valutato un politico, e non un giurista[101]) il diritto internazionale, affermando la possibilità che questo venga interpretato in modo non formalistico ma concreto, con piena comprensione della vita sociale sottostante[102], e muove allo Schmitt l’accusa di voler elevare il puro fatto (la politica) a valore normativo.
Nell’ambito della ricca letteratura dedicata dagli studiosi italiani di diritto e di politica alla Germania nazista[103], una non piccola parte è naturalmente dedicata allo Schmitt, che non assume tuttavia rilievo straordinario, solitamente affiancato agli altri numerosi esponenti della giuspubblicistica tedesca di quegli anni. Non è certamente possibile, in questa sede, dar conto in forma articolata dell’atteggiamento tenuto dalla cultura italiana in generale e da quella giuridica in particolare nei riguardi del nazismo all’epoca fascista; ci si limita perciò ad accennare all’ampia ricerca di Carlo Lavagna[104] che, con grande ricchezza di informazione e con buona capacità analitica, ricostruisce in modo sistematico il complesso universo del coevo diritto pubblico tedesco, suddiviso in corrente «prammatista», Gierkische Reinassance, «nuova dommatica». Dopo importanti osservazioni sul rapporto popolo/diritto nel pensiero tedesco, sul carattere concreto e dinamico che si vuole attribuire al fatto giuridico — considerato da un punto di vista oscillante fra deontologia, fenomenologia, teleologia[105] —, Lavagna passa in rassegna, tra gli altri, il concetto politico schmittiano (assegnato alla corrente prammatista), di cui rileva il carattere anti-individualistico e anti-umanistico, oltre che i presupposti non-razionali e antinormativi[106].
La maggior parte delle pagine dedicate allo Schmitt trattano tuttavia il noto saggio schmittiano Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens[107], impegnandosi il Lavagna a mostrare l’importanza dell’Ordnungs- und Gestaltungsdenken — contrapposto a normativismo, decisionismo, positivismo — per la costruzione dell’ordine concreto nazista: con questo intento il giurista italiano analizza anche il concetto schmittiano di Stato.
Ciò che ci sembra più importante in questo lavoro è la minuzia con cui Lavagna separa e distingue le varie posizioni teoriche, spesso oscillanti, del pensiero giuridico nazista, il che gli permette una analisi articolata e differenziata e un giudizio non generalizzante sulla materia esaminata; così infatti, il pensiero di Schmitt, pur trovandosi «sul piano puramente programmatico, molto prossimo al pensiero riformatore dell’Höhn» (esponente della «nuova dommatica», cioè dell’ala estremistica dei giuristi nazisti, presso cui il concetto di Rechtsgemeinschaftè screditato a favore della Volksgemeinschaft), se ne distacca tuttavia «per il metodo e per le conclusioni. Il pensiero dello Schmitt, infatti, non si dirige preconcettualmente contro determinate categorie giuridiche fondamentali per sostituirle — come farà l’Höhn nei riguardi del concetto di Persona — ma tende esclusivamente ad una riforma di quelle categorie che si presti a una sana comprensione e a una razionale sistemazione, non solo di tutti i nuovi principi instaurati dalla Rivoluzione, ma della struttura stessa dello Stato nazionalsocialista»[108].
Ma nonostante questi «distinguo», la valutazione generale della produzione giuridica nazista è, come sempre, negativa, per la mancanza di «scientificità» degli autori tedeschi, per il loro incontrollato impulso a di struggere, insieme al positivismo e al purismo, anche «delle verità che sono al di sopra di queste stesse scuole». E anche se la critica dal punto di vista giuridico[109] (alla quale solo in parte si sottrae la Gierkische Renaissance) è bilanciata dal rispetto per la scelta umana e politica dei giuristi tedeschi[110], permane quella costante interpretativa che abbiamo ritrovato nella critica italiana, la contrapposizione, cioè, della classicità latina e romana alla «barbarie» germanica; e in questo giudizio viene completamente coinvolto (assai affrettatamente, in verità, poiché il suo vero problema sono le modalità dello stabilirsi e del mutarsi delle forme d’Ordine, problema dunque tutt’altro che «inquieto» o «irrazionale» o «barbarico») anche Schmitt.
Sostanzialmente sulla stessa linea è condotto anche l’intervento di Flavio Lopez de Oñate[111] che, riassumendo i termini della riflessione nazista sul diritto, vi scorge — insieme a suggestioni heideggeriane — una fondamentale matrice romantica, particolarmente evidente là dove si privilegia la Volksgemeinschaft rispetto alla Rechtsgemeinschaft (ma a questo proposito l'autore suggerisce di integrare le analisi consuete con l'apporto di Tönnies), e nella concezione strumentale del diritto, che in ambito tedesco sarebbe ridotto a puro strumento per garantire l’ordine politico[112].
Nel rilevare che questa posizione, in cui è conglobata quella di Schmitt, rappresenta la fine del «gigantesco e geniale sforzo hegeliano della costruzione di un’oggettività in cui la concretezza
acquistasse senso e valore di razionalità»[113], Lopez de Oñate riafferma «la trascendenza della norma rispetto alla società», di cui quella
è e deve essere la forma organizzativa[114] e contesta a Schmitt il diritto di richiamarsi alle posizioni istituzionalistiche di Santi
Romano, ben diverse da quelle irrazionalistico-organicistiche che sarebbero invece proprie dell’autore tedesco e del suo concepire la realtà come qualche cosa di fluido e di indefinito[115].
E neppure nell’ambito cattolico più coerente — quello neotomistico dell’Università del Sacro Cuore — Schmitt ha diversa fortuna, e anzi viene studiato da Francesco Olgiati[116] soltanto come uno dei più importanti fra quei teorici nazisti che distruggono concettualmente la nozione borghese-liberale di Stato di diritto. Così, attraverso
una diligente esposizione di alcune opere schmittiane (dal Begriff des Politischen a Der Führer schütz das Recht[117], un
campionario importante ma certamente riduttivo e in linea con le scelte tipiche di quegli anni), e situato Schmitt nella cultura giuridica tedesca secondo i suggerimenti del Lavagna,
l’«obiettività» dell’Olgiati appare chiaramente intenzionata a presentarlo come una delle tante e disparate voci che rappresentano la «moderna» perdita delle chiare certezze giuridiche che erano
invece proprie di S. Tommaso[118]. Ma con questo uso «strumentale» di Schmitt ci sembra che la cultura cattolica abbia perduto una buona
occasione per affrontare il grande tema giuridico-politico dello Stato secolarizzato e del suo Ordine, proprio attraverso un autore che, cattolico di fede e di formazione intellettuale, è forse —
lo ripetiamo — molto meno barbaro e irrequieto (e molto più «romano») di quanto la critica italiana di quegli anni abbia colto da letture parziali delle opere schmittiane.
VII. Complessivamente, le interpretazioni italiane di Carl Schmitt nel periodo pre-bellico si caratterizzano dunque per la stroncatura idealistica di larga parte dei filosofi (che per altro non paiono, nel complesso, essersi interessati gran che al pensiero schmittiano): accanto al rilievo della freddezza e della lucidità di Schmitt non manca mai (e a questo proposito, oltre alla generale temperie idealistica, incide non poco il saggio di Löwith) la critica della sua incompletezza di fronte ai classici problemi della filosofia della pratica e della politica; Schmitt viene collocato così limitativamente in un preciso ambito esistenziale e culturale, quello inquieto, barbarico, mitologico della Germania totalitaria (in contrasto con la pur riconosciuta «chiarezza» dell’autore, e seguendo quella che del suo pensiero si può definire una lectio facilior). Tale collocazione, che in quegli anni non è certamente imputata a colpa, fa tuttavia scattare la rivendicazione di tradizioni «italiane, cristiane, latine», che si sostanziano in una aperta contrapposizione culturale fra il fascismo più «accademico» — di tali tradizioni proclamatosi il custode e il potenziatore — e il nazismo (e Schmitt), visto come fenomeno di assai più radicali intendimenti (e proprio un certo radicalismo antiborghese e antiliberale detta le poche pagine di quasi incondizionato consenso a Schmitt, che viene dunque ridotto, anche dai suoi sostenitori di allora, al rango di brillante ideologo). Più emblematica, significativa e fruttuosa, anche se per certi aspetti più appartata e — allora — di minore risonanza, è, come si è visto, la vicenda di Cantimori, al quale Schmitt interessa essenzialmente come possibile viatico per la vagheggiata «terza via»[119] (il sogno di una generazione di giovani intellettuali fascisti, poi passati su posizioni di antifascismo); l’interesse per Schmitt ha poi seguito la stessa parabola di quel sogno giovanile, con tutte le conseguenze del caso.
Per certi aspetti analoga a quella, «filosofica» è la situazione sul versante giuridico: qui opera potentemente la Verfassungslehre, salutare correttivo al normativismo positivistico, accolta con entusiasmo dai più giovani costituzionalisti che, sulla linea dell’insegnamento di Santi Romano, scoprono con interesse scientifico (e forse con qualche perplessità) la rilevanza della politica come problematico fondamento della stessa realtà giuridica; e questa forte influenza di pensiero schmittiano continua costante, nel dopoguerra, in Mortati e nella sua scuola.
Molte e gravi restano tuttavia le obiezioni che in questi anni si muovono a Schmitt, teorico dell’Ordnungsdenken e del Führerprinzip, come in generale a tutto il pensiero giuridico nazista (nel quale Schmitt viene — a torto o a ragione — integralmente inserito), troppo difforme da quello italiano per poter essere adeguatamente valutato. Gioca qui anche, probabilmente, e a livello di non ancora raggiunta consapevolezza, la difficoltà a definire giuridicamente il nazismo (difficoltà, del resto, di cui i noti attacchi che Schmitt dovette subire da parte degli ambienti «puri» del regime sono una notevole testimonianza), stante quella che in seguito verrà chiarita come assoluta incompatibilità tra il fenomeno del totalitarismo e qualsivoglia determinazione giuridica[120]. Tale difficoltà, che non esiste se non molto attenuata per il fascismo italiano, costituisce così per alcuni materia di riflessione scientifica e politica e implica, tra l’altro, un deciso rifiuto di quella parte del pensiero giuridico schmittiano che più gravemente sembra ledere il principio della certezza del diritto: per strano che possa sembrare, anche in questi anni pesa dunque in misura determinante sulla fortuna di Schmitt in Italia la circostanza (non secondaria, in verità, per una comprensione reale del pensiero schmittiano) del suo impegno politico a favore del nazismo.
VIII. Una brusca frattura è riscontrabile nell’interesse della cultura italiana verso Schmitt dopo il 1943: da questa data, infatti, e per quasi trent’anni, non soltanto non si traduce più nulla (né si ristampano i due libri apparsi in Italia nel periodo pre-bellico), ma si assiste anche a un silenzio pressoché completo della critica[121]; solo negli anni Settanta si torna a una certa attenzione, sia di traduzioni che di interventi critico-interpretativi. Eppure il nome e l’opera di Schmitt non restano certamente ignoti, almeno nell’ambito specialistico dei giuristi e dei filosofi del diritto: le ragioni di questa lunghissima quarantena saranno forse da rintracciare, più che in una operazione deliberata di esorcismo e di prudente distanziamento da un nome tanto compromesso (motivazione che tuttavia non può non aver giocato un ruolo di una qualche importanza), nel fatto che anche nel periodo pre-bellico l’interesse sollevato da Schmitt era stato ben scarso, quasi del tutto legato a ragioni di contingenza politica, e che insomma i problemi teorici agitati da Schmitt non erano davvero presenti nella cultura italiana.
Quanto su questa relativa sordità abbia pesato l’idealismo gentiliano e crociano, abbiamo detto in precedenza; ma né la crisi generale dell’idealismo esplosa nel dopoguerra, né l’affermarsi dell’esistenzialismo prima e del marxismo poi (nonostante gli interventi di Lukács e di Marcuse[122], di larghissima divulgazione), hanno per lungo tempo sollecitato un particolare interesse per Schmitt: conosciuto per ragioni d’ufficio dagli studiosi di storia delle dottrine politiche e dai filosofi, il pensatore tedesco è rimasto per lunghi anni irrimediabilmente out, accostabile soltanto con una lunga e poderosa serie di pregiudizi e di cautele, prigioniero di una tradizione altamente sfavorevole. Il «caso Schmitt» appariva chiuso e archiviato, né si vedeva la necessità di riaprire l’istruttoria per supplementi d’indagine.
Assai significativo di questa situazione, per cui Schmitt appare un pensatore «marginale» (ed «emarginato») anche quando il dibattito culturale verte su problematiche assai prossime a quelle schmittiane (tanto che un esplicito riferimento parrebbe inevitabile), è il I Simposio di Filosofia della politica, sul tema «Tradizione e novità della Filosofia della politica», tenuto a Bari nel maggio 1970. In questo contesto, una relazione di Sergio Cotta[123] offre una tematizzazione esistenzialistica del rapporto politica-diritto, due fenomeni interpretati come «linee divergenti» da un unico punto nodale: la correlazione ontico/ontologico. Centro di tale correlazione è, sul piano ontologico, l’essere-in-comunicazione del soggetto, mentre su quello ontico tale «comunicazione» viene ricondotta alla «coppia fondamentale» amicizia/inimicizia, sia nella dimensione interpersonale che in quella associativa (cioè appunto la politica e il diritto). L’analisi di Cotta pone così in evidenza una dialettica intrinseca alla polis (secondo il concetto schmittiano), e da questa ineliminabile, collegando tale dialettica da una parte alla struttura ontologica del soggetto, dall’altra allo scontro di diverse e contrastanti morali, unadelle quali è quella specificamente politica[124].
La dipendenza da Schmitt appare evidentissima, anche in considerazione del contesto esistenzialistico e cattolico che molti critici (Löwith, Dallmayr, Niekisch[125], ma anche Marcuse e Lukács) ritengono indispensabile per interpretare il pensiero schmittiano: a nostro avviso, tuttavia, l’assunzione di Schmitt all’interno di una analisi «filosofica» e sistematica, lo spostamento a un livello antropologico di quel concetto amico/nemico formulato per interpretare la politica in termini esplicitamente non soggettivi, non sono procedimenti pienamente legittimi (almeno in sede filologica, ma va ricordato che Cotta non ha questa intenzione), anche se attraverso di essi si giunge a conclusioni assai interessanti, come quella che la dialettica «ontica» amicizia/inimicizia è sempre presente, con entrambi i suoi estremi, all’interno di ogni fatto politico.
Ora, qui interessa notare innanzi tutto che la lettura di Schmitt appare libera da censure ideologiche; in secondo luogo meritano qualche attenzione alcune reazioni — nello stesso Simposio barese — alla relazione di Cotta, poiché sono la spia del particolare rapporto con Schmitt di buona parte della cultura politica italiana.
Alessandro Passerin d’Entreves[126] rileva infatti nell’intervento di Cotta una polemica anti-illuministica fondata sul «pessimismo» (di origine cattolica), e si dichiara «insospettito» dall’antitesi amico/nemico perché, oltre a non essere esaustiva del fatto politico, è di origine schmittiana e pertanto compromessa con il nazismo; sottolineando così, ancora una volta, la situazione di ostracismo in cui si trova Schmitt.
Nella stessa circostanza, e in forma più articolata, Biagio De Giovanni[127] anticipa a Cotta un’obiezione che molta critica marxista muoverà poi a Schmitt, che cioè la dialettica amico/nemico è «generica», priva di ogni correlato storico, ideologica, e pertanto pronta «a uno specifico riassorbimento acritico dell’empiria storica così come si presenta», in un contesto generale «naturalistico-volontaristico». È dunque chiaro che De Giovanni trova Schmitt insufficiente al compito che (per la sua lettura althusseriana di Marx e di Hegel[128]) egli reputa invece proprio della filosofia politica, cioè la «riflessione sul modo concreto in cui una struttura determinata si presenta come struttura articolata».
Fino al 1970, dunque, l’interpretazione di Schmitt, almeno nelle correnti culturali rappresentate al Simposio barese (e con la parziale eccezione di Cotta, che appare però un caso isolato), continua a essere quella di «ideologo nazista», in quanto tale inutilizzabile a livello scientifico, oltre che politicamente impresentabile.
Né molto migliore è la sorte assegnata a Schmitt in alcune opere di carattere generale sul pensiero politico e filosofico (con la parziale eccezione dell’Enciclopedia Filosoficaacura del Centro di Studi filosofici di Gallarate, per la quale Alessandro Giuliani firma la voce Schmitt, abbastanza ampia ed informata, anche se critica nei confronti di un preteso «positivismo» di Schmitt, che ridurrebbe il diritto al fatto politico[129]), nelle quali l’autore tedesco trova spazio pressoché soltanto come esponente del totalitarismo nazista (e la fonte è quasi sempre soltanto I Principii politici del 1935), con una valutazione «ideologica» che si conferma la tendenza dominante della nostra critica.
Resta invece costante, in questo periodo, l’interesse dei giuristi per Schmitt, con la significativa circostanza che l’autore tedesco ha ormai conquistato la posizione ed il ruolo di un «classico», almeno per quanto riguarda il diritto pubblico e costituzionale. Così, più che di «scoperte» (quale fu quella di Mortati nel 1940), si deve parlare, in questi anni, di una ormai scontata «sistemazione» del pensiero giuridico schmittiano all’interno di precisi apparati concettuali e di specifici nodi problematici. Tale situazione è evidente soprattutto nelle grandi opere generali, e particolarmente nel Novissimo Digesto enell’Enciclopedia del Diritto.
Nella prima di queste opere l’incidenza di Schmitt è abbastanza evidente in alcune voci, nelle quali gli interventi schmittiani sugli specifici argomenti vengono direttamente menzionati[130]; e la voce Stato d’Assedio[131] prende ancor più ampiamente in esame il tentativo di Schmitt di sganciare l’Ausnahmezustand dai singoli diritti positivi, per farne un concetto di teoria generale dello Stato. È poi presente una breve voce redazionale dedicata specificamente a Schmitt[132] (fatto eccezionale, poiché neppure l’Enciclopedia Italianala riporta, mentre nel Dizionario Enciclopedico Treccani il lemma si presenta brevissimo e di carattere esclusivamente biografico), nella quale l’autore tedesco viene definito «suggestivo e contrastato costituzionalista», fondatore dell’indirizzo decisionistico, e vien fatta menzione delle sue teorie attorno ai concetti di costituzione, sovranità, dittatura, parlamentarismo, politica, Stato totalitario, Grossraumordnung, capo dello Stato, caso limite. E tuttavia significativo che l’ultima opera italiana su Schmitt citata in bibliografia sia il saggio di Pierandrei del 1941.
Nell’Enciclopedia del Diritto ampio spazio è dedicato a Schmitt (oltre a vari accenni negli articoli Libertà, Istituzione, Governo di fatto, Diritto costituzionale, Necessità-diritto pubblico[133]) sotto la voce Costituzione[134] che porta la firma prestigiosa di Mortati; al giurista tedesco viene ascritto il merito di aver dato rilievo all’esigenza di trovare il fondamento politico della costituzione, pur restando ferme le ormai classiche riserve di Mortati per quanto riguarda l'indeterminatezza di Schmitt nell’individuare il soggetto della decisione politica ed il suo contenuto, oltre che nello spiegare la continuità d’azione dello Stato.
A questo articolo di Mortati, che presenta anche una breve sintesi dell’operatività e della ricezione del pensiero schmittiano presso la cultura giuridica italiana, si aggiunge, alla voce Dittatura di Giovanni Sartori[135], una valutazione più critica delle tesi di Schmitt, a ulteriore riprova della problematicità della sua influenza in Italia. Afferma infatti Sartori che La Dittatura testimonia delle difficoltà che incontrano i giuristi nel muoversi sul terreno di questo concetto, raggiungibile attraverso il diritto, ma non più per la stessa via abbandonabile. La «dittatura sovrana» di Schmitt si rivelerebbe così un puro momento di forza, una manipolazione del diritto positivo esistente con l’inattuabile pretesa di crearne uno nuovo.
Nonostante un interesse abbastanza costante[136] che salda per certi aspetti la frattura trentennale apertasi al livello delle interpretazioni storico-politiche, l’attenzione dei giuristi italiani per Schmitt si presenta nel dopoguerra priva di particolari approfondimenti monografici, anche se nella sua Storia della Filosofia del Diritto uno studioso liberale, Guido Fassò[137], dà rilievo, nell’ambito delle «teorie giuridiche dei regimi totalitari», alla figura di Carl Schmitt — considerato il più importante teorico giuridico, e non soltanto giuridico, del nazismo —, rilevando anche, sia pure di sfuggita, un possibile rapporto di Schmitt con Nietzsche. ÈE caratteristico del coerente liberalismo del Fassò che egli veda in Schmitt l’acerbo avversario del giuspositivismo, per sottolineare che non a questo (che pure per altri motivi non va esente da critiche[138]) è da imputarsi la legalizzazione della dittatura hitleriana, dato che proprio contro il positivismo giuridico — visto come docile strumento del liberalismo — si scagliò più aspra la polemica dei nazisti, e di Schmitt in particolare. Di quest’ultimo Fassò ricostruisce brevemente — ma con sicurezza — il curriculum di filosofo del diritto, attraverso l’esposizione delle opere principali, con particolare attenzione allo spostamento dal decisionismo (Verfassungslehre) all’Ordungsdenken (Über die drei Arten...), spostamento che rivela e accentua quella che secondo Fassò è la costante del pensiero schmittiano: il diritto della forza. Tale caratteristica rimarrebbe immutata anche in seguito alla revisione operata da Schmitt al suo concetto di ‘politico’ con il saggio Der Nomos der Erde, dato che la «ripartizione dello spazio» indicata dal termine Nomosriproporrebbe appunto l’equazione di forza e diritto[139]. (Fassò sfiora qui un concetto che non ci sembra altri abbia svolto in Italia: la decisiva importanza, nello sviluppo del pensiero schmittiano, del periodo nazista, non certo per l’immediato contenuto ideologico, quanto per lo spostamento — che in quel periodo si attua, anche se palese solo a tratti — dell'interesse di Schmitt dalla «classica» politica statuale a una geopolitica dei grandi spazi, nuovo territorio di applicazione del «politico», che diviene così concretamente la ratio della appropriazione, divisione, distribuzionedella terra, cioè la lotta per stabilire e spostare le linee d'amicizia e d'inimicizia che si intersecano nel mondo. È forse una delle maggiori «astuzie» schmittiane questa operazione di revisione e di copertura di temi nati nel suo periodo nazista, e ritradotti in termini di obiettiva e neutrale descrizione di un processo; ma è anche — di nuovo — il segno della necessità di separare, all'interno di quel periodo, la sua adesione personale al regime dal consequenziario svolgimento logico del suo pensiero).
IX. Bisogna attendere fino al 1972, con la traduzione delle Categorie del «Politico», perché si verifichi in Italia, se non proprio una Carl Schmitts Renaissance, certamente un notevole interesse e una nutrita serie di interpretazioni volte a ritessere le trame di una consuetudine da tempo perduta col pensiero schmittiano. Nell'ambito di questa nuova presa di contatto della cultura italiana con Schmitt (parallela a una traduzione francese che sta mobilitando anche i critici d'oltralpe[140]) si possono distinguere interventi di semplice presentazione giornalistica[141] da altri più ampi e meditati, che tentano la definizione e il giudizio globale: noi ci occupiamo soltanto di questi ultimi, per enucleare — se esistono — alcune costanti interpretative, e per instaurare così un parallelo fra la lettura di anteguerra e quella contemporanea, parallelo che può forse dire qualche cosa sulla nostra cultura filosofico-politica.
Una circostanza che ha molto pesato sulla fortuna italiana delle Categorie del «Politico» è la Presentazione che ne ha fatto Gianfranco Miglio[142]: in essa — a nostro avviso il più alto esempio italiano di comprensione di Schmitt — per la prima volta ci si libera compiutamente dai pregiudizi di una lettura attenta soltanto agli aspetti «ideologici» e «filosofici» del suo pensiero, e si procede ad una valutazione «scientifica», privilegiando l'aspetto «conoscitivo».
Secondo questa linea di tendenza, Miglio mette in rilievo come siano in fondo due i problemi intorno a cui si è affaticato per sessant'anni «il gran vecchio della politologia europea»: il rapporto fra diritto e potenza, e quello fra Stato e politica, problemi che per il loro stesso sussistere e permanere dimostrano che lo sforzo schmittiano di «conciliare la teoria giuridica dello Stato con la comprensione scientifica della politica»[143] non è certamente concluso. Ma «la scoperta veramente copernicana delle categorie del politico» — formalizzata nella sua corretta funzione metodologica ed epistemologica: «ovunque c'è politica, là s'incontra l'antitesi amico/nemico»[144] — pur necessitando, secondo Miglio, di integrazioni sulla linea del rapporto con l'obbligazione giuridica, si rivela un nuovo punto di partenza per l'esplorazione di un nuovo continente, una verità ancora «parziale», ma paragonabile a quelle di Tucidide, Machiavelli, Bodin, Hobbes, Mosca, Pareto, Tönnies, Weber[145]. Schmitt appare dunque non un ideologo, né un dottrinario, ma un grande scienziato che vive con attenzione e umiltà la crisi del Jus Publicum Europaeum — è di quella struttura che aveva permesso la coesistenza «ragionevole» di diritto e politica —, e che proprio da questa crisi muove alla ricerca del filo conduttore che possa spiegare il fenomeno della politica, sia nella storia (cioè nel suo rapporto con lo Stato moderno), sia nel presente (cioè in una situazione non giuridico-statale, ma di pura ostilità «partigiana»).
Miglio aderisce dunque alla richiesta di Schmitt, che alla sua opera venga riconosciuto carattere scientifico e avalutativo (ma non certamente «quantitativo», sul modello anglosassone), tanto che si riferisce a essa come a un'ipotesi, di cui «gigantesco esplodere nell'ultimo decennio della conflittualità... ha fatto salire vertiginosamente il grado di possibilità»[146]. Non più dunque la «sostanzialità» — esistenziale e tragica — di cui parlava Löwith, non più l'accusa idealistica di empirismo e di carenza di fronte all'Atto puro, allo Stato etico, alla filosofia della storia o dei «distinti», non più la sospettosa valutazione di estraneità; ma uno Schmitt letto come lo scienziato che cerca il punto di vista metodologico più atto a spiegare un fenomeno, e che si foggia a questo scopo uno strumento originale, un nuovo «criterio» di conoscenza, problematico e aperto, e magari inquietante per ciò che scopre; uno scienziato che non si ritrae dal suo oggetto, ma che anzi lo pensa fino in fondo, fino allo scandalo delle conseguenze estreme; e che proprio per questo è accusato — da chi vuole cercare in Schmitt ciò che Schmitt non vuole dare — di «distruzione della ragione», di empirismo, nichilismo, romanticismo e — accusa che deve costringere al silenzio — di nazismo.
Ora, è sintomatico che Miglio abbia completamente ignorato il problema dell'ideologia schmittiana, e che sia anzi pressoché l'unico ad accettare, almeno parzialmente, la tarda correzione del 'concetto' in «categoria», a sottolinearne la valenza conoscitivo-metodologica (resta tuttavia aperto il problema dello Schmitt compromesso con il nazismo: come e perché una cesura sia a questo possibile e doverosa, Miglio non indica esplicitamente, pur fornendo elementi atti allo scopo; ma su ciò si forniranno in seguito ipotesi di lavoro nostre).
Questa lettura di Schmitt suggerita da Miglio con tanta sicurezza e libertà rispetto alla nostra tradizione interpretativa (che non è mai citata o presa in considerazione) sgombra il campo da molti vecchi problemi ermeneutici, ma ne solleva altri (non solo quello accennato dalla cesura, ma anche quello della valutazione dei rapporti possibili fra livello scientifico-politologicoedimensione più propriamente filosofica nel pensiero di Schmitt, in relazione soprattutto alla crisi della nozione di «continuità» della storia, al rapporto critica/crisi, alla struttura del dominio), che solo in parte sono stati colti e sviluppati dai commentatori italiani, più spesso (con l'eccezione del marxismo «operaistico», che tuttavia si muove in completa indipendenza dall'ipotesi di Miglio) attestati su posizioni di tradizionale diffidenza.
X. Costituisce al contrario un caso a sé stante l'intervento schmittiano di Costantino Mortati[147], il quale — in linea con una più che trentennale attenzione scientifica — vuole far emergere dai testi di Schmitt soprattutto la sintesi di politica e diritto, nella forma di un pensiero «ordinativo» e «istituzionale». Limitato l'antico decisionismo schmittiano al puro momento costituente dello Stato, (secondo quanto già espresso in La Costituzione in senso materiale), indicata la preminenza del rapporto autorità/subordinazione su quello amico/nemico — che di quello è soltanto il momento di crisi estrema, nel venir meno dell'omogeneità politico/sociale che è alla base di ogni ordinamento statuale —, Mortati pare disposto ad accogliere assai ampiamente la fondamentale tesi schmittiana che «la considerazione del sistema normativo non possa isolarsi da quella della società a esso sottostante»[148], vedendo anzi in Schmitt un deciso passo avanti rispetto alla posizione di Santi Romano, per la costante consapevolezza del tedesco che «il sistema legale, appunto perché strumentale rispetto ai fini con esso perseguiti non riesce a raccogliere in sé la disciplina della complessiva attività statale perché non possono non prevalere su tale disciplina i valori che vi sottostanno»[149].
L'omogeneità che Schmitt vede necessaria per lo Stato moderno appare quindi essa stessa politica, e non neutrale, come altri hanno invece creduto di interpretare: è la «costituzione in senso materiale», fondata sul rapporto supremazia/soggezione come rapporto politico/giuridico (e qui Mortati si differenzia, come è noto, da Schmitt, in ordine alla pretesa «purezza» del concetto di «politico», per il giurista italiano inammissibile). Ma il risultato più importante dell'interpretazione che Mortati dà di Schmitt ci sembra essere questa: che lo Stato (anche quello liberale) ha per Schmitt al suo interno una chiara qualificazione politica di fatto, proprio nello stabilire e nel delimitare un'area neutrale di consenso, poiché questo è deciso sovranamente da un'istanza supremamente politica: così, anche se in certi casi la neutralizzazione ha istituito un sistema la cui politicità non è più riconoscibile dall'interno del sistema stesso, resta vero che l'omogeneità su cui lo Stato si fonda ha immanente una crisi, il cui esplodere ripropone — spostato — il problema del punto di riferimento (Mortati accenna, per spiegare Schmitt, al marxiano «rovesciamento della prassi»[150] con felicissima intuizione, poiché quel processo che è marxianamente interpretato come «rivoluzione» è per Schmitt il puro fatto politico dello spostarsi del centro di riferimento in una crisi strutturale di un sistema, mentre per Mortati è infine l'oggetto specifico dello studio giuridico/politico della costituzione materiale).
Mortati riconosce così che Schmitt ha formulato un'ipotesi scientifica di altissimo livello, capace di spiegare la forma generale (e, si presume, le determinazioni storiche) del più profondo principio di organizzazione statuale, ipotesi che in linea di massima non è subalterna ad alcuna ideologia, ma che è in grado di comprendere — sterili lamentazioni sulla fine dello Stato di diritto — anche la crisi attuale dello Stato europeo, in bilico fra liberalismo e socialismo e incapace di decidersi per un omogeneo ordinamento costituzionale (che ponga fine alla divisione della sovranità fra proprietà privata dei mezzi di produzione da una parte e popolo dall'altra)[151].
E anche l'apertura polemica contro Miglio non ci pare certamente coinvolgere questo aspetto dell'interpretazione di Schmitt, quanto piuttosto il problema della distanza fra diritto e politica, distanza secondo Miglio molto accentuata e costituente il vero problema centrale di tutto il pensiero schmittiano, mentre evidentemente secondo Mortati essa viene superata nel concreto ordinamento della costituzione materiale, analogo al pensiero organico/istituzionale di Schmitt: quest'aspetto del suo pensiero giuridico va oltre il passato decisionismo (a cui è invece collegato il concetto di amico/nemico e la pretesa di purezza del 'politico'), ed è in grado, secondo Mortati, di spiegare anche situazioni di crisi come la presente senza che sia necessario riferirsi, come invece fa Miglio (che privilegia, almeno nella Presentazione, Schmitt decisionista del 'concetto'), a una perenne e insanabile frattura fra politica e diritto[152]. Anzi, è proprio di fronte alla sfida proposta dalla crisi contemporanea dello Stato che la scienza giuridico-politica può dimostrare la sua euristicità, anche superando certe remore di Schmitt o dei suoi discepoli (soprattutto W. Weber e Forsthoff), e può proporsi come fatto politico e scientifico insieme, indagine cosciente e razionale sulle complesse dinamiche che regolano il passaggio da uno statuspolitico a un altro, strumento critico di controllo di una crisi.
Ancora una volta, dunque, Schmitt si ripropone nella lunga attività teorica di Mortati, come termine centrale di discussione e di confronto, occasione per una precisazione e un approfondimento delle più importanti problematiche del pensiero politico e costituzionale; e, secondo noi, in questo ultimo saggio Mortati manifesta rispetto al pensiero schmittiano un favore teorico forse più alto e completo di quanto non fosse avvenuto in passato[153] (ferme restando le ormai classiche riserve sul rapporto amico/nemico), quasi a indicare alla cultura italiana un nodo obbligato da affrontare e da sciogliere.
XI. E tale urgenza sembra prontamente recepita da Francesco Mercadante che, spinto da un animoso intento di fare definitivamente i conti con Schmitt, gli dedica il saggio forse più lungo, informato, appassionato di tutta la bibliografia italiana. [154] Il complesso e articolato intervento — orientato da una definizione apodittica iniziale (che deriva da Löwith e da Laufer) di Carl Schmitt come di un «dottrinario» che «pronuncia giudizi di valore e sa di farlo»[155] — può essere, per comodità espositiva, raggruppato attorno a due fuochi polemici: il primo è il dibattito Kelsen-Schmitt, e la conseguente esposizione-confutazione del pensiero schmittiano più propriamente antidemocratico e antiparlamentare; il secondo consiste invece in un'ampia analisi critica del concetto di «politico», con particolare attenzione a quelli che Mercadante — coerentemente con la sua posizione iniziale — ritiene i punti deboli — perché «ideologici» — di tale concetto.
Diffidente seguendo Maus, verso la Carl Schmitts Selbstverständnis, Mercadante non vuole vedere sostanziale differenza tra il primitivo concettoe il tardo criterio del «politico», proponendo così una linea di sostanziale omogeneità fra lo Schmitt anteguerra e quello del dopoguerra, con la sola variante di una prudenza senile, rivelata da un linguaggio volutamente vago, non denotante il «nemico» se non per metafora[156]. Non «scientificità» dunque, ma pensiero dottrinariamente polemico e valutativo; questa è la caratteristica di Schmitt, la cui lettura è tuttavia necessaria — sostiene Mercadante — per la cultura italiana, che non lo conobbe a fondo neppure ai tempi del fascismo[157]. Scopo di questa lettura — ancora una volta «strumentale», anche se con segno diverso da quello marxista — è di non lasciare a Schmitt il monopolio della difesa della democrazia reale (come invece accade a Kelsen, che contrappone a Schmitt l'esangue concetto di finzione democratica[158]), e di togliere il veleno dalle sue accuse contro la democrazia occidentale (non omogenea né plebiscitaria come quella schmittiana), dimostrando la contraddittorietà di quel concetto di «politico» a partire dal quale esse vengono formulate.
Poiché non si deve temere che la verità scavi la fossa alla democrazia, afferma Mercadante, le accuse schmittiane al «compromesso quotidiano», alle «compatibilità illimitate», alla degenerazione «totalitaria» della democrazia, allo svuotamento del Parlamento, vanno affrontate di petto: emergerà allora che l'assolutismo decisionistico e volontaristico cui fa riferimento Schmitt, la sua nozione di omogeneità «sostanziale», non sono altro che il corto-circuito di quel processo di mediazione sociale che le democrazie sopportano quotidianamente come «amministrazione» e non come ordine gerarchico[159]: il che, se da una parte induce a criticare l'esiguità della base democratica delle cosiddette società libere, dall'altra permette di rilevare la contraddittorietà del pensiero schmittiano (almeno su questo punto), che contrabbanda, dietro la mistica del Führer, quello stesso complesso di difformi interessi sociali che critica tanto aspramente quando sono dispiegati nel sistema di mediazioni democratiche[160].
D'altra parte lo stesso Schmitt si contraddice in relazione alla valutazione della Machtergreifung hitleriana: da un lato, infatti, questa è salutare, ai tempi della vittoriosa affermazione, come rivoluzionaria instaurazione di una triplice «costituzione» (Stato, Movimento, Popolo), superante sia il dualismo del II Reich (borghese/soldato) sia il pluralismo di Weimar, sia lo Stato prussiano di funzionari di hegeliana memoria; dall'altra è giustificata, al «processo dei giuristi» a Norimberga (nel quale tuttavia Schmitt fu assolto in istruttoria con un «non luogo a procedere»), proprio in nome della weberiana continuità amministrativa della burocrazia, il cui modo di funzionamento è la legalità, che diviene anche fonte della legittimità[161]. Non è dunque lo Schmitt storicamente impegnato nella politica contingente quello che più interessa Mercadante, quanto piuttosto il critico del «pluralismo» e delle «compatibilità illimitate», il profondo indagatore dei problemi delle democrazie e del parlamentarismo, valutato più acuto teorico del concetto amico/nemico[162].
Attraverso una vasta dottrina e con ampiezza notevolissima di riferimenti bibliografici, Mercadante riesce a stringere in un quadro unitario i concetti principali delle più significative interpretazioni di Schmitt: da tutto questo complesso di motivi critici, giunge poi a una conclusione cui era già pervenuto Mortati, che cioè il rapporto amico/nemico non spiega l'associarsi politico degli uomini, consumato su diverse basi di coesione, come ad esempio il rapporto giuridico di sottomissione[163].
L'obbligazione giuridica, insomma (e lo studio del mutare di questa in relazione al mutato centro di riferimento politico è appunto una delle integrazioni suggerite anche da Miglio al 'concetto' schmittiano), e il concreto potere a essa collegato, non sono spiegati da Schmitt: il suo concetto amico/nemico è definito da Mercadante intuitivo, incapace di fondare il principio della convivenza umana, confuso e mescolato con altri da cui vorrebbe invece rendersi indipendente, segno di un regresso verso il totale «rimbarbarimento»[164], vero filo conduttore — mai mutato o rinnegato — che spiega tutta la carriera di Schmitt e le sue oscillazioni politiche (ma Mercadante rimprovera a Löwith l'eccessiva insistenza sull'aspetto di calcolo cosciente dell'occasionalismo schmittiano)[165].
Una certa simpatia per l'autore e il convinto apprezzamento per alcune sue clamorose intuizioni, non portano tuttavia Mercadante ad accettarne in toto lavalidità scientifica; anzi, contro la constatazione di Miglio di una clamorosa conferma nella storia contemporanea del 'concetto' schmittiano, Mercadante polemizza a lungo, convinto che l'equilibrio del terrore atomico sia stato introiettato dai popoli in forma di coerente e sicura volontà di pace[166]. E anche nel suo ultimo saggio di argomento schmittiano[167] Mercadante, pur riconoscendo a Schmitt vari meriti, fra cui quello di aver restituito al XX secolo un Hobbes di vibrante modernità, ne limita la portata teorica alla critica del parlamentarismo, seguendo l'analisi di Petta[168]. Ritrovati nel concetto amico/nemico elementi di escatologia cattolica e di «genealogia» nietzschiana, Mercadante - seguitando il parallelo con Hobbes, già istituito nel saggio precedente - situa Schmitt prima della «ragione» e della «protezione» che il sovrano assoluto sa instaurare[169], e conferma l'ipotesi di uno Schmitt tale da influenzare — anche nascostamente — gran parte della cultura europea (contro la svalutazione operata da Lukács), anche Glucksmann e i Noveaux Philosophes. Quello infatti sarebbe in sintonia con Schmitt nell'affermare che potere ed esclusionefanno la storia, questi invece nel sostituire alla hegeliana «dialettica del Tre» lo scontro politico «a Due»[170].
Schmitt resta in ogni caso per Mercadante un importante metro di confronto per la comprensione del mondo politico contemporaneo, ma molto più come critico della crisi europea (nella quale è drammaticamente coinvolto) che come asettico scienziato politico: infatti, anche il nuovo discorso sulla guerra, o 'politico' numero due, è la Teoria del Partigiano, sembraa Mercadante smentita da alcuni importanti sviluppi strategici degli ultimi anni, come la crisi di Cuba o la guerra del Vietnam[171]. Una lettura di Schmitt, nel suo complesso articolarsi che, pur sollevando qualche perplessità, è senza dubbio fra le più libere e spregiudicate della tradizione italiana.
XII. I rapporti del nostro marxismo con il pensiero schmittiano sono stati tradizionalmente scarsi e segnati dai durissimi giudizi di Lukács: un debolissimo interesse per le specifiche problematiche sollevate da Schmitt e un generale ritardo sui temi strettamente politici, ritardano così al 1973 il primo intervento organico di scuola marxista[172], ad opera di Angelo Bolaffi[173]. Solo in seguito, come si vedrà, per circostanze teoriche e pratiche notevolmente mutate, Schmitt verrà più ampiamente considerato e utilizzato.
Emblematico dell'approccio più tradizionale è il saggio di Bolaffi, che muove a Schmitt un'obiezione implicita nella nozione stessa di marxismo come critica «dell'economia politica»: il concetto del 'politico' proposto da Schmitt non è «scientifico» poiché non sviluppa il nodo dialettico della «cosa stessa», cioè della forma di produzione economica. La «superficialità» schmittiana — lungi dal consentire una posizione autonoma rispetto al «monopolio marxista»dell'interpretazione della storia, come si proponeva l'autore[174] — rivela Schmitt subalterno (in quanto incapace di coglierlo nell'unico punto veramente decisivo, cioè nella struttura economica di classe) di quel mondo liberale e borghese di cui pretende di essere il critico inesorabile.
La critica da destra al liberalismo è dunque subalterna al capitalismo[175], nonostante il pathos della «decisione» che si contrappone alla «debolezza» della «discussione» borghese: incapace di concepire lo sviluppo storico dialettico, Schmitt appiattisce la complessità della realtà nella dimensione astorica e naturalistica dell'ideologia[176], e fallisce così, secondo Bolaffi, sia sul piano storico (sostanziale subalternità al sistema capitalistico), sia su quello logico: infatti una vera «teoria critica» non deve tanto fondarsi sulla schmittiana contrapposizione di normale e di eccezionale, quanto — mondanamente — su quella di generico e di tipico[177]; allo stesso modo, l'analisi dei rapporti politici non procede in Schmitt da una anatomia della società civile che ne riveli la struttura di classe, quanto piuttosto «l'autore formalizza e destoricizza i rapporti umani, regredendo dal concetto di "classe sociale" a quello naturalistico e metastorico di amico-nemico»[178]. E come il liberalismo ideologicamente considera gli uomini uguali tra loro dal punto di vista del diritto astratto, così Schmitt neutralizza le reali divergenze di classe nell'omogeneità istintuale e naturale di una antropologia negativa e pessimistica, in cui ciascun uomo appare in lotta contro l'altro[179].
La spiegazione del «caso Schmitt» sta dunque, per Bolaffi, non in un'inesistente autonomia del suo pensiero, ma sì nella generale crisi post-bellica della Germania di Weimar e del mondo capitalistico in generale, stretto fra l'attacco socialista e la necessità di una ristrutturazione più razionale dei suoi procedimenti (lo Stato-piano): in questa situazione non è tanto Kelsen quanto Schmitt a fornire lo strumento ideologico adatto a normalizzare una situazione anormale, e ciò proprio attraverso il disprezzo e il rifiuto della stessa legalità borghese, strumento di controllo sociale ormai obsoleto; il fine ultimo di Schmitt e del fascismo — col quale viene pienamente identificato — non è dunque più il dominio liberale dell'uomo sull'uomo (mascherato in dominio della «Cosa» sull'uomo, del capitale morto su quello vivo — feticismo —), ma chiaramente il diretto dominio politico (reazione)[180].
È chiaro che questa interpretazione così pesantemente «valutativa» stabilisce un punto di contrasto quanto mai violento con quella di Miglio, verso il quale infatti Bolaffi ha parole di aspra e polemica «sorpresa» per la presentazione oltremodo favorevole del pensiero schmittiano, presentazione che sviserebbe, neutralizzandolo in un «minuetto accademico», il vero ruolo polemico-politico-ideologico del pensiero di Schmitt[181]. Da un punto di vista coerentemente marxista, questo è infatti soltanto il sintomo di quella distruzione della ragione che, immanente al costituirsi e allo svilupparsi del sistema capitalistico, si presenta a volte nella forma del pensiero astratto-liberale, altre volte nella forma — altrettanto ma diversamente astratta — di un pensiero «realistico» e cinicamente ragionante in termini di puro potere, mai tuttavia in termini di dialettica economica. Queste «due forme di dominio borghese» si equivalgono, dall'unico punto di vista «scientifico», cioè da quello di classe; semmai quella più scopertamente reazionaria (l'ideologia di quelli che Horkheimer e Adorno chiamano «gli scrittori neri della borghesia») si presta maggiormente a costituire l'oggetto di una analisi «in spaccato» del sistema capitalistico, dalla quale muovere per smascherare anche la faccia «liberale» del dominio. Da un tale punto di vista, è evidente che appare inaccettabile la pretesa schmittiana di fondare in modo autonomo la scienza della politica, poiché questa è già compresa nell'analisi totale della società operata dal marxismo: ogni attacco a questo monopolio (il monopolio dell'interpretazione) deve far scattare l'accusa di «ideologia» (particolarmente facile e a portata di mano nel caso di Schmitt).
La pura e semplice difesa dell'esistente (rilievo di origine marcusiana), la distruzione della ragione (derivata dalle critiche di Lukács) dicono in modo inequivocabile che Schmitt, di fronte al pericolo immanente nella società borghese di un bellum omnium contra omnes (che egli oscuramente intuisce) non è spinto da un interesse al rovesciamento della contraddizione, ma resta legato a quel rifiuto di ogni mutamento (della «trascendenza») che Nolte ha individuato come essenza transpolitica del fascismo[182]. L'unico approccio possibile a Schmitt, in quest'ottica, è dunque quello strumentale, di considerarlo cioè da una parte — secondo un punto di vista che gli è probabilmente estraneo, e che comunque non gli rende pienamente giustizia — come sintomo di una situazione decifrabile con strumenti concettuali diversi da quelli schmittiani, e, dall'altra, di impossessarsi di alcune sue precise e puntuali critiche al liberalismo per utilizzarle in altro contesto e con fini diversi.
Da un punto di vista analogamente fondato su premesse ideologiche e metodologiche di rigorosa ispirazione marxista, Carlo Roehrssen[183] muove a Schmitt la duplice critica che il «concetto di politico» non è autonomo dalla situazione storica che lo genera – ma è anzi un pensiero tutto interno alla crisi dell’ordine borghese –, e che inoltre il mito dell’unità interna dello Stato (ritenuto fondamentale in Schmitt, cela e mistifica — nel suo pathos «verticale» — la stratificazione «orizzontale» in classi della società capitalistica[184]. Questo errore di fondo, che fa di Schmitt un borghese irretito nella sua astrattezza ideologica, opera con particolare efficacia là dove l'autore tedesco vuole ricostruire la storia politica d'Europa sulla base dello spostamento «progressivo» dei punti di riferimento dell'unità politica: il carattere ipostatico del Zentralgebietnon soltanto impedisce a Schmitt di scorgere la reale dinamica storico-economica del processo di formazione dello Stato moderno, ma lo spinge anche a emettere un giudizio di non-politicità sullo Stato liberale — punto d'approdo della neutralizzazione —, con un sostanziale fraintendimento del suo carattere realmente politico (il dominio di una classe sull'altra)[185].
Anzi, secondo Roehrssen, per quanto riguarda la critica allo Stato liberale Schmitt sarebbe in contraddizione perfino con la sua stessa teoria dell'omogeneità politica: infatti, accusando il liberalismo di avere ridotto la dialettica amico/nemico a «discussione» e a concorrenza, viene meno alla sua stessa convinzione che la politica consista appunto nel formarsi di una omogeneità attorno a un concetto centrale e nell'dal sistema ogni gruppo chiaramente inconciliabile. Ora, lo Stato liberale, proponendo come modello politico il borghese razionale-kantiano, e riducendo a irrazionale tutto ciò che non è il singolo individuo spirituale-astratto, realizza al proprio interno un'«omogeneità politica» di cui Schmitt non riuscirebbe a cogliere — contro il suo stesso 'concetto' — il fondarsi sul rapporto di esclusione dell'eterogeneo[186].
L'ambiguità di Schmitt di fronte alla politicità del liberalismo è ricollegabile all'altra, se cioè il nemico sia interno o esterno all'ordinamento politico; così che il vero interesse che secondo Roehrssen muove la ricerca schmittiana e che sta a fondamento delle dure critiche allo Stato liberale, è la forma dell'unità politica statuale, ipostatizzata come valore astorico e difesa (e sarebbe questo il significato reale del pensiero di Schmitt) contro il socialismo, che trova nelle peculiarità politiche dello Stato borghese l’occasione e lo spazio per un attacco all'esistenza stessa dello Stato[187]. La posizione di Schmitt sarebbe allora, liberata da ogni ambiguità «scientifica», oggettivamente fascista, e si esaurirebbe nella difesa del modo di produzione capitalistico, al fine di restaurare il dominio diretto della borghesia attraverso miti politici pre-borghesi, che garantiscano una omogeneità politica libera dalle mediazioni di uno Stato moderno.
Ora, ci sembra che questa metodologia di lettura del testo schmittiano — indubbiamente corretta entro i suoi parametri precostituiti — testimoni ancora una volta di una certa insensibilità a quanto di nuovo e di originale è presente in Schmitt; insistere nella richiesta di una teoria generale e dialettica della storia e della società significa non rilevare che il pathos specifico dell'operaschmittiana sta proprio nel valutare «politica» la stessa neutralizzazione, così a livello culturale (la tecnica, che è comunque politicizzabile) come a livello giuridico (il normativismo)[188], e che il momento discriminante per definire la politicità di una situazione è la scientifica consapevolezza che se ne ha; tale consapevolezza è da Schmitt collocata nella sovranità, luogo in cui la scienza coincide con il culmine della politicità (il sapere con il potere), in cui assume evidenza la facoltà d'interpretare[189], che muta o sospende le precedenti delimitazioni amico/nemico, e in una successiva crisi si sposterà attorno a un diverso centro di organizzazione. Il culmine di questo processo si è rivelato storicamente come perdita della stessa capacità interpretativa sovrana (la democrazia)[190] e come sopravvivenza del «politico» in forme tanto più violente quanto più inconsapevoli (lo Stato totale «per debolezza» e il «partigiano»): a tale perdita Schmitt ha in un certo momento della sua vita, e dopo aver tentato altre strade, contrapposto l'esperienza nazista, senza scorgere la contraddittorietà della sua stessa proposta. Anche il nazismo, infatti, e ben più che il liberalismo, perde la consapevolezza del 'politico', confuso nella mistica völkisch del Blut und Boden eportato a cieco Aktionismus;ma questa responsabilità storico-culturale (comunque da precisare) di Schmitt, non toglie — come si mostrerà in seguito — valore euristico alla sua metodologia di interpretazione del 'politico'.
Sempre nell'ambito di una valutazione «tradizionalmente» marxista, e pertanto segnata dagli stessi limiti, Francesco Valentini[191] centra la sua lettura di Schmitt sul concetto di «iperpoliticismo»: questo è, per Valentini, «una dottrina che consideri fondamentale rispetto alle altre forme del pensiero e dell'azione l'operare politico»[192]; e «dottrinario iperpolitico», fautore di una «democrazia plebiscitaria» (ma Mercadante non è mai citato) e fortemente autoritaria, è appunto Schmitt, la cui polemica antiformalistica e in fondo antikantiana sfocia (nonostante i civettamenti con Sorel e con Lenin) nell'adesione al nazismo, non tanto per una necessità logica della sua teoria, quanto per una scelta irrazionale ed emotiva[193] che certamente la teoria gli permette; Schmitt si apparenterebbe così ai tanto criticati politici romantici (il tema deriva da Löwith, ma con una variante che potrebbe, se sviluppata, essere decisiva: l'adesione al nazismo di Schmitt non sembra, in Valentini, derivare da una struttura «occasionalistica» del pensiero schmittiano, ma da un fatto personale, biografico; su questo punto, però, il critico italiano non si dilunga, né è particolarmente perspicuo).
Ascritto dunque Schmitt, sulla scorta di Schwab, a un ambito reazionario ma non specificamente nazista (il paragone è con Alfredo Rocco), Valentini esamina il pensiero politico schmittiano in alcuni suoi passaggi fondamentali, insistendo soprattutto sulla polemica antiformalistica e sui rapporti con Rousseau e con Hobbes; e quest'analisi l'autore conclude ravvisando appunto nell'iperpoliticismo il leitmotivtutta l'di Schmitt (secondo la tradizione combinata di Löwith e di Lukács) collocato così lontanissimo sia dalla democrazia razionale di Rousseau sia dal calcolo razionale di Hobbes.
L'avventura teorica di Schmitt si spiega dunque, per Valentini, con un «regresso culturale» anti-illuministico, che lo collega ai grandi reazionari francesi e a Donoso Cortés (e questo dà ragione degli aspetti autoritari del suo pensiero), sia con una scelta irrazionale (l'adesione al nazismo) dovuta a un personale anticomunismo; Schmitt dunque, incapace di essere l'Hobbes del suo tempo — cioè di salvare lo Stato tedesco dalla conflittualità permanente di Weimar — è sostanzialmente ricondotto al ruolo di coerente e implacabile «distruttore della ragione».
Si va delineando tuttavia — a fianco di questi interventi di valutazione generale, e sempre in area marxista — una maggiore attenzione alla specifica collocazione di Schmitt nella crisi degli anni '20-'30, al suo ruolo nella discussione sui problemi dello Stato, e anche alla sua diretta collocazione politica (ma già Roehrssen si era mosso, in parte, in questa direzione). Questa esigenza di articolazione e di approfondimento del pensiero schmittiano — che tuttavia non è ancora una valutazione completamente spregiudicata — è presente nell'intervento di Michele Surdi[194], prevalentemente centrato sui concetti di «pluralismo» e di «Stato totale», visti come il tentativo di organizzare una risposta allo «smantellamento del rapporto dialettico Stato-società civile nel primo crollo post-bellico».
Dalle critiche schmittiane alle ideologie e alle pratiche pluralistiche all'interno dello Stato (mentre all'esterno, nei rapporti fra Stati, il pluralismo — cioè lo scontro — è la corretta forma dell'ordine concreto) Surdi deduce che il vero obiettivo di Schmitt è di superare, oltre alla nozione stessa di «consenso», la «interpretazione» prodotta dall'economia capitalistica, attraverso la nozione di «Stato totale»[195]. Quest'ultimo dovrebbe — secondo Schmitt — porsi oltre lo scontro Stato-società, che invece è presente sia nell'assolutismo hobbesiano (il cui limite è il contrattualismo) sia nelle implicite conseguenze liberali e democratiche che da quello si sono svolte. Lo «Stato totale», insomma, è la nuova figura dell'interventismo, la ripoliticizzazione dell'economia, con tratti che lo stesso Schmitt giudica comuni al New Deal di Roosevelt[196].
Ma «traduzione politica dell'esigenza storica di totalizzazione viene infine portata a termine da Schmitt senza mediazioni»: è la sua compromissione con il nazismo, che Surdi giustamente ritiene contraddittoria e «romantica», giocata com'è sul collegamento mistico Führer-popolo[197]. Si apre — di nuovo — il problema del significato del nazismo di Schmitt, di cui Surdi pare sottolineare la radicalità, pur consapevole che — sempre in àmbito marxista (cioè senza ricorrere a Schwab e a Freund), con Valentini e Mangoni[198] — si è preferito ascrivere Schmitt all'ala borghese-conservatrice del regime.
Su questo problema si inserisce anche il saggio di Paolo Petta[199], che, anche se a tratti esplicitamente subordinato all'impostazione generale di Löwith[200], presenta spunti nuovi e importanti: nel confronto con Kelsen, pare a Petta che Schmitt rappresenti, sia pure con notevoli contraddizioni, una linea di pensiero e una proposta politica generale più avanzate rispetto al tardo liberalismo ottocentesco del neokantiano austriaco: anzi, «nella critica del parlamentarismo consiste — secondo Petta — il più rilevante contributo dato dallo Schmitt al pensiero costituzionale moderno: più che nella concezione della costituzione materiale, che in Schmitt è solo intravista, e più che nella teoria del politico come antitesi amico/nemico, che anche da noi taluno ha voluto riproporre come una costruzione scientifica dotata di una sua oggettiva validità, e che viceversa va considerata come uno dei prodotti più discutibili dell'irrazionalismo politico degli anni '20»[201].
È qui evidente, insieme alla polemica con Miglio — e anche con Mortati e particolarmente con l'ultimo —, il tipico atteggiamento di tanta parte della critica italiana: liquidazione «generale» del pensiero schmittiano — attraverso l'accusa d'irrazionalismo — e suo «recupero» particolare, decontestualizzato, a fini puramente polemici. Questo atteggiamento è però accompagnato, in Petta, da una precisa e puntigliosa attenzione all'impegno politico di Schmitt e al ruolo storico contingente della sua dottrina; questa minuziosa indagine storiografica è indubbiamente un indispensabile momento di documentazione, e ci mostra lo Schmitt prima soreliano, poi consulente dei governi «presidenziali» e reazionari di Schleicher e Papen, poi ancora «nazista», infine il Benito Cereno del dopoguerra[202]; ne deriva un giudizio di occasionalismo assai prossimo, come si è detto, a quello di Löwith.
L'esclusione del valore scientifico di Schmitt è pressoché una costante nel panorama della nostra critica; ma se, come riconosce Petta, Schmitt appare colui che pone domande alle quali Kelsen non sa rispondere[203], se i suoi complessi antecedenti sono — oltre ai cattolici reazionari — Heidegger (ma bisogna ricordare che le principali opere di Schmitt erano già apparse quando nel 1927 fu pubblicato Sein und Zeit), Weber (per la tematica della legittimità) e Tönnies, e se il suo problema fondamentale è di dare una risposta politica alla crisi dello Stato liberale (trasformato, dall'ingresso delle masse, in «Stato totale per debolezza»[204]), allora è soltanto sul piano della proposta politica contingente che Schmitt si contraddice. Dopo aver scoperto l'emergere della crisi radicale del 'politico' proprio attraverso le vicende politiche di Weimar (e qui c'è il valore «scientifico» del pensiero schmittiano, pur inserito in un contesto di indubbia drammaticità e a volte di ambiguità, poiché la criticascientifica si connette con una tragica crisi storica, e anzi la implica) le varie oscillazioni di Schmitt nella sua collocazione politica personale sono probabilmente il segno di un disorientamento operativo che ha colto anche molti altri intellettuali, e non soltanto tedeschi. C'è dietro alle diverse vicende politiche di Schmitt un'essenza di verità scientifica (l'analisi della crisi della forma-Stato), che è forse il vero livello a partire dal quale si deve leggere Schmitt, oggi; il permanere di questo «grano di verità» spiega anche perché Schmitt non abbia mai completamente rinnegato il proprio passato, facendo così credere a molti che perdurassero in lui le antiche simpatie politiche, mentre ciò che collega tra di loro le varie tappe della carriera pubblica di Schmitt è la scoperta (scientifica e 'storica' a un tempo) delle strutture «critiche» del politico e della loro crisi «epocale» (e qui Petta coglie veramente nel segno, pur limitando a quest'ultimo punto il suo consenso a Schmitt).
Ancora più articolata (anche se sul problema dei rapporti Kelsen-Schmitt le conclusioni sono analoghe) ci appare la ricostruzione della situazione politico-istituzionale e del dibattito filosofico-giuridico nella Germania degli anni '20-'30, fornita di recente da Roberto Racinaro[205]. Individuata la questione centrale nella trasformazione del ruolo del parlamento nell'epoca di Weimar (il cui studio incontra notevole fortuna, di questi tempi, presso la cultura italiana[206]), il progetto di razionalità neo-kantiana proposto da Kelsen appare a Racinaro privo di una sostanziale «tenuta» e destinato a ricadere in un naturalismo deterministico che è diretta conseguenza della pretesa critica kelseniana al concetto di «sostanza». Ed è a questo proposito che valgono soprattutto lo Schmitt di Teologia Politica e il suo recupero della sostanzialità medievale della «pienezza di potere», fondata sulla «decisione (quella decisione appunto che mancava nella costituzione di Weimar). Ampio spazio è dato anche ai concetti di «neutralizzazione» e di «spoliticizzazione», e all'analisi schmittiana della democrazia come ripoliticizzazione totale e come mutamento della classica forma-Stato. Ma la critica di Schmitt a Kelsen, se coglie nel segno nel considerare il formalismo giuridico una realtà incapace ormai di fondare quel nuovo tipo di legittimazione che i tempi richiedono (e che l'articolo 48 della costituzione di Weimar in certo modo prefigura), è tuttavia giudicata da Racinaro incompleta e fuorviante: la teoria kelseniana è impari di fronte al tempo presente non tanto perché invecchiata, quanto perché rappresenta un equilibrio di classe ormai spezzato e avviato a una diversa ricomposizione (lo «Stato amministrativo», secondo quelle indicazioni di Weber che Schmitt tuttavia misconosce – almeno secondo Racinaro[207]).
Ritorna così, sia pure in un contesto più sfumato, la «classica» accusa marxiana di «superficialità»; ma ciò nonostante è evidente che Racinaro considera senz'altro Schmitt più idoneo di Kelsen a individuare il fatto nuovo della diffusione e parcellizzazione del potere. È inoltre da notare che Racinaro — forse anche perché il tema stesso lo richiede espressamente — articola il pensiero di Schmitt intorno a centri diversi dal concetto amico/nemico, a riprova che è possibile trovare nel pensatore tedesco uno spessore teorico che approfondisca anche il costituirsi e il mutare della politica interna, contrariamente a quanto sostenuto da molti commentatori.
Il 'politico' nella sua forma democratica è lo spazio delle politiche contrapposte, in cui non vigono più né la decisione sovrana né la dittatura, e in cui si è persa consapevolezza della teologia politica: in tale spazio si organizza allora la nuova struttura del potere, la «disseminazione» di quella «contraddizione» sovrana che era la forma dello Stato classico (il «dire-contro», la decisione come esclusione), e si apre così — secondo Racinaro — una nuova prospettiva verso lo Stato-sapere, lo Stato-competenze di Foucault[208]. La descrizione schmittiana di questo processo, che fu di Weimar ma che è anche dell'oggi, sollecita Racinaro (ed altri marxisti che recuperano Schmitt) a non liquidare il giurista tedesco come semplice «distruttore della ragione», ma anzi a coglierne la capacità analitica per integrarla in senso sistematico-dialettico, perché — sorretta soltanto da se stessa — non precipiti nella tentazione autoritaria di destra.
Schmitt si coniuga allora soprattutto con il marxismo degli «ex-operaisti» (particolarmente Tronti e Cacciari), a definire la nuova pensabilità di una duplice crisi: quella della forma-Stato classico-borghese (e dei conseguenti rapporti fra privato, sociale-economico, e 'politico'), e quella dell'altrettanto classico marxismo (nelle più disparate versioni, dal materialismo dialettico al gramscismo). È il tema, attualissimo, dell'«autonomia del politico», che ha suscitato e suscita tuttora un vivacissimo dibattito all'interno della cultura italiana di sinistra[209], e nel quale Schmitt sembra trovare una nuova fortuna.
Va però detto che se Schmitt fornisce indubbiamente alcuni strumenti per analizzare la crisi della forma classica di potere statuale (da cui consegue l'aporeticità dei tradizionali rapporti che la teoria instaurava fra politico ed economico, e al limite fra struttura e sovrastruttura[210]), si è tuttavia di fronte a un rovesciamento soltanto parziale delle consuete stroncature di origine lukácsiana. Schmitt costituisce insomma soltanto uno dei momenti di riflessione e di autocoscienza della nuova strategia culturale e politica di quest'area marxista, e ben più imponente appare piuttosto la presenza del «pensiero negativo» (le riletture di Nietzsche e di Heidegger — al quale tuttavia Schmitt è collegato dal tema della tecnica come ultima figura del dominio —, e in parte anche dei francofortesi) o dell'austromarxismo. La scoperta dell'«autonomia del politico», se è l'asse centrale attorno a cui ruota la rilettura di Schmitt, non vuole avere — nonostante le critiche che a tale operazione vengono mosse[211] — il significato di assegnare alla dimensione politica un valore di «sostanzialità»: pertanto, i temi del «concetto amico/nemico», della decisione, della dittatura, della sovranità, della teologia politica, della critica al liberalismo e al parlamentarismo, vengono assunti nel senso weberiano di scoperta del «disincanto» del 'politico', di un suo progressivo perdere di sostanza e di assolutezza (il che fa scattare presso gli avversari l'accusa di pragmatismo e di tecnocrazia), di un suo presentarsi come spazio di decisioni non «teologiche» né «sostanziali»[212].
Schmitt vale dunque — in quest'ambito — come pensatore concreto e realistico, che mostra la valenza politica del diritto e delle istituzioni, secondo un modello interpretativo ormai consolidato; ma d'altra parte vale soprattutto nell'elaborare una teoria «pura» (ma, appunto, concreta e non formale) della politica come dimensione autonoma e disincantata. Quello che di Schmitt al contrario si rifiuta è il suo voler dedurre la dittatura della decisione, è il suo voler fare di nuovo teologia politica, alla ricerca di una ricomposizione del 'politico' che, non potendo essere quella borghese — ormai in crisi —, appare necessariamente orientata verso l'assolutizzazione decisionistica e l'ordine «concreto» nazista. Da chi scopre che il 'politico' non può più essere Ordine assoluto non si accetta la restaurazione (ideologica!) di uno pseudo-ordine (ma a questo proposito la posizione di Tronti pare più sfumata, e più attenta a considerare i rapporti necessari fra ordine e società civile): Schmitt è così soltanto «utilizzato» all'di una rinnovata strategia marxista, più lucida e più adatta ai tempi della crisi. Ma la riproposizione schmittiana dell'ordine cela — come si chiarirà in seguito — dietro forme a volte impresentabili o contraddittorie la scoperta «scientifica» — che andrebbe valorizzata — del rapporto inevitabile e strutturale fra ordine, associazione, esclusione;tale costellazione concettuale è per Schmitt ineludibile, anche nello spazio contemporaneo di un 'politico' non più assoluto né teologico: il suo insistere sulla decisione politica come generatrice di ordine è forse allora più segno della sua consapevolezza scientifica che mistificazione ideologica.
Indicate le caratteristiche di rilevantissima novità, accanto alle più tradizionali riserve, ci si deve tuttavia limitare — in mancanza di una trattazione specifica e organica del pensiero schmittiano nell'area del marxismo «operaistico»— a un'operazione di ricerca per via induttiva dell'incidenza di Schmitt sulle analisi dei principali teorici dell'«autonomia del politico», cioè Mario Tronti e Massimo Cacciari. Particolarmente nel primo paiono di origine schmittiana espressioni come «dittatura sovrana del politico su tutto il resto»[213], la necessità metodologica — per criticare la dialettica dell'economico e per scoprire la specificità del ciclo politico rispetto a quello del capitalismo — di un'indagine che parta dalle origini dello Stato moderno[214], e infine l'assunzione — come nuova rivendicazione della classe operaia, che si porrebbe così sullo stesso terreno di lotta della borghesia — dell'autonomia del 'politico' come ultima delle ideologie borghesi, ma con segno politico cambiato[215]. Il tutto, all'interno di una problematica che resta orientata marxianamente, alla ricerca di un nuovo rapporto con Marx, con Gramsci, e di una redefinizione del legame partito/masse[216], oltre che di quello fra economia e politica e del nodo struttura/sovrastruttura.
E il superamento degli schemi teologici di partito così come della teleologia rivoluzionaria (di derivazione hegeliana) pare l'asse strategico attorno al quale ruota — a livello politico — l'utilizzazione che anche Cacciari fa di Schmitt; lo scopo è di comprendere l'attuale mutamento della forma-Stato che si evolverebbe verso una «neutralizzazione» (solo temporanea, però, e il cui sbocco problematico deve essere pilotato proprio attraverso nuovi strumenti concettuali) di «distinte» centralità, ormai superata dunque la vecchia centralità dello Stato o dell'impresa[217], e di snidare così il 'politico' dal suo nascondiglio nel pensiero 'reazionario', che ne ha conservato — per ultimo — la consapevolezza.
Dopo il fallimento del tentativo hegeliano, risulta impossibile, secondo Cacciari, pensare uno Stato dialettico all'altezza delle reali contraddizioni economiche contemporanee, uno Stato che sia il prodotto insieme libero e necessario del principio dell'individualità assoluta. Il fallimento della logica dell'Aufhebung (che tuttavia aveva in Hegel il compito di pensare uno Stato realmente adeguato al tempo dello Spirito dialettico, comprendendovi anche l'aspetto di rinunzia, così che la forma del 'politico' vi appariva, per la prima volta, come problema[218]), è stato esaminato da Cacciari, com'è noto, soprattutto lungo il versante del pensiero negativo, la cui crisi èimplicitamente il giudizio sul fallimento della «tenuta» della logica hegeliana e della sua pretesa di instaurare un Assoluto capace di passare attraverso il nichilismo economico del possesso.
Dal 'politico' hegeliano — diverso, a sua volta, da quello barocco, sostanziale e simbolico, veramente teologico-politico[219] — il pensiero negativo procede alla scoperta del disincanto della politica, che appare così contraddizione non risolubile nel linguaggio totale dello Spirito; dalla crisi dello Stato/Verità-del-Soggetto, emerge allora in Nietzsche l'impolitico come rinunzia alla «grande politica» totale, come decadenza nella politicizzazione democratica, come critica del politico dentro il politico[220] La politica diviene territorio della scissione, dello scontro, della decisione che divide e che instaura un ordine fondato sul relativo (cioè un'allegoria[221]). E nella scoperta del politico come ordine caduco, fondato non sull'assoluta sostanzialità ma sul calcolo razionale, si inseriscono Weber e Schmitt, e particolarmente quest'ultimo, con la sua teoria della decisione sovrana fondata sul nulla[222].
Ma se Schmitt è così per Cacciari l'estremo risultato della secolarizzazione e dell'autonoma relativizzazione del politico[223] — ormai incapace di organizzare la società, e le sue contraddizioni, in sistema — èanche vero che Schmitt ripropone con la teoria della dittatura l'«impraticabile utopia» di un nuovo ordine, che, pur sapendo di non poter più essere totale, finge ancora una volta l'assolutezza teologico-simbolica[224]. È questo, come si è già detto, il punto capitale di divergenza fra Schmitt e Cacciari, che forse intuisce nel pensatore cattolico la nostalgia dell'ordine simbolico-pontificale[225]; dalla consapevolezza — emergente dal versante hegelo-marxiano — dell'impossibilità dell'Ordine, Cacciari si fa forte per proporre la trasformabilità dell'ordine politico vigente, proprio in quanto relativamente autonomo dal sistema dei bisogni (ma, secondo un'ottica schmittiana, ogni trasformazione deve fondare un ordine basato comunque sull'esclusione, la cui «relatività» ed «elasticità» sono pertanto più problematiche di quanto Cacciari mostri di credere[226]). Attraverso una tecnica di decisione fra le possibili alternative si ripropone allora la tesi della centralità operaia, che dovrebbe appunto mantenere «aperto» il sistema politico, impedire la riorganizzazione di una forma di potere ancora una volta gestita dal capitale[227].
L'utilizzazione «spregiudicata» (in ogni senso) del pensiero schmittiano trova così la sua ragion d'essere in un più generale rinnovamento della teoria e della pratica politica della sinistra italiana, e dal punto di vista dell'incidenza di Schmitt nella nostra cultura è indubbiamente da segnalare come la più notevole presa di contatto con l'opera del pensatore tedesco, almeno sul terreno più strettamente «filosofico» (anche perché questi autori contribuiscono a spostare l'attenzione degli interpreti dal tradizionale 'concetto' amico/nemico ad altre tematiche schmittiane, forse più fruttuose anche se indubbiamente a quello collegate, come la neutralizzazione, la decisione, la teologia politica); resta tuttavia aperto il problema di restituire un'immagine unitaria di Schmitt, mostrando la non completa estraneità di questa metodologia di lettura rispetto a quella «scientifica» proposta da Miglio. Questo tentativo, le cui linee generali saranno fornite più oltre, non vuole essere viziato da eclettismo né può trascurare le diverse strategie politico-culturali implicite nelle due proposte esaminate; piuttosto, la loro integrazione si rende necessaria proprio per superare le diffidenze che ancora — e notevoli — segnano la lettura schmittiana di Tronti e Cacciari, particolarmente in relazione, ripetiamo, al problema dell'ordine, della sua relatività e contemporaneamente della sua necessità, cioè proprio di quell'aspetto del pensiero di Schmitt che più di ogni altro si presta alla squalificazione come ideologico, e che deve invece essere recuperato come scientifico.
XIII. Ma per concludere il panorama della presenza di Schmitt nella cultura italiana, è necessario soffermarsi sugli ultimi interventi di ambito non marxista, alcuni dei quali presentano importanti motivi d'interesse e cospicue possibilità di sviluppo, mentre altri appaiono inseriti nella più tradizionale polemica contro lo Schmitt «distruttore della ragione».
Sul venir meno dell'autonomia del momento teorico di fronte all'uso totalitario del concetto di 'politico' (tema caro alla cultura italiana, presente fin da Cantimori e accolto significativamente anche da Mercadante e Valentini, in quanto certamente consono alla misura che si vuole «classica» della nostra filosofia) è costruito anche l'intervento su Schmitt di Salvatore Valitutti[228]. Da un punto di vista rigorosamente liberale (in non casuale sintonia con certo marxismo), Valitutti individua il nucleo centrale del pensiero schmittiano nell'incapacità di riconoscere la «distinzione» tra sfera pratica, estetica e logica[229]; Schmitt è così trascinato dal proprio concetto contraddittorio e confuso (secondo la critica del Cantimori più «crociano») a una prassi politica altrettanto contraddittoria.
Nonostante la forte dipendenza da Löwith (vero elemento unificante di tanta parte della critica italiana), Valitutti se ne distacca in alcuni punti, come ad esempio il rifiuto dell'ipotesi di un cosciente e malizioso opportunismo schmittiano, interpretato piuttosto come necessaria contraddittorietà di un concetto in sé mal formato (con un atteggiamento, dunque, alquanto differente anche da quello di Valentini): in tal modo è possibile a Valitutti superare il problema del nazismo di Schmitt ed estendere l'accusa di contraddittorietà a tutta la produzione schmittiana. E anche quei momenti di storia contemporanea che hanno fatto parlare Miglio di una «solare conferma» delle tesi di Schmitt non sarebbero altro che aspetti di quel processo di «distruzione della ragione» in cui il mondo occidentale è coinvolto dopo la crisi della filosofia hegeliana; Schmitt appare così a Valitutti simbolo e sintomo della disumanizzazione del presente, di quell'«isterilimento» della civiltà che Valitutti critica sulla scorta del suo liberalismo (appassionatamente difeso dalle critiche schmittiane, che ne coglierebbero soltanto l'aspetto liberistico, ma non quello etico), non rifuggendo dal chiedere aiuto all'Horkheimer di Eclisse della Ragione[230].
Le contraddizioni della teoria schmittiana sono dunque sostanzialmente due, e fondamentali: se l'incondizionata ostilità amico/nemico sia contingente o piuttosto una dimensione necessaria dell'agire umano; e, inoltre, se il 'concetto' schmittiano abbia valore soltanto descrittivo o pretenda di essere anche conoscitivo[231]. II pensiero schmittiano, diagnostico e portatore a un tempo di un Male che appare insuperabile perché non realmente conosciuto ma soltanto vissuto ciecamente dall'interno[232], non permetterebbe di risolvere queste aporie (affini, peraltro, a quelle proposte da Löwith): la lettura di Schmitt potrà allora giustificarsi, secondo Valitutti, soltanto da un punto di vista «strumentale», come lo studio «dal vivo» di quel «virus anticonoscitivo» al quale si oppone il classico, misurato e «distinto» umanesimo crociano.
Sulla stessa linea è condotta anche una rassegna bibliografica, sempre a cura di Valitutti[233], sulla fortuna di Schmitt in Italia; la fonte è chiaramente la bibliografia posta in appendice alle Categorie del 'Politico', aggiornata (solo in parte, tuttavia) per gli anni posteriori al 1972: si rinuncia così a un'indagine più minuziosa, articolata e approfondita dell'incidenza di Schmitt nella cultura italiana, in favore delle interpretazioni più note e in un certo senso «ufficiali».
E pertanto inevitabile che ne esca l'immagine — in parte aderente al vero, ma che certamente avrebbe potuto essere più sfumata — di uno Schmitt integralmente respinto dagli interpreti italiani, sia prima della guerra (Cantimori, Volpicelli, e — sullo sfondo — Löwith; unica eccezione, Evola), sia dopo; in questo secondo momento la nota dissonante è data evidentemente dalla Presentazione di Miglio (non c'è invece traccia del dibattito sull'autonomia del 'politico') e dalla sua lettura «scientifica» e politologica, che Valitutti non accetta soprattutto per quanto riguarda il conflitto fra diritto e politica. Per Schmitt, infatti, non solo non si può parlare di «scienziato», ma neppure di empirico «osservatore», proprio per il suo totale coinvolgimento con quei fenomeni patologici che appaiono più direttamente collegati alla sua teoria, cioè l'estremismo il terrorismo politici[234].
A questo studio bibliografico se ne aggiunge, recentissimo, un altro, di Gennaro Malgieri[235], purtroppo insoddisfacente, nonostante l'evidente simpatia dell'autore per Schmitt e per il suo pensiero. «La recezione di Carl Schmitt in Italia» è infatti analizzata quasi esclusivamente nel periodo fascista, con particolare apprezzamento per i saggi di Curcio e di Evola; afferma inoltre Malgieri che da una parte «chi si poneva sul terreno della concezione fascista dello Stato nel considerare la dottrina schmittiana» la respingeva, come fecero Volpicelli e Battaglia (ma il loro rifiuto fu al contrario motivato molto più dall'idealismo — attraverso la nozione di pseudo-concetto — che dal loro personale fascismo, il quale semmai agì solo in seconda istanza, con il tema della 'romanità'), mentre d'altra parte poco più oltre alla cultura italiana «meno provinciale» (Cantimori, e particolarmente quello del 1935, ancora ambiguamente legato al fascismo, pur con alcune perplessità su Schmitt, che Malgieri tuttavia non documenta) viene ascritto il merito di tenere in grande «stima e considerazione» lo Schmitt, «anche perché la sua opera era in perfetta 'sintonia' con quanto il fascismo rappresentava politicamente, ma soprattutto 'esistenzialmente', proprio come risposta 'decisionistica' al disfacimento sociale in atto nell'Italia giolittiana»[236].
Alla contraddittorietà di questa definizione dei rapporti fra Schmitt e il fascismo (imprudentemente considerato omogeneo al pensiero schmittiano) non segue peraltro né un approfondimento del pur fondamentale versante giuridico né del dibattito seguito alla pubblicazione delle Categorie del «politico» (con l'eccezione di un riferimento polemico a Valentini), così che il valore di questo contributo resta piuttosto modesto, nonostante i fervidi auspici che si formulano per una più larga diffusione in Italia del pensiero schmittiano.
Spunti di maggior interesse offre invece la presenza, sia pure per accenni, di Schmitt nel recente Dizionario di Politica, a cura di Bobbio e Matteucci[237]: sono anzi i due curatori a firmare quelle voci in cui il pensiero politico schmittiano viene più ampiamente preso in considerazione, nonostante i rispettivi punti di vista appaiano alquanto differenti. Bobbio infatti fornisce della dottrina di Schmitt (e del suo discepolo francese Freund) un'esposizione fortemente critica, rilevando che limitare la politica alla situazione in cui sia presente un contrasto tanto forte da generare il raggruppamento amico/nemico equivale a ridurre il fatto politico alla guerra, cioè al conflitto non risolubile se non con la forza[238].
L'opposizione «illuministica» di Bobbio al 'concetto' schmittiano si situa così sulla stessa linea che già ha visto schierati tra gli altri Fassò e Passerin d'Entreves, nonostante sia da notare che il rapporto guerra/politica è in Schmitt più problematico[239], e che il concetto amico/nemico indica semmai la contraddizione strutturale latente nell'associarsi, e che si rivela soltanto nei momenti di crisi (il venir meno della sovranità e la guerra civile).
Più orientati verso una lettura «neutrale» e scientifica del testo schmittiano appaiono invece gl'interventi di Nicola Matteucci, alle voci Resistenza (partigiano)e Sovranità[240]. Fondamentale, nell'esposizione della schmittiana Theorie des Partisanen, èl'accorgimento di Matteucci che essa si situi nella complessa vicenda per cui lo Stato perde il monopolio della politica a favore del piccolo gruppo, con la conseguente vanificazione dell'autolimitazione classico-statuale della politica stessa, e con il relativo emergere dell'ostilità assoluta, priva di regole e tendente allo sterminio. Il tema caro a Schmitt (e particolarmente rilevante ai nostri giorni) della crisi interna dello Stato, che muove dallo stesso principio politico su cui quello si organizza, è poi da Matteucci ulteriormente ripreso alla voce Sovranità, a partire dalla definizione che ne dà Schmitt in Teologia Politica, «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»: tale definizione offre a Matteucci lo spunto per una serie di rilievi sull'attuale situazione di crisi della sovranità statuale, evidenziata anche dal venir meno — a livello dei moderni testi costituzionali — della nozione di dittatura sovrana, così che questa acquista validità euristica ormai soltanto in circostanze rivoluzionarie.
Che l'utilizzazione del testo schmittiano non debba avvenire attraverso direttive ideologiche ma scientifiche, conoscitive (come rilievo della crisi immanente alla prassi politica), oppure a livello di storiografia politico-costituzionale (attiva soprattutto nell'tedesco, ma presente anche in Italia attraverso la mediazione di Miglio e Schiera — della quale si dirà, e che ci sembra comunque giusto indicare fin d'ora come un'delle possibili vie di fruttuosa penetrazione in Italia del pensiero schmittiano, o almeno di alcune sue sollecitazioni metodologiche), appare dunque una linea interpretativa che, abbastanza difforme dalla tradizione, è annunciata da questo e da altri accenni[241], testimoni almeno di una sempre crescente attenzione verso Schmitt.
Un ulteriore passo verso una lettura scientifica del politologo tedesco ci sembra venire infine da una recente opera di Gianfranco Poggi[242], nella quale infatti, accanto ad annotazioni che paiono ormai scontate sul brutale irrazionalismo fascista di Schmitt e sulla sua incapacità a definire il formarsi e il mantenersi del lato «interno» della politica statuale[243] (Poggi non pare considerare sufficiente a questo scopo l'analisi schmittiana della sovranità), sono presenti alcuni motivi di notevole interesse. Anzitutto, Schmitt è in complesso considerato come il portatore di un modello politologico generale (fondato sul rapporto amico/nemico, del quale Poggi opera forse una sopravvalutazione, mentre andrebbe integrato con altri fondamentali nodi teorici schmittiani), che spiega il rapporto fra le comunità come instaurantesi in un vuoto normativo (la politica, appunto)[244]. Accanto al modello conflittuale di Schmitt, Poggi situa l'altro, di Easton, per alcuni versi ritenuto inferiore quanto a capacità ermeneutica complessiva.
Inoltre, anche nello sviluppo generale dell'opera — e non soltanto quindi nelle pagine preliminari, illustrative del «modello» schmittiano — ci pare notevole l'influenza di alcune tesi di Schmitt sull'analisi di Poggi; e questo particolarmente là dove si afferma che lo Stato assoluto usa il diritto per scopi politici, oppure nell'individuare la sovranità come destino politico dell'autodifesa di una comunità, o ancora quando si riconosce essenzialmente schmittiana la ricerca di maggior potere da parte di ciascuno Stato, anche attraverso il conflitto interstatuale[245].
Complessivamente, dunque, siamo di fronte a un buon esempio di apertura su temi schmittiani in una sede scientificamente opportuna (l'analisi del costituirsi dello Stato moderno), e ciò a prescindere dalle perplessità sopra esposte intorno ad alcuni luoghi specifici del libro di Poggi. E su questa nuova circolazione di Schmitt nella cultura italiana, su questo suo progressivo affermarsi come momento ineliminabile di una trattazione storiografica su temi politico-statuali, è giusto insistere, perché è da questo processo che pare lecito attendersi (oltre che dagli sviluppi «filosofici» individuati in alcuni settori marxisti e da quelli «scientifici» proposti da Miglio) la futura «nuova» rilettura e reinterpretazione del pensiero schmittiano.
XIV. a) Al punto di stilare un «bilancio» della fortuna italiana di Schmitt e della sua incidenza sulla nostra cultura, appare chiaro che alle questioni sollevate fin dai primi interventi si sono aggiunti, nel corso degli anni e mutando l'interesse dei lettori, nuovi interrogativi che tuttavia non annullano quelli precedenti e che anzi s'innestano su di un atteggiamento comune nei riguardi dell'opera schmittiana. Ai problemi tradizionali (occasionalismo e irrazionalismo di Schmitt) si affiancano i più recenti: se l'omogeneità politica dello Stato valga all'interno o all'esterno dello stesso, se il pensiero schmittiano goda nel suo complesso di autonomia teorica oppure se sia soltanto un ideologico ripiegarsi su se stesso del mondo borghese in crisi, se l'analisi di Schmitt si collochi prima del formarsi dello Stato (come preferiscono quei lettori che privilegiano la Verfassungslehre) oppure dopo, trascurando l'aspetto istituzionale (come sostengono coloro, e sono i più, che prendono in esame il concetto amico/nemico); vi sono poi le questioni della «sostanzialità», dell'autonomia, della relatività del 'politico', che si inseriscono nel quadro più generale — di origine weberiana — del «disincanto», del «politeismo dei valori» e della «razionalizzazione».
Fascisti, liberali, idealisti, marxisti, cattolici[246], storici delle dottrine politiche (particolarmente nell'ambito degli studi sui reazionari cattolici, su Hobbes, sul totalitarismo), filosofi del diritto, costituzionalisti, hanno dimostrato, ciascuno dal proprio punto di vista, e con strumenti più o meno efficaci, che Schmitt non può fornire una rigorosa e coerente dottrina sulle cause dell'associarsi degli uomini, né sui fini cheattraverso l'associarsi si perseguono o si dovrebbero perseguire[247]. E in verità a Schmitt mancano troppi strumenti interpretativi perché possa valere come filosofo nel senso tradizionale del termine (ma bisognerebbe vedere se si è mai proposto come tale); la sconcertante capacità schmittiana di muovere da un concetto particolarissimo per ricostruire a partire da quello un'originale prospettiva storica complessiva, ha in effetti affascinato qualche lettore, ma non ha convinto i più: resta il sospetto di dilettantismo, di un gusto del paradosso che non può essere accolto in sede scientifica, e che avrebbe in definitiva soltanto valore ideologico.
E questa è più o meno la posizione della critica italiana, che per leggere Schmitt si è servita di concetti classici (filosofia della storia, dialettica idealistica o marxista) e di nozioni polemiche (pseudo-concetto, occasionalismo, reazione, rimbarbarimento, iperpoliticismo): lo si è letto, insomma, come un autore che, dall'analisi empirica e contingente di una sistorica, pretenda di spiccare il balzo «ideologico» verso una prescrizione di carattere generale (il concetto amico/nemico), la quale, a sua volta, si rivelerebbe funzionale a una specifica utilizzazione storico-politica (il nazismo, sia pure da una posizione non pienamente «allineata»). Questa brusca serie di passaggi, dal particolare all'universale e poi di nuovo al particolare, è stata individuata come struttura generale di tutta l'opera di Schmitt, ed è stata utilizzata come chiave per interpretarla e ricostruirla unitariamente, insieme con una segmentazione a periodi del suo pensiero, che però confluisce sempre nella suddetta struttura ermeneutica generale. L'interesse per l'opera schmittiana sarebbe allora così limitato allo studioso di storia delle dottrine politiche, al giurista che viene a contatto con lo scottante problema del rapporto «costituzionale» fra diritto e politica, e che deve far riferimento — tra le diverse posizioni — anche a quella di Schmitt, al polemista che isola ed estrapola dal testo schmittiano alcune proposizioni per rivolgerle con segno e intento mutati contro un obiettivo specifico, o infine a chi, da destra, voglia affidarsi in pieno alla «lettura» ideologica di Schmitt.
Da questo panorama riassuntivo generale, che è valido per la quasi totalità della critica italiana, emergerebbero così alcune costanti interpretative, che si aggiungono a quelle già altrove indicate: particolarmente, la circostanza storica dell'di Schmitt a favore del nazismo, appare attirare l'atetnzione di gran parte dei commentatori come il fatto da sottolineare con maggior rilievo, mentre, pur essendo importante, va senza dubbio ridimensionato, né può costituire il nerbo di un discorso su Schmitt. Inoltre la nostra critica ha troppo spesso prestato un'attenzione esclusiva al Begriff des Politischen e al concetto amico/nemico che vi è delineato, la cui «fortuna» ha così indubbiamente giocato a sfavore di una più articolata comprensione di Schmitt, che affida il suo prestigio culturale anche ad altri e più complessi interventi su temi dai quali il Begriff può essere dissociato. Infine, resta da sottolineare l'influsso combinato che — su di una cultura già idealisticamente refrattaria a Schmitt — hanno esercitato sia la stroncatura di Löwith sia quella — operante soprattutto nell'ambito marxista più tradizionale — di Lukács, entrambe convergenti nell'accusa di irrazionalismo, accusa che si legittima sia seguendo il cammino che porta Da Hegel a Nietzsche sia attraversando la moderna Distruzione della Ragione.
Statisticamente non molto rilevanti ma qualitativamente importantissime appaiono allora quelle diverse modalità di lettura di cui nel corso del lavoro abbiamo sottolineato la novità, e particolarmente le interpretazioni di Miglio, di Tronti e Cacciari, e di Mortati. Mentre quest'ultima ha già dato i suoi frutti all'interno del giuscostituzionalismo italiano, si deve riflettere sulle prime due, per trarne le necessarie conseguenze metodologiche e per instaurare — se possibile — un nuovo rapporto con Schmitt.
Questi resta tuttavia, per la nostra cultura, una presenza ancora non organica, che agisce frammentariamente e che non crea in alcun modo una «scuola»: ciascun interprete è sollecitato da quegli aspetti di Schmitt che gli sono più congeniali, e — all'interno dei parametri ricordati — li elabora secondo le proprie necessità. Devono ancora essere affrontati in modo sistematico e in tutta la loro complessità sia il pensiero di Schmitt sia le questioni che pone sul tappeto, che non sono poche né di poco conto. A questo proposito, le osservazioni che seguono vogliono essere soltanto una proposta preliminare di metodologia per una rilettura di Schmitt, con l'avvertenza che le eventuali prospettive aperte restano ancora largamente da verificare attraverso un accurato lavoro filologico, e che si tratta per il momento soltanto di ipotesi di lavoro.
b) La constatata evidenza del fallimento schmittiano di fronte ai temi «classici» di filosofia della politica si spiega dunque col fatto che in Schmitt è presente (e prevalente) un tipo di interesse più «formale» che ontologico, più conoscitivo che prescrittivo: il 'concetto' di 'politico' potrebbe allora essere considerato — come vuole del resto lo stesso Schmitt, almeno negli ultimi scritti — non una teoria dell'associarsi degli uomini, ma il rilievo «strutturale» dell'immanenza del principio d'esclusione in ogni associazione 'politica'; non una filosofia della storia, ma l'individuazione dei centri a partire dai quali si opera storicamente l'esclusione; non un mito politico immediatamente utilizzabile, ma il principio «formale» (anche se la «forma» è l'esclusione reale)della politicità; non un fine preordinato da sovrapporre alla storia, ma la scoperta che dalla prassi stessa emerge una «crisi» che ne contiene la «critica» (nel duplice senso di «separazione» e di «giudizio»)[248].
In questo senso, sviluppando la felice intuizione di Miglio, che la scoperta di Schmitt sia definibile «copernicana» — cioè analoga a quella di Kant —, si può affermare che la categoria del 'politico' è un colpo decisivo contro la «sostanzialità» fondamentale della politica, sia la «sostanza» un valore etico o un dover essere metafisico o un «necessario» sviluppo storico: il 'politico' è per Schmitt soltanto un rapporto, el'esclusione (il rapporto amico/nemico) è l'elemento trascendentale di ogni prassi politica, la condizione universale e necessaria della politicità. Superata ogni definizione eterogenea, il 'politico' si autodefinisce nella sua purezza strutturale, fondato nel non aver fondamento. Certamente, le analogie fra Kant e Schmitt si fermano qui: il grande avversario del neokantismo giuridico ha delle strutture della prassi un concetto concretamente dinamico, di contro all'astratta trama di relazioni formali individuata da Kelsen; e inoltre non sempre Schmitt è stato pienamente consapevole del puro valore conoscitivo del suo concetto, e lo ha spesso utilizzato politicamente anche per assecondare movimenti politici precisi e contingenti; ma al di là di queste aporie, gravi ma non insuperabili, una simile interpretazione di Schmitt può valere a uscire dall'impasse in cui tanta parte della critica italiana è caduta, e a risolvere l'apparente contraddizione fra uno Schmitt teorico del «disincanto» e uno Schmitt fautore di una politica «assoluta» (cioè autonomamente sovrana).
Quella che è stata definita anche dai critici più sensibili come ideologica e surrettizia restaurazione di un Ordine, proprio dopo che Schmitt stesso ha riconosciuto la forza irresistibile della secolarizzazione e della razionalizzazione dell'ordine teologico, deve essere spiegata esaurientemente all'interno del testo schmittiano. A questo proposito converrà osservare che la tematica della sovranità è il contesto più generale in cui si inserisce il 'concetto' amico/nemico: la sovranità è appunto la consapevole creazione (ex nihilo, dunque, cioè teologicamente, e non semplice difesa diuna pace giusnaturalistica dipendente da Dio[249]) di un ordine per esclusione attraverso la decisione sovrana, a partire da un centro di riferimento consapevolmente assunto e «neutralizzato», attraverso una capacità «interpretativa» che costituisce il vero luogo di produzione della verità, in cui potere e sapere coincidono. Ora, ogni ordine è essenzialmente esclusione, per Schmitt, ogni «costituzione» si fonda su di una conventio ad excludendum pre-giuridica e supremamente politica, e ciò permane vero nonostante il variare storico del Zentralgebiet neutrale a partire dal quale si esclude, e a prescindere dal fatto che la decisione sovrana instaurante l'ordine emerga nella sua saldezza simbolico-cattolica oppure perda la propria consapevolezza nella parcellizzazione pluralistica del potere (la crisi della forma-Stato nella democrazia).
Schmitt tiene dunque presente sia il prima che il dopo del formarsi dello Stato, sia la decisione politica pre-statuale di creare un ordine, sia il perdurare statuale di un'omogeneità interna (dinamica perché consapevolmente fondata sull'esclusione) in conflitto esterno con omogeneità statuali analoghe. I temi dell'ordine e della sovranità, coniugati con il Begriff, danno così ragione anche, e contemporaneamente, sia della «scientificità» di Schmitt, sia della sua rilevanza «filosofica», senza che fra le due interpretazioni vi sia contraddizione; infatti, il disincanto della politica, il suo essere un ordine razionale, ne fonda la conoscibilità scientifica basata sul principio d'esclusione a quella immanente, ma l'«andar dietro alla verità effettuale della cosa», il far parlare la «Cosa stessa», se è un programma scientifico, è anche un rovesciamento (una re-interpretazione) del fronte filosofico. Se la verità è, secondo la scienza schmittiana, 'insieme di regole interpretative che di volta in volta la sovranità istituisce per separare l'amico dal nemico (quis interpretabitur?), stabilendo linee d'inimicizia e d'amicizia che intersecano il pensiero politico fino a giungere alla partizione geografica della terra attraversando ogni pactum unionis attuatosi, se la struttura di fondo della politica è «separarsi per associarsi» (la determinazione attraverso la negazione), se l'opera della scienza è quella, avalutativa politica tempo, di riconoscere il 'politico' negli ordini storicamente susseguentisi, allora il pathos per il concetto dell'ordine non solo non è ideologico, ma è anzi il segno di una consapevolezza teorica che la «filosofia» non può rifiutare.
Il disincanto della politica non è un venir meno del 'politico', ma soltanto, eventualmente, della sua consapevolezza; il relativizzarsidella decisione (cioè il suo cambiar centro di riferimento) non significa che la decisione stessa non sia in quanto tale comunque assoluta, cheil «politeismo dei valori» non implichi la loro lotta a morte[250]. La scientificità schmittiana non si ferma davanti all'ordine, ma ingloba anche questo; ma questa scientificità, ciò che vi è di conoscibile nel 'politico', sta appunto in questo, che la razionalizzazione continua a essere teologia politica, fino alla teologia negativa del pluralismo (la morte di Dio, a cui corrisponde la definitiva perdita di consapevolezza del 'politico', e contemporaneamente il suo riproporsi in forme incontrollabili). La razionalizzazione non toglie, ma rivela, la «necessità» dell'Ordine, l'ineluttabilità del dominio come esclusione.
Il processo descritto in Das Zeitalter non è per Schmitt un trionfale progresso verso il venir meno della trascendenza (e della decisione), né è la marcia di Dio nel mondo, né il movimento necessario di un'entità ontologicamente definita (la borghesia, il proletariato, il capitale, la Libertà, lo Spirito) verso una Verità altrettanto necessaria[251]. È la constatazione del permanere dell'esclusione negli ordini mutati, è la continuità delle strutture fondata sulla discontinuità dei rapporti politici. Quella di Schmitt, insomma, non è storia del Soggetto, ma dei rapporti politici fra i soggetti storici nel loro concreto strutturarsi e interpretarsi, ferma restando, ora evidente e ora nascosta, la forma trascendentale della politica.
La filosofia che voglia cogliere in Schmitt il tema del disincanto, cioè dell'autonomia del 'politico', che accetta la sua scientificità operativa, deve seguirlo anche là dove tale scientificità si fa non ideologica, ma radicale e conseguente, cioè sul tema dell'ordine, della decisione, la cui ineliminabilità (scientificamente fondata) implica proprio il più alto risultatoteorico del pensiero schmittiano: la scoperta della logica del dominio, del nodo interpretazione/politica, sapere/potere. La scienza schmittiana è sapere essenzialmente politico, è una avalutatività che si esprime dalla decisione; la razionalizzazione e la neutralizzazione non sono neutrali nel senso più comune del termine (e neppure nel senso della politologia anglosassone), ma al contrario, pur essendo le strutture che permettono la conoscibilità del 'politico', implicano sempre una crisi e una esclusione (ancora il rapporto critica/crisi!). Anche l'interpretazione scientifica è potere, e ogni razionalità si istituisce all'interno di un ordine politico: questo è il punto nodale del pensiero schmittiano, il trapassare della politologia alla «genealogia», la duplice valenza del suo concetto.
Sono dunque a questo punto possibili rapporti analogici fra il pensiero di Schmitt e quell'opera di «genealogia» della storia che Foucault ha recentemente proposto[252] sulla scorta di Nietzsche, e dalla quale emerge che la storia è il susseguirsi delle interpretazioni delle regole del potere e del loro variare, non storia del sostanziale Soggetto dialettico-teologico, ma della discontinuità.
Ci pare inoltre che Schmitt sia giunto assai vicino alla scoperta che anche il pensiero (la scienza) è organo del dominio (della politica), e che questa scoperta lo porti alla constatazione che la ricognizione avalutativa e scientifica del 'politico' (il sistema dell'esclusione) è già di per sé e immediatamente una nuova linea interpretativa, cioè una funzione del 'politico' e della sua 'crisi'. Questa peculiarità della scienza schmittiana implica però anche una difficoltà legata al livello dell'esposizione, della quale Schmitt appare cosciente là dove afferma «science is but a small power, e nell'ambito del politico la libertà del pensiero indipendente comporta sempre un rischio supplementare»[253]; cioè, ci sembra, anche il rischio di trasformare l'esposizione scientifica in propaganda, di cedere alla polemicità implicita nella scoperta del 'politico' per assecondare storicamente una prassi politica contingente. In questo rischio Schmitt è caduto precisamente quando la forma generale del 'politico' è stata da lui utilizzata» in senso filo-nazista: ma questo esito non è — a nostro parere — necessario, quanto piuttosto uno degli esiti possibili, appunto il rischio immanente a quella scoperta, che trova maggior rilevanza sul piano biografico personale che su quello scientifico e teorico.
L'attuale ritrarsi di Schmitt dalla politica, il suo «rinvio della prassi», la sua presente predilezione per la forma classica dello Stato e del Jus Publicum Europaeum, sono allora la consapevolezza che la scoperta 'co' del 'politico' e della sua autonomia non si lascia facilmente domare dalla ragione scientifica, o «superare» dalla dialettica, la cui pretesa di conoscere le regole del gioco, di starvi dentro, di essere generata da quelle, e di essere al tempo stesso capace di autoassolversi deve allora apparire fallace. Né d'altra parte Schmitt è orientato, nella sua ricerca, da un interesse concreto, liberatorio, che gli sia da guida per attraversare e superare il 'politico' e la sua fondamentale contraddittorietà, e proprio questa sua caratteristica dà ragione della costante oscillazione schmittiana fra lucidità e tragicità, fra descrizione e «impegno» che la critica italiana ha tanto insistentemente rilevato.
c) In definitiva, non ci pare che la rilevanza filosofica implicita nella scientificità del concetto schmittiano sia con questa in contraddizione, poiché il 'concetto' stesso partecipa contemporaneamente di entrambe, proprio in quanto ha il 'politico' per oggetto. La complessa figura di uno Schmitt «scienziato della politica» e filosofo non tradizionale della politica, individua una posizione interpretativa diversa da quella consueta, che era invece giocata sulla critica dell'empiria schmittiana dal punto di vista classicamente filosofico-dialettico.
Riassumiamo brevemente i termini delle nostre proposte metodologiche: la scienza (e non l'ideologia) schmittiana conosce contemporaneamente sia l'autonomia disincantata del 'politico' sia la necessità dell'ordine per esclusione, che si fonda sulla decisione-interpretazione; il campo scientifico del 'politico' è la discontinuità, la crisi immanente in ciascun ordine, che ne permette la conoscenza critica; la politologia schmittiana è contemporaneamente scientifica e filosofica avalutativa e politica, anzi, in generale, il sapere è connaturato al potere; sul versante più strettamente filosofico, il concetto schmittiano implica una ridefinizione — sulla linea Nietzsche, Heidegger, Foucault — del rapporto pensiero/essere, al di fuori degli schemi dialettici tradizionali, e centrato sul nesso critica/crisi; come, dal punto di vista politico e strutturale ogni ordine ha in sé una crisi, ogni neutralizzazione ha in sé un'esclusione, così, dal punto di vista epistemologico e filosofico, ogni sapere ha in sé un potere, a ogni scienza è correlata una critica, all'avalutatività è collegata un'interpretazione; della doppia valenza del concetto schmittiano è stata accettata solo una parte, e si è giudicato ideologico il tema dell'ordine e della decisione «assoluta», mentre va considerato nel suo significato globale e nelle sue possibilità euristico/critiche; infine, il rapporto schmittiano scienza/dominio, interpretazione/'politico', non è certamente garantito a priori, e implica il rischio che la polemicità del sapere si trasformi in uso immediatamente propagandistico della scienza.
La nostra proposta implica del resto alcuni corollari metodologici, che derivano proprio dalla distinzione fra 'concetto' (sui due versanti, quello politologico e quello filosofico, che abbiamo tenuto distinti per à espositiva e anche perché in effetti la critica italiana li ha spesso giudicati inconciliabili) e sua «utilizzazione» (resa possibile, quest'ultima, dalla «crisi» su cui si fonda il concetto stesso, e che lo rende a un tempo scientifico e polemico): primariamente, che si debba leggere tutto Schmitt per ricostruirne le linee di pensiero senza estrapolarne segmenti più o meno emblematici; in secondo luogo, che all'interno di questa lettura spregiudicata non si debbano tanto instaurare alcune tra periodi differenti del pensiero schmittiano (unificati poi dal giudizio di occasionalismo), quanto piuttosto che si possa e si debba decodificare, dietro all'uso propagandistico, il perdurare di una linea di pensiero autonoma (si veda a questo proposito il rapporto intercorrente fra certi scritti di diritto internazionale del periodo nazista e il successivo Nomos der Erde). Dunque, non più cesure articolate diacronicamente per periodi (con il relativo problema di individuare quello più significativo, e ciascun critico sceglie quello che meglio ritiene), ma una sola fondamentale, quella sincronica e strutturale — correlata al «rischio» immanente al concetto schmittiano — fra «scientificità» e «utilizzazione» propagandistico-polemica.
Ci pare altresì necessario che tale «cesura» non divenga una «censura», un deliberato ignorare le difficoltà che in tale progetto di lettura indubbiamente esistono, e che si riassumono nella necessità di distinguere dalla coppia interpretativa tradizionale (empiria/filosofia dialettica) l'ipotesi nuova e contrapposta (scientificità/dominio, sapere/potere), e di calcolare attentamente quel «rischio» che Schmitt stesso indica nel paragonarsi a Benito Cereno[254], che cioè il 'politico' incontrollato trascini lo scienziato nella perversione propagandistica.
E anche la questione sollevata dal marxismo, sulla ideologicità del pensiero schmittiano e sulla conseguente sua ambiguità nella determinazione della posizione del nemico, se interna o esterna allo Stato (se quest'ultimo cioè sia — particolarmente nella sua forma liberale — omogeneo, o, al contrario, porti in sé la contraddizione amico/nemico), potrebbe, alla luce di quanto si è già detto, venire spostata: il 'politico' è infatti alla base di ogni Stato, come associazione per esclusione, ordine pagato con una dichiarazione implicita di ostilità (anche interna, dunque, anche se temporaneamente neutralizzata dall'istanza sovrana[255]).. La struttura politico-costituzionale così formatasi ha dentro di sè una crisi (controllabile dall'istanza sovrana attraverso la consapevole «decisione sullo stato d'eccezione», e fondamento della conoscibilità stessa del 'politico'), crisi che consiste essenzialmente nella possibilità di rimettere in gioco gli elementi precedentemente aggregati, in forme nuove: ora, tenendo conto del punto di vista di Schmitt, concentrato attorno al fenomeno della crisi (si conosce soltanto il «caso limite»!), ci pare che quello stesso processo che i marxisti identificano come rivoluzione possa invece essere schmittianamente letto come spostamento delle regole interpretative sovrane e delle linee d'esclusione che fondano l'ordine.
È bensí vero che Schmitt, come del resto si è già rilevato, non ha gli strumenti filosofico-dialettici per sistematizzare le cause e i fini del movimento del 'politico'; tuttavia, a questo punto, l'asserita ideologicità del suo pensiero si fa problematica, poiché parrebbe che egli colga proprio la meccanica strutturale del riprodursi del 'politico' (il «movimento della struttura» di cui parla De Giovanni), anche se tale movimento viene colto soltanto dall'interno, nel momento in cui la crisi si rivela nella sua dimensione «nascente» come esclusione, separazione che si organizza (si «sospende») in determinate forme epocali (cioè in ogni Zentralgebiet), ma non si toglie né si supera, riproponendosi come presenza immanente, come rischio proprio della politica. Ordine e crisi sono allora le due facce del pensiero schmittiano, analoghe a potere/sapere, che bisogna saper leggere anche là dove si fa più facile l'accusa di ideologia.
Questa dialettica «dimezzata», priva di interesse al cambiamento, non si presenta tuttavia meccanica come la vecchia Ragion di Stato, poiché non è un semplice sistema di regole o di consigli, ma è anzi conscia della politicità della stessa interpretazione scientifica. Ed è proprio questa difficile e problematica scientificità «critica» che in precedenti interpretazioni è stata fraintesa non solo come ideologia (e su questo si è già detto) ma anche come «occasionalismo», proprio perché capace di spiegare scientificamente differenti situazioni politiche in diverse specificità storiche. Se d'altra parte l'occasionalismo schmittiano consiste nel tanto discusso passaggio dal decisionismo al pensiero giuridico organico-istituzionale, le cause di esso andranno cercate, oltre che in una forma di opportunismo politico, certamente presente, soprattutto nella necessità che in Schmitt si è fatta sentire di passare dal concetto amico/nemico (la forma strutturale del 'politico') a una operativa analisi storica sul campo del «costituirsi» del politico e del suo articolarsi concreto. Non c'è discontinuità fra i due momenti del pensiero schmittiano: decisionismo e Ordnungsdenken simul stabunt, simul cadent; infatti entrambi sono soggetti alla problematicità di tutto il pensiero schmittiano, da una parte concetti scientifico-filosofici, dall'altra utilizzabili a scopo propagandistico-ideologico. L'uno non è in sé piùnazista dell'altro, e a questo dovrebbe bastare il tardo apprezzamento di Mortati per il tema dell'ordinamento; l'utilizzazione ideologica dell'Ordnungsdenken in favore del nazismo (così come dei concetti di Grossraum e dicrisi della forma-Stato) invita piuttosto a essere sempre in guardia di fronte al rischio implicito nel pensiero schmittiano e a sottoporlo a una duplice operazione: da una parte esso va infatti storicizzato (attraverso uno stretto collegamento con la crisi di Weimar, della quale Schmitt fu appassionato interprete, fino al punto da restarne come ipnotizzato), d'altra parte va invece letto prescindendo il più possibile dagli usi contingenti che ne sono stati fatti, per saggiarne spassionatamente l'euristicità.
E per concludere questa serie di corollari e di considerazioni aggiuntive, va infine ricordato che proprio il rapporto decisionismo/Ordungsdenken ci restituisce quello omologo fra ordine e crisi, e che proprio il sommarsi in Schmitt di un interesse scientifico con uno storico-istituzionale indica — oltre a dargli una sensibilità storica senza farlo essere uno storicista — un'importantissima area di incidenza del suo pensiero, quella della storiografia «costituzionale».
XV. Delineare alcune possibili prospettive di operatività del pensiero schmittiano è già in certa misura implicito nelle proposte formulate e nel giudizio espresso sulla critica italiana, tenendo presente che la loro definizione può in questa sede essere data soltanto per linee generali, e che non si tratta comunque in nessun caso di proporre semplici «utilizzazioni» o assunzioni acritiche e immediate di alcuni contenuti del pensiero schmittiano, del quale anzi si aspira a cogliere la piena valenza critica, analitica e metodologica.
La fecondità epistemologica del pensiero di Schmitt (all'opera anche, ad esempio, nella critica letteraria[256]) giustifica un interesse che esca dall'ambito fin qui tradizionale di giuristi e di storici delle dottrine politiche o di filosofi della pratica, per affermarsi come ripensamento del modo stesso di concepire la ricerca storico/politica. Le linee strategiche per una rinnovata presenza di Schmitt nella cultura italiana potrebbero allora articolarsi sui seguenti versanti: il progetto di una nuova politologia; una metodologia per la ricerca storiografico-costituzionale; la consueta operatività nell'ambito piùstrettamente giuridico; il dibattito filosofico-politico sulla razionalizzazione, il mutamento della forma-Stato e l'autonomia del 'politico'.
Per quanto riguarda gli studi costituzionalistici, è da dire che sul rapporto politica/diritto Schmitt ha già dato molto alla nostra cultura, nei limiti in cui questa lo vuole seguire; ma sempre in ambito giuridico, piùfruttuosa si presenterebbe forse una lettura di Schmitt volta a sollecitare gli studi di storia del diritto e della «classica» cultura giuridica europea[257].
Sul versante politologico, l'influenza di Schmitt potrebbe essere ancora più marcata e fruttuosa, data una certa indecisione che si nota fra i cultori della materia sulle reali prospettive e metodologie di ricerca. Ci pare a questo proposito che Schmitt integri molto bene il tipo di scienziato politico non «filosofo» (nel senso tradizionale di filosofia della prassi, da cui evidentemente la politologia deve distaccarsi), con forti interessi storico-giuridici (ma non normativista), attento alle relazioni internazionali, alla politica comparata e alla storia della burocrazia, proposto da alcuni studiosi[258] qualche tempo fa. Per quanto riguarda il rapporto della scienza politica con la filosofia, con la storiografia e con le discipline giuridiche, Schmitt si presenta — almeno nella nostra ipotesi — con le carte in regola: non si rifugia infatti nelle scorciatoie di una dialettica male intesa, e usa coscientemente concetti storicamente «formati», rifiutandone così esplicitamente un uso puramente descrittivo e «neutrale», come avviene invece nel metodo quantitativo-calcolatorio anglosassone (il rapporto avalutatività/polemicità del suo 'concetto'!); come Max Weber, è storico del presente e politologo del passato; infine, in quanto non è filosofo nel senso tradizionale, non sovrappone categorie estranee alla concretezza del 'politico', e in quanto non è normativista non riduce la complessità del reale al puro fatto giuridico. La sua scientificità si traduce in libri politicamente importanti, pur senza che Schmitt sia un ideologo, che demistificano le ideologie e guardano con libero e realistico spirito critico dentro le strutture della polis.
È evidente che questa identificazione di Schmitt con il «vero» scienziato politico (su di una linea che comprende Mosca, Weber, Pareto) è possibile soltanto sulla base della distinzione fra valenza scientifica del concetto e sua possibile utilizzazione ideologica, ed è altrettanto evidente che all'interno di questa ipotesi, lungi dall'apparire un distruttore della ragione (se non di quella storicistico/provvidenziale), Schmitt si presenta come colui che indaga il grado di consapevolezza dell’organizzazione politica, che da questa è resa appunto conoscibile (ma tale consapevolezza non è astratta, anzi implica, come si è già detto, la sovranità, la decisione, la crisi, l'esclusione).
Accanto a questa prospettiva di una scienza politica, impegnata a conoscere criticamente la crisi di un'epoca[259] (e dunque contemporaneamente scientifica, filosofica e storica), si situa l'altra, su di un piano altrettanto militante e operativo, che vede Schmitt maestro della storiografia costituzionale (politologo del passato), capace di inseguire, con metodo veramente interdisciplinare, l'intreccio storico e concreto di diritto, politica e amministrazione: in questo senso Brunner, Böckenförde, Koselleck (tradotti o presentati in Italia da Pierangelo Schiera[260]) indicano una possibile e già sperimentata e fruttuosa linea di operatività del pensiero schmittiano. Ora, nonostante sia Brunner la fonte metodologica più diretta e immediata per la ricezione italiana della recente Struktur und Verfassungsgeschichte, è in verità riconosciuta universalmente come fondamentale la distinzione, proposta nella Verfassungslehre, tra Verfassunge Konstitution, con le conseguenti sollecitazioni a un'analisi libera da riferimenti anacronistici ed attenta ai concreti assetti istituzionali e amministrativi, e alle reali dinamiche politiche che li permeano; e dalla storiografia costituzionale ci si attende in Italia, dopo il libro di Schiera[261], una messe di importanti risultati.
Infine, sul versante che si è convenuto di definire filosofico, il ruolo di Schmitt è già stato esaminato; conviene sottolineare tuttavia ancora una volta che il suo complesso e difficile pensiero si trova al punto d'intersezione di varie tradizioni culturali, da quella giuridica dell'Allgemeine Staatslehre a quella politologica di Weber, Mosca, Pareto, a quella filosofica di Nietzsche, Heidegger e in generale del pensiero negativo (i rapporti con Hegel, che sono forse più importanti di quel che si pensi, appaiono comunque di una tale complessità da non poter essere sviluppati in questa sede). Questo nodo teorico e storico, che rende Schmitt tanto enigmatico, rappresenta comunque un termine di confronto che appare sempre più obbligatorio per la cultura filosofica italiana con interessi politici. La rilettura di Weber e di Nietzsche, la formulazione — all'interno del pensiero dialettico — del concetto di dominio, la nuova riflessione sul rapporto società civile-Stato a partire dai «classici» luoghi hegeliani e marxiani, ma con la consapevolezza di quanto di originale hanno prodotto in merito la storia politica e la teoria del XX secolo, infine il tema dell'autonomia del 'politico': questa costellazione teorico/pratica può in generale essere iscritta nel rapporto critica/crisi, e sollecita un tentativo di riformulazione radicale del classico nesso pensiero/essere. Questi temi, entrati non da molto nella cultura filosofica italiana, possono esaltare il potenziale critico del pensiero schmittiano, e fare di Schmitt il «reagente» che ponga in evidenza quelle contraddizioni che, come costanti della struttura del 'politico', la filosofia tradizionale ha troppo spesso voluto «superare» nel pathos dello Spirito e della Prassi.
Note
[1] C. Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, München-Leipzig, Duncher & Humblot, 1921. La notizia della traduzione italiana del 1922 viene da una lettera dello stesso Schmitt a Gianfranco Miglio, in data 3 marzo 1969 (si tratta dei primi contatti fra Schmitt e Miglio per la pubblicazione delle Categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972). Devo alla cortesia del prof. Miglio, che qui ringrazio, di aver potuto prender visione della lettera (l’originale è conservato nell’archivio privato di Miglio), dalla quale trascrivo le parti ai nostri fini interessanti (righe 10-18 dell’unica facciata autografa): «Die italienische Ausgabe dieser ‘Diktatur’ hat ihr eigenes Schicksal: wie mir der deutsche Verlager im Jahre 1922 erzählte, war eine italienische Übersetzung damals im Manuskript fertig und bei der Druckerei des ‘Avanti’ im Druck (das Buch ist 1921 auf deutsch erschienen); damals — 1922, noch vor dem Marsch auf Rom — wurde die Druckerei von den Faschistes besetzt und das Manuskript verbrannt. Fata libellorum!». Ci sembra che l’identificazione degli avvenimenti non lasci adito a dubbi, e che si tratti proprio delle violenze fasciste dei primi giorni d’agosto del 1922. Un’ulteriore ricerca, che non si presenta tuttavia agevole, potrà forse identificare il traduttore ed il suo ambiente culturale, certamente molto ben informato di cose tedesche; non pare tuttavia che questo interesse per Schmitt abbia prodotto frutti nella tradizione del socialismo italiano; si può forse presumere che l’attenzione per Die Diktatur si sia manifestata in un gruppo socialista relativamente marginale ed appartato, che attraverso Schmitt intendeva portare avanti la critica al parlamentarismo.
[2] Se si eccettuano le proposte che Giaime Pintor, fra il 1941 e il 1943, fece all’editore Einaudi perché pubblicasse Die Diktatur nei suoi «Saggi». Cfr. G. Pintor, Doppio Diario, Torino, Einaudi, 1978, pp. 143 e 195-196.
[3] Come sono invece i due saggi bibliografici finora apparsi in Italia: S. Valitutti, La fortuna di Carl Schmitt in Italia. Nota bibliografica, in K. Löwith – S. Valitutti, La Politica come destino, Roma Bulzoni, s. d. (ma 1978), pp. 85-101. G. Malgieri, La recezione di Carl Schmitt in Italia, in «Cahiers Vilfredo Pareto-Revue européenne des sciences sociales», a. XVI, n. 44, 1978, pp. 181-186.
[4] Bibliografia, in Le Categorie del ‘politico’, cit., pp. 313-351. Si tratta (cfr. Avvertenza, op. cit. pp. 15-17, di P. Schiera) della traduzione rimaneggiata e aggiornata al 1972 delle precedenti bibliografie curate da P. Tommissen per i due Scritti in onore che a quell’epoca erano stati dedicati a Schmitt: Festschrift für Carl Schmitt zum 70. Geburtstag, a cura di H. Barion, E. Forsthoff, W. Weber, Berlin, Duncker & Humblot, 1959, pp. 273-330, ed Epirrhosis. Festgabe für Carl Schmitt, a cura di H. Barion, E. W. Böckenförde, E. Forsthoff, W. Weber, Berlin, Duncker & Humblot, 1968, vol. II, pp. 739-778. Queste bibliografie vanno integrate con quella apparsa nel terzo Festschrift, quello per il 90° compleanno di Schmitt; si tratta del già cit. n. 44 dei «Cahiers Vilfredo Pareto», a cura di P. Tommissen e di J. Freund, dal titolo complessivo Miroir de Carl Schmitt. La bibliografia qui riportata (P. Tommissen, Zweite Forsetzungsliste der C. S. Bibliographie vom Jahre 1959 (abgeschlossen am 1. Mai 1978) alle pp. 187-238, integra e completa sia le precedenti cit., sia la Forsetzungsliste che si trova alle pp. 127-166 di P. Tommissen, Over en in zake Carl Schmitt, Brüssel, Economiche Hogeschool Sint-Aloysius, 1975. Tuttavia, per quanto riguarda la produzione italiana su Schmitt, tutte le cit. bibliografie sono incomplete, e non soltanto per quanto riguarda la seconda metà del 1978.
[5] Hugo Fiala (pseud. di K. Löwith), Politische Dezisionismus, in «Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechts», 1935, IX, n. 2, pp. 101-123; comparso contemporaneamente in Italia come Il concetto della politica’ di Carl Schmitt e il problema della decisione, in «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», 1935, VIII, pp. 58-83. Sulla vicenda editoriale di questo importantissimo saggio, cfr. nota 22.
[6] F. Grispigni, Recensione di C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1922, in «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», a. IV, 1924, fasc. II, pp. 196-197.
[7] Grispigni, cit., p. 197.
[8] C. G. (Cesare Goretti), Recensione di C. Schmitt, Die Diktatur, cit. (ma nell’edizione del 1928) e a C. Schmitt, Verfassungslehre, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1928, in «Rivista di Filosofia», 1929, pp. 375-386. Dello stesso autore, Recensione di R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, 1926, ibidem, pp. 386-389.
[9] C. G., cit., pp. 376-377.
[10] C. G., cit., p. 381.
[11] C. G., cit., ibidem.
[12] C. G., cit., pp. 384-385.
[13] C. G., cit., p. 386.
[14] F. Mercadante, La democrazia plebiscitaria, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 65-152 (La democrazia dell'identità nella dottrina di Carl Schmitt); P. Petta, Schmitt, Kelsen e il «Custode della Costituzione», in «Storia e Politica», XVI, n. 3, sett. 1977, pp. 505-551; R. Racinaro, Introduzione a H. Kelsen, Sozialismus und Staat, Leipzig, Hirschfeld, 1923, tr. it. Socialismo e Stato, Bari, De Donato, 1978, pp. IX-CLV.
[15] M. Einaudi, La protezione della Costituzione, in «La Riforma Sociale», Torino, 1931, pp. 640-644 (è la recensione di C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Tübingen, Mohr, 1931).
[16] C. Curcio, Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt, in «Lo Stato», a. I, fasc. IV, 1930, pp. 480-484.
[17] Sono infatti apparsi in «Lo Stato» i seguenti articoli di Schmitt: La categoria del «Führer» come concetto fondamentale del diritto socialnazionalista (sic!), a. IV, 1933, pp. 834-839 (questo breve saggio, che riproduce il discorso di Schmitt al Congresso dei giuristi tedeschi in Lipsia, nel 1933, è seguito da una breve Nota della Direzione — cioè di Carlo Costamagna —, a p. 839, in cui Schmitt viene definito «consulente giuridico» del nazismo, e in cui si esalta il senso dello Stato proprio di Schmitt e del regime tedesco, con un’identificazione molto dubbia; il testo di Schmitt interessa comunque Costamagna perché può essere utilizzato contro i sostenitori italiani del cosiddetto «corporativismo integrale»); Stato totalitario e neutralità internazionale, IX, n. 11, 1938, pp. 605-612; Il concetto imperiale di spazio, a. XI, 1940, pp. 311-321; La lotta per i grandi spazi e l'illusione americana, a. XIII, 1942, pp. 173-180.
[18] Curcio, cit., pp. 483-484.
19] C. Schmitt, Die politische Theorie des Mythus, in Positionen und Begriffe. In Kampf mit Weimar, Genf, Versailles. 1923-1939, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1940, p. 17.
[20] Curcio, cit., p. 482 e p. 484.
[21] C. Schmitt, Politische Romantik, München-Leipzig, 1919.
[22] K. Löwith, cit., Lo stesso saggio appare anche, con qualche revisione formale, in Löwith, Critica dell'esistenza storica, tr. it. Napoli, Morano, 1967, con il titolo Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, pp. 113-161 (ma da p. 149 a p. 161 l’autore amplia lo scritto originario estendendo la critica della «vuota» decisione schmittiana anche ad Heidegger e a Gogarten); viene poi ristampato in «Nuovi Studi Politici», n. 1, 1977, pp. 3-36, ritradotto dal tedesco, con il titolo Decisionismo politico (e da questa edizione si citerà); esiste infine una ristampa identica a quest’ultima edizione in Löwith-Valitutti, La politica come destino, cit., pp. 7-40. Löwith si è inoltre a più riprese occupato dei rapporti di derivazione fra Max Weber e Schmitt, trovando una continuità fra la sociologia weberiana e il decisionismo schmittiano: cfr. Löwith, Max Weber und seine Nachfolger, in «Mass und Wert», a. III, 1940, pp. 166 ss., e Löwith, Max Weber und Carl Schmitt, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 27 Giugno 1964; per una discussione della bibliografia relativa alla questione, cfr. A. Negri, Studi su Max Weber 1956-65, in Annuario bibliografico di Filosofia del diritto, vol. I, Milano, Giuffrè, 1967, pp. 426-459, e particolarmente pp. 444-447, oltre che C. Roehrssen, La teoria del politico di Carl Schmitt: un tentativo di risposta alla crisi della liberaldemocrazia, in Materiali, a cura di G. Tarello, vol. IV, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 601-638, particolarmente la n. 4, p. 602.
[23] Löwith, cit., p. 9 e p. 33.
[24] Löwith, cit., pp. 11-12.
[25] C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», a. LVIII, n. 1, 1927, pp. 1-33; poi ristampato nel 1928, Berlin-Grunewald, Verlag Dr. W. Rothschild; una terza edizione appare, con varianti e aggiunte, nel 1932, München-Leipzig, Duncker & Humblot, e una quarta, presso lo stesso editore, nel 1933 (con alcuni cambiamenti in senso divulgativo e filonazista); la quinta edizione, Berlin, Duncker & Humblot, 1963, riproduce la terza (che è la più completa) con l’aggiunta di una premessa e di alcuni corollari. Cfr. anche la Bibliografia in appendice a Le Categorie del ‘Politico’, cit. ; del saggio esistono due trad. ital.: la prima, di D. Cantimori, dall’edizione del 1933, è in Schmitt, Principii politici del Nazionalsocialismo, Firenze, Sansoni, 1935 (su cui cfr. ultra, n. 34), pp. 43-108 (Sul concetto di politica); la seconda, di P. Schiera, dall’edizione del 1963 (=1932), è in Schmitt, Le categorie del 'politico', cit., pp. 87-208 (Il concetto di ‘politico'). Sull’alternanza di ‘politica' e ‘politico', cfr. ultra, n. 34, il rinvio a Tommissen.
[26] C. Schmitt, Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1932, tr. it. Stato, Movimento, Popolo, in Principii politici del Nazionalsocialismo, cit., pp. 175-231; Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, tr. it. Il Concetto d’Impero nel Diritto Internazionale, Roma, Istituto Nazionale di Cultura fascista, 1941; e, in generale, la produzione degli anni ‘30 e dei primi anni ‘40, compresa quella raccolta in Positionen und Begriffe, cit. Per il «ripensamento», cfr. Ex captivitate salus. Erfahrungen der Zeit 1945-47, Köln, Greven Verlag, 1950, oltre che Theorie des Partisanen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963, e infine Premessa all’edizione italiana, Le Categorie del ‘Politico’, cit., pp. 21-26.
[27] Löwith, cit., pp. 15, 17, 33.
[28] Löwith, cit., p. 32.
[29] D. Cantimori, La politica di Carl Schmitt, in «Studi Germanici», a. I, 1935, n. 4, pp. 471-489: cfr. n. 1, p. 476.
[30] Sulla razionalizzazione come progressiva perdita di sostanzialità, sia pure con opposti accenti, cfr. M. Cacciari, Intransitabili Utopie, Appendice di H. von Hofmannsthal, Der Turm, Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 1958, tr. it. La Torre, Milano, Adelphi, 1978, pp. 155-226.
[31] L’espressione è di F. Mercadante, cit., p. 132; cfr. Löwith, cit., p. 29.
[32] Ma contro questa interpretazione, cfr. E. Niekisch, Das Reich der niederen Dämonen, Hamburg, RowohIt Verlag, 1953, tr. it. Il regno dei demoni, Milano, Feltrinelli, 1959, il quale sottolinea invece di Schmitt l’educazione intellettuale cattolica, l’eleganza stilistica inconsueta in Germania, e la sua influenza accademica — grandissima — di carattere «latino-ecclesiastico»; lo stesso antisemitismo di Schmitt sarebbe più cattolico che tedesco, un momento della «sempre rinascente lotta di Roma contro Giuda» (pp. 335-342). Naturalmente, Niekisch è fortemente critico verso Schmitt come persona e verso la sua adesione al nazismo (cfr., tra l’altro, p. 155), ma la sua interpretazione appare acutissima proprio nello smentire l’accusa di «irrazionalismo» e di «barbarie», e nel porre in evidenza quanto di «formato» e di «ordinato» è presente e operante nel pensiero schmittiano. Su Schmitt come filosofo cattolico dell’ordine, sulla scorta di Donoso Cortès, cfr. tra gli altri W. A. Dalimayr, Epimeteo cristiano o Prometeo pagano?, in «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 1958, pp. 657-679 e P. Tommissen, Carl Schmitt e il ‘renouveau’ cattolico nella Germania degli Anni Venti, in «Storia e Politica», a. XIV, n. 4, 1975, pp. 481-500. Sulla mancata recezione in Italia di questo aspetto decisivo del pensiero di Schmitt, cfr. ultra, e anche la n. 246.
[33] O. Brunner, Land und Herrschaft, Wien, 1965, pp. 11, 49, 132-137.
[34] C. Schmitt, Principii politici del Nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, cit. ; comprende, oltre che una Prefazione di A. Volpicelli (pp. III-X), anche le Note sul Nazionalsocialismo di Cantimori (pp. 1-42), importanti per l’inquadramento storico-culturale del fenomeno (erano già apparse in "Archivio di Studi corporativi", 1934, a. V, pp. 291-328), e i seguenti saggi di Schmitt: Sul Concetto di politica (tr. it. di Der Begriff des Politischen, dalla quarta edizione del 1933), Compagine statale e crollo del secondo Impero tedesco. La vittoria del borghese sul soldato (Staatsgefüge und Zusammenbruch des zweiten Reiches. Der Sieg des Bürgers über den Soldaten, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1934), Stato, movimento, Popolo. Le tre membra dell’unità politica (Staat, Bewegung, Volk, cit.). Sulla traduzione di Cantimori, solitamente giudicata ineccepibile, cfr. le riserve di P. Tommissen, Contributions de Carl Schmitt a la polémologie, in «Cahiers Vilfredo Pareto-Revue européenne des sciences sociales» a. XVI, 1978, n. 44 (Miroir de Carl Schmitt), pp. 141-170, e particolarmente n. 19 p. 148 (lo stesso articolo, in tr. it. parziale e incompleta, con il titolo Il concetto del "politico" secondo Carl Schmitt, sta in "Nuovi Studi politici", 1978, a. VIII, n. 4, pp. 67-82).
[35] M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, Bari, De Donato, 1977, p. 123; cfr. dello stesso autore, Intellettuali e fascismo. Note su Delio Cantimori, in «Studi Storici», a. XVII, n. 1, 1976, pp. 56-93, e inoltre Delio Cantimori: storiografia e politica, in «Rivista di Filosofia», n. 3, ottobre 1976, pp. 522-530. Sullo stesso tema, cfr. anche E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 199-200, oltre che l’utilissimo G. Miccoli, Delio Cantimori; la ricerca di una nuova critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970.
[36] D. Cantimori, La Cultura come problema sociale, in «Vita Nova», a. VI, 1930, pp. 85-91. Il titolo dell’articolo è dato dal tema del IV Congresso annuale della Federazione Internazionale delle Unioni Intellettuali, tenutosi a Barcellona l’anno precedente, sul quale Cantimori riferisce.
[37] Dapprima nella forma di una conferenza al Congresso di Barcellona, nell'Ottobre 1929, poi pubblicato nella «Europäische Revue» nel dicembre dello stesso anno col titolo Das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen; dal 1932 compare come Appendice a Der Begriff des Politischen; tr. it. in Principii politici del Nazionalsocialismo, cit., e in Le Categorie del ‘Politico’, cit., pp. 167-183, col titolo L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni.
[38] Cantimori, La Cultura come problema sociale, cit., p. 86
[39] Cantimori, cit., pp. 85 e 87.
[40] Cantimori, cit., p. 88.
[41] Cantimori, La politica di Carl Schmitt, cit.
[42] Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio sul Delio Cantimori, cit., pp. 49-50.
[43] Ciliberto, cit., pp. 55-56, e Cantimori, La politica di Carl Schmitt, cit., pp. 476 e 480.
[44] Cantimori, Recensione di Schmitt, Der Begriff e di Staat, Bewegung, Volk, in "Leonardo", a. V, 1934, pp. 417-419; fortemente critico verso il rapporto cultura/politica quale si delinea nello Schmitt è invece Cantimori, in Recensione di E. Codignola, Il rinnovamento spirituale dei giovani, Milano, Mondadori, 1933, in «Leonardo», a. V, 1934, pp. 365-368.
[45] Cfr. su questo ambito politico-culturale, oltre alle già cit. Note sul Nazionalsocialismo, anche — sempre di Cantimori — Deutscher Sozialismus, in «Studi Germanici», a. I, 1935, n. 5-6, pp. 597-630, e altri saggi su Jünger e Moeller van den Bruck, nella stessa rivista.
[46] Cantimori, cit., p. 488.
[47] G. Schwab, The Challenge of the Exception, Berlin, Duncker & Humblot, 1970, p. 138.
[48] Ciliberto, cit., p. 91. Sulle accuse di «Das Schwarze Korps» a Schmitt, cfr. Schwab, cit., pp. 139-141.
[49] Cantimori, cit., pp. 481 e 486.
[50] Cantimori, cit., p. 489.
[51] Cantimori, cit., p. 482.
[52] Cantimori, Recensioni, in «Studi Germanici», a. II, 1937, n. 3, pp. 334-336, particolarmente p. 335.
[53] Cantimori, Recensione di C. Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1938, in «Studi Germanici», a. III, 1938, n. 3, pp. 210-215.
[54] Cantimori, Recensione, cit., p. 211.
[55] Cantimori, Recensione cit., pp. 211-213.
[56] Cantimori, Recensione cit., p. 214.
[57] Cantimori, Studi di Storia, Torino, Einaudi, 1959, pp. 209-210, nel capitolo Le interpretazioni tedesche di Marx nel periodo 1929-1945.
[58] Cantimori, Studi di Storia cit., p. 210. Sull’identificazione Naphta-Schmitt, Cantimori si era già espresso nel saggio del 1935; l’ebreo misticheggiante e anarchico della Montagna Incantata di Thomas Mann verrà poi confuso da Cantimori con Fiala (lo pseudonimo di K. Löwith), in Studi di Storia, cit., p. 739; su tale lapsus, cfr. G. Sasso, Leo Naphta e Hugo Fiala, in «La Cultura», a. XII, 1974, pp. 100-112.
[59] A. Volpicelli, Prefazione a Principii politici del Nazionalsocialismo, cit.
[60] Schmitt passa infatti dalla considerazione della politica come sistema di delimitazione — attraverso ben definite linee d’amicizia e d’inimicizia — di grandi spazi imperiali (posizione che si presta indubbiamente all’«utilizzazione» polemico/propagandistica) a concepire il ‘politico’ come ratio della divisione, produzione, appropriazione. Cfr. Staatliche Souveränität und freies Meer. Über den Gegensatz von Land und See im Völkerrecht der Neuzeit, in Das Reich und Europa, Leipzig, Koehler & Amelang, 1941, pp. 91-117, tr. it. (parziale) Sovranità dello Stato e libertà dei mari, in «Rivista di Studi politici internazionali», a. VIII, 1941, pp. 60-91; sullo stesso argomento, cfr. anche Il concetto imperiale di spazio cit., e Il concetto di Impero nel diritto internazionale cit. Per la posizione successiva, cfr. Der Nomos der Erde in Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Köln, Greven Verlag, 1950, e Nehmen/Teilen/ Weiden. Ein Versuch, die grundfragen jeder Sozial — und Wirtschaftsordnung vom NOMOS her richtig zu stellen, in «Gemeinschaft und Politik. Zeitschrift für soziale und politische Gestaltung», a. I, 1953, n. 3 pp. 18-27, tr. it. Appropriazione/Divisione/Produzione. Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale a partire dal «nomos», in Le Categorie del ‘Politico", cit., pp. 295-312.
[61] F. Battaglia, Stato, politica e diritto secondo Carl Schmitt, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», a. XVI, 1936, pp. 419-423. Una fuggevole citazione di Schmitt è presente anche in Battaglia, Storia delle dottrine politiche, Roma, Foro Italiano, 1936, p. 57, là dove si parla di «rinnovate espressioni hobbesiane». È invece significativo che Schmitt sia completamente assente da una trattazione che sembrerebbe assai propizia come Battaglia, La sovranità e i suoi limiti, in Studi giuridici in onore di Santi Romano, Padova, Ceda, 1940, pp. 163-193.
[62] Battaglia, cit., p. 423.
[63] Con un intervento giudicato da Mercadante «una delle note più tetre e insane della sua carriera», cfr. Mercadante, cit., p. 71. Cfr. Schmitt, I caratteri essenziali dello Stato nazionalsocialista, in AA. VV. Gli Stati europei a partito politico unico, a cura del Circolo giuridico di Milano, Panorama Casa Editrice Italiana, Milano, 1936, pp. 37-52.
[64] Infatti, nel Dizionario di Politica, a cura del Partito Nazionale Fascista, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1940, Schmitt è fuggevolmente citato soltanto sotto la voce Stato (C. Costamagna), Dittatura (C. Curcio), Weimar (D. Cantimori); del resto, anche l’Enciclopedia Italiana accenna a Schmitt soltanto sotto la voce Costituzione (Donato Donati) e Nazionalsocialismo (C. Antoni).
[65] Schmitt collaborò infatti alla redazione della cosiddetta Ermächtingungsgesetz del 24 Marzo 1933, la «costituzione provvisoria» (ma in realtà definitiva, cfr. Collotti, La Germania nazista, Torino, Einaudi, 19735, p. 81) del III Reich (cfr. Cantimori, Recensioni, cit., p. 335); e partecipò anche alla elaborazione della legge sui Reichsstatthalter del 7 Aprile 1933 (cfr. Collotti, cit., p. 93, e Pierandrei, La politica e il diritto nel pensiero di Carl Schmitt, in Appendice a Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, cit., pp. 95-143, e soprattutto p. 118).
[66] Oltre ai lavori già cit., cfr. Schmitt, Il concetto di pirateria, in «La Vita Italiana», a. XXVI, 1938, pp. 189-194, e Inter pacem et bellum nihil medium, in «La Vita Italiana», a. XXVII, 1939, pp. 637-641 (ritradotto col titolo Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, in Le Categorie del ‘Politico’, cit., pp. 193-203), oltre, naturalmente, il libro del 1941.
[67] J. Evola, La guerra totale, in «La Vita Italiana», a. XXV, 1937, fasc. CCXCVI, pp. 561-568.
[68] M. Claremoris, La guerra totale, in «La Vita Italiana», a. XXV, 1937, fasc. CCXCVIII, pp. 725-729.
[69] Evola, A proposito di ‘guerra totale’, in «La Vita Italiana», a. XXXVI, 1938 fasc. CCXCIX, pp. 193-194 (in appendice a Schmitt, Il concetto di Pirateria, cit.).
[70] Evola, Modernità di Hobbes?, in «Lo Stato», a. X, 1939, n. 1, pp. 24-33 (correzione, in senso spiritualistico e tradizionalistico, del rapporto cittadino/Stato individuato da Schmitt in Hobbes): Evola, Per un vero ‘diritto europeo’, in «Lo Stato», a. XII, fasc. I 1941, pp. 21-29. Si tratta di uno dei numerosi saggi dedicati al problema dell’Ordine Nuovo, frequenti in quegli anni nella cultura italiana, per i quali cfr. ultra, n. 86. Lo spunto per questo articolo è fornito a Evola da Schmitt, Die Auflösung der europäischen Ordnung im ‘International Law’, in «Deutsche Rechtswissenschaft», a. V, 1940, n 4, pp. 267-278, con il quale l’italiano concorda per le critiche al concetto — ritenuto di origine democratica e imperialistica — di International Law, atomistica e astratta, ben diversa dal Jus Publicum Europaeum, la cui concretezza ordinativa sarà possibile restaurare soltanto con un Nuovo Ordine fondato non più sullo Stato ma sugli imperi e sulla gerarchia tra popoli. Ancora una volta l’attenzione per Schmitt è mediata da una forte componente ideologica, che lascia sullo sfondo la specifica valenza ‘scientifica’ del pensiero schmittiano e i suoi complessi presupposti.
[71] Mentre non pare che Croce e la sua scuola se ne siano esplicitamente occupati, se si eccettuano gli accenni presenti in C. Antoni, voce Nazionalsocialismo in Enciclopedia Italiana, cit., e le posizioni di Valitutti, su cui cfr. ultra. E neppure sul versante cosiddetto «critico» del fascismo, quello più o meno legato a Bottai, pare possibile rilevare una diretta influenza schmittiana.
[72] C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Milano Giuffrè, 1940.
[73] Mortati, cit., pp. 25-64.
[74] Mortati, cit., pp. 55-58.
[75] Mortati, cit., pp. 55-56.
[76] Mortati, cit., p. 56.
[77] Mortati, cit., p. 57.
[78] Mortati, cit., p. 58.
[79] Mortati, cit., p. 87.
[80] Mortati, cit., pp. 84-87.
[81] Mortati, cit., pp. 31-38, soprattutto p. 37.
[82] Mortati, cit., pp. 74-77.
[83] Mortati, cit., p. 89; ma questo tipo di critica è vera semmai soltanto per lo Schmitt decisionista, mentre nel suo complesso il pensiero schmittiano appare piuttosto segnato dal tema prevalente dell’ordine, sottolineato anche dal Mortati più tardo: cfr. Mortati, Brevi note sul rapporto fra costituzione e politica nel pensiero di Carl Schmitt, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», Milano, Giuffrè, 1973, a. II, pp. 511-532, sul quale vedi ultra.
[84] Mortati, La Costituzione, cit., pp. 89-90 e p. 100.
[85] È pertanto da ritenere che la più cospicua e soprattutto la più organica presenza di Schmitt nella cultura italiana si articoli attorno al tema della costituzione materiale, assai diffuso nella nostra dottrina costituzionalistica, anche se si tratta di una ‘fortuna’ notevolmente mediata e condizionata dalla lettura di Mortati, e pertanto in un certo senso di seconda mano o sotterranea.
[86] Tra la fine degli anni ‘30 e i primi anni ‘40 si diffonde anche in Italia il dibattito giuridico-politico sui temi dell’Impero, dello spazio vitale e dell’Ordine Nuovo, mediato soprattutto da Triepel e da Schmitt, i cui saggi sull’argomento trovano discreta circolazione nella cultura italiana più politicamente impegnata; cfr., fra gli altri, Costamagna, L’Idea dell’Impero, in «Lo Stato», a. VIII, 1937, pp. 193-206; G. Perticone, Il problema dello ‘spazio vitale’ e del ‘grande spazio’, in «Lo Stato», a. XI, 1940, pp. 522-531; Costamagna, Autarchia ed Etnarchia nel diritto dell’ordine nuovo, in «Lo Stato», a. XII, 1941, pp. 1-20; Evola, Per un vero ‘diritto europeo’, cit. ; Panunzio, Prime linee di una teoria dell’Impero, in «Rivista Internazionale di Filosofia del diritto», a. XX, 1940, pp. 206-213; Ballarati, Verso una nuova sintesi europea, in «Dottrina fascista», 1941, pp. 40 sgg. ; L. Lavia, Lo ‘spazio vitale’ nella dottrina e nel sistema del nostro diritto pubblico, in «Rivista di diritto pubblico», 1941, pp. 357-377; infine l’importante opera del gesuita A. Messineo, Spazio vitale e Grande spazio, Roma, La civiltà Cattolica, 1942, decisamente critica verso quel dinamismo internazionale che si fondi sopra il fatto compiuto, la guerra d’aggressione e il diritto della forza, dimenticando il concetto naturale e razionale di giustizia fra gli Stati. Le «teorie paganeggianti» dello spazio vitale sono in ultima istanza generate dallo sganciarsi della volontà umana da qualsiasi norma, «abbandonata a se stessa, senza altra guida che il suo stesso volere» (pp. 6-21). Ma oltre a queste critiche di stretta derivazione cattolica, Messineo commenta acutamente le contraddizioni nelle quali cadono i sostenitori delle teorie spaziali, tra i quali è spesso citato anche Schmitt, in ordine al concetto di sovranità statuale: «la concezione spaziale, infatti, ricorre a due principi contrastanti: mantiene da un lato il concetto di assoluta sovranità in favore dei pochi Stati, ai quali crede di dover attribuire la supremazia entro un grande spazio; dall’altro richiede che questo medesimo concetto venga riveduto e corretto, attenuato e limitato, quando si tratta dei piccoli Stati» (p. 140). Esiste inoltre, secondo Messineo, contraddizione fra i principi di gerarchia e di equilibrio fra gli Stati, soprattutto in Europa (p. 147 sgg.), così che tutta la teoria spaziale «presenta larghe incrinature, nelle quali si può agevolmente insinuare una critica accurata» (p. 150).
[87] L. Vannutelli Rey, Prefazione a Il concetto d’Impero, cit., pp. 1-12.
[88] Vannutelli Rey, cit., p. 6.
[89] F. Pierandrei, La politica e il diritto nel pensiero di Carl Schmitt, cit.
[90] Pierandrei, cit., pp. 104-107.
[91] Pierandrei, cit., p. 97. Come, in seguito, anche altri autori, Pierandrei pare attribuire al testo di Teologia politica e di Das Zeitalter il valore di vera e propria «filosofia della storia».
[92] Pierandrei, cit., p. 99.
[93] Pierandrei, cit., p. 107.
[94] Pierandrei, cit., pp. 110-111.
[95] Pierandrei, cit., p. 127.
[96] Schmitt, Stato, Movimento, Popolo, cit., pp. 227-231, e I caratteri essenziali dello Stato nazionalsocialista, cit., p. 50.
[97] Pierandrei, cit., pp. 134-138.
[98] Pierandrei, cit., p. 141 e, per le riserve sul concetto di «sicurezza giuridica», pp. 125-128.
[99] R. Monaco, Gerarchia e parità fra gli Stati nell’ordinamento internazionale, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 1942, pp. 58-75.
[100] Monaco, cit., pp. 68 e 70.
[101] Monaco, cit., p. 69.
[102] Monaco, cit., p. 68.
[103] Tra le molte opere sull’argomento, ricordiamo R. Treves, La filosofia di Hegel e le nuove concezioni tedesche del diritto e dello Stato, Annali della R. Università di Messina, 1936 (cfr. Recensione di F. Lopez de Oñate, in «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», a. XVI, 1936, pp. 318-320), affermante la totale estraneità del pensiero giuridico schmittiano rispetto a Hegel, stante la non-dialetticità e la «concretezza naturalistica» di Schmitt; Pierandrei, La legalità, i diritti subiettivi pubblici, la giustizia amministrativa nell’evoluzione della dottrina germanica, parte II, nelle «Memorie dell’Istituto giuridico della R. Università di Torino», 1940; P. Biscaretti di Ruffia, Il diritto costituzionale dell’Impero germanico nei primi cinque anni di regime nazionalsocialista, in «Archivio di Diritto Pubblico», a. III, 1938, pp. 111-160, Padova, Cedam, molto cauto nel contrapporre al diritto nazista (ricostruito dai testi dello Höhn, rispetto al quale Schmitt è considerato su posizioni compromissorie) il «metodo esatto e preciso» e la romana aequitas del nostro diritto; ancora di Biscaretti sono da ricordare sia l’importante Alcune osservazioni sul concetto politico e sul concetto giuridico della dittatura, in «Archivio di diritto pubblico», a. I, 1936, pp. 483-524 (cospicua è la presenza dello schmittiano Die Diktatur), sia L’esposizione dommatica del diritto costituzionale nella recente letteratura germanica, inglese, nordamericana e francese (1930-1940), in «Jus», aprile-giugno 1940, pp. 303 sgg., sia infine le voci Dittatura nel Nuovo e nel Nuovissimo Digesto, tutti saggi utilissimi sia per la sistemazione metodologica che per la ricca informazione bibliografica. Sullo stesso argomento, cfr. anche Cataluccio, Lineamenti di diritto pubblico nazionalsocialista, Roma, 1935, e, dello stesso, Saggio sul nuovo diritto pubblico tedesco, in «Rivista di Diritto Pubblico», 1935, pp. 485-499; M. Bendiscioli, Diritto romano e diritto germanico, in «Studium», agosto 1934; Lo Verde, Il nazionalsocialismo, Palermo, 1940; Zangara, Il Partito unico e il nuovo Stato rappresentativo in Italia e in Germania, in «Rivista di Diritto Pubblico», 1938, pp. 88-111; G. Ballarati, Il partito nazionalsocialista. Organizzazione giuridica e significato politico, Roma, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1937; Costamagna, La nuova scienza dello Stato, in «Lo Stato», a. VIII, 1937, pp. 129-146 (particolarmente p. 143).
[104] C. Lavagna, La dottrina nazionalsocialista del diritto e dello Stato, Milano, Giuffrè, 1938 (cfr. Recensione di D. Cantimori in «Studi Germanici», a. III, 1938, n. 3, pp. 215-219).
[105] Lavagna, cit., pp. 15-36 e pp. 171-191.
[106] Lavagna, cit., pp. 81-103 e particolarmente pp. 86-88.
[107] C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1934, tr. it. (parziale) I tre tipi di pensiero giuridico, in Le Categorie del ‘Politico’ cit., pp. 245-275.
[108] Lavagna, cit., p. 96.
[109] Lavagna, cit., p. 177, e, sul valore etico-politico ma non giuridico del concetto nazista di diritto e di Stato, p. 185.
[110] Lavagna, cit., p. 191.
[111] F. Lopez de Oñate, La trascendenza della norma alla società, (1942), in La certezza del diritto, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 101-107. È da notare che non soltanto l’autore è cattolico, come Messineo, Bendiscioli, Olgiati e Nicola (sugli ultimi due vedi ultra), ma che appartiene specificamente al gruppo di Mortati e Capograssi (del quale cfr. un accenno a Schmitt in L’attualità di Vico, (1943), in Opere, vol. IV, Milano, Giuffrè, 1959, p. 397).
[112] Lopez de Oñate, cit., p. 102.
[113] Lopez de Oñate, cit., p. 103.
[114] Lopez de Oñate, cit., p. 105.
[115] Lopez de Oñate, cit., pp. 106-107.
[116] F. Olgiati, Il concetto di giuridicità nella scienza moderna del diritto, Milano, Vita e Pensiero, 1943, pp. 221-233. Gli interventi su Schmitt di pensatori specificamente cattolici sono, come si è detto, relativamente numerosi, ma sostanzialmente disorganici e fra di loro non coordinati: non c’è insomma un fronte comune né a favore né contro Schmitt, la cui presenza nel pensiero cattolico resta proprio per questo marginale. Un rapporto notevolmente più approfondito con Schmitt è invece presente in mons. G. B. Nicola, Introduzione a A. Rosmini, Saggi di scienza politica, parte I, I massimi criteri politici, Torino, Paravia, 1933, pp. VII-CXXV. Sul tema del rapporto fra Rosmini e il pensiero politico romantico e reazionario, Nicola accoglie ampiamente le tesi schmittiane, e dimostra di conoscere sia Politische Romantik sia Politische Theologie (cfr. soprattutto pp. LXXVII, XCIX e le note a pp. CIII-CXXV).
[117] C. Schmitt, Der Führer schützt das Recht, in «Deutsche Juristen-Zeitung», a. XXXIX, 1934, n. 15, pp. 945-950.
[118] Olgiati, cit., p. 483; per quanto riguarda il pensiero giuridico tomistico, cfr. Olgiati, Il concetto di giuridicità e San Tommaso d’Aquino, Milano, Vita e Pensiero, 1943.
[119] Su Cantimori e la «terza via», cfr., oltre a Ciliberto, cit., anche L. Canfora, Classicismo e fascismo, in AA VV., Matrici culturali del fascismo, Bari, 1977, pp. 85-111, soprattutto pp. 93-95, contenente tra l’altro i riferimenti d’obbligo a R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1962.
[120] Su questo tema, cfr., tra gli altri, H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, 1951, tr. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967; F. Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, New York, Oxford University Press, 1942, tr. it. Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Feltrinelli, 1977.
[121] Oltre ai lavori segnalati nel testo, sono da ricordare per questi anni — cioè fino al 1972 — alcuni fugaci accenni a Schmitt in G. Cabibbe, Civiltà liberale e civiltà sindacale, in «Lo Stato Moderno», a. IV, 1947, pp. 416-418, e, dello stesso, Contemporaneità di G. Sorel, in «Nuova Antologia», 1950, n. 6, pp. 154-164; alcune citazioni bibliografiche sono anche presenti in G. Merli, De Bonald, Roma, ERI, 1972 (cita Politische Romantik dalla traduzione francese del 1928) e in Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo, il socialismo, Milano, Rusconi, 1972 (il curatore, Allegra, ricorda i saggi schmittiani sul reazionario spagnolo). G. De Rosa dà inoltre un giudizio fortemente negativo della lettura schmittiana di Donoso Cortés nella Introduzione a Il potere cristiano, Brescia, Morcelliana, 1964. Ma Schmitt appare anche in A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino, 1964, e in P. Treves, Profeti del passato, Firenze, Barbera, 1952.
[122] Marcuse, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung, in «Zeitschrift für Sozialforschung», a. III, n. 2, 1934, poi in Kultur und Gesellschaft, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1965, tr. it. La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Cultura e Società, Torino, Einaudi, 1969, pp. 3-41, e particolarmente pp. 30-31 e pp. 34-37; Marcuse pone in rilievo la dipendenza di Schmitt da Heidegger e il contrasto di questa posizione rispetto alla dialettica hegeliana (p. 41). Analoghe considerazioni in Marcuse, Reason and Revolution, New York, Oxford University Press, 1941, tr. it. Ragione e Rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 453 e 460. Le dure critiche marcusiane a Schmitt non sono tuttavia disgiunte da una grande considerazione scientifica verso quello che è definito «l’unico teorico politico serio del nazionalsocialismo». G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau-Verlag, Berlin, 1954, tr. it. La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1974, pp. 662-672 e pp. 808-810. La critica allo status quo liberal-capitalistico operata da Schmitt è definita di stampo imperialistico-reazionario, fondata su «basi esistenzialistiche», e si risolve in una «caricatura messa insieme con i pezzi deformati dal materialismo storico» (p. 810). Celebre è poi il giudizio di Lukács (p. 672): «Una volta i professori tedeschi erano chiamati la guardia spirituale degli Hohenzollern; ora sono diventati le S. A. e S. S. spirituali».
[123] S. Cotta, Filosofia della politica e filosofia del diritto, in Tradizione e novità della Filosofia della politica, Quaderni degli annali della Facoltà di Giurisprudenza, Bari, 1970, pp. 66-79.
[124] Cotta, cit., e Replica, ivi, pp. 108-118.
[125] Ma su questo tema si era già espresso Lopez de Oñate, cit.
[126] A. Passerin d’Entreves, Intervento, in Tradizione e novità, cit., pp. 93-97, e particolarmente p. 95.
[127] B. De Giovanni, Intervento, in Tradizione e novità, cit., pp. 98-99.
[128] B. De Giovanni, Hegel e il tempo storico della società borghese, Bari, De Donato, 1970.
[129] Enciclopedia Filosofica, a cura del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, 1957 sgg., vol. IV, pp. 394-395 (lo stesso articolo, ridotto, appare anche nel Dizionario dei Filosofi, Sansoni, Firenze, 1976, p. 1060); fra le opere di carattere generale, cfr. inoltre le seguenti: Il Pensiero politico, a cura di U. Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 1131-1142 (lettura fortemente ideologica, come appare dalla breve presentazione delle pagine antologiche, tratte dalla traduzione di Cantimori del 1935). Politica, II, a cura di F. Valentini, in Storia antologica dei problemi filosofici, diretta da Ugo Spirito, Sansoni, Firenze, 1970: Schmitt è trattato principalmente nel cap. «Nazionalismo e fascismo» (pp. 675-718), ed è definito «uno dei principali teorici del nazionalsocialismo» (p. 714) e considerato il grande avversario di Kelsen, del kantismo e dell’intellettualismo (p. 676). M. Giovana, I totalitarismi, in Storia delle idee economiche, politiche, sociali, diretta da Luigi Firpo, Torino, UTET, 1972, vol. VI, pp. 249-325 (breve riferimento a Schmitt a p. 285). In Scienze Politiche, I, a cura di A. Negri, Milano, Feltrinelli, 1970, Schmitt è citato da L. Ferrari Bravo, sotto la voce Controllo di costituzionalità e corte costituzionale, pp. 59-68, come esponente del decisionismo (p. 67): in ordine al rapporto con Kelsen, si sostiene che «a causa dello spessore ideologico che ispira le varie posizioni [...] Kelsen e Schmitt sviluppano delle argomentazioni che hanno più punti in comune di quanto non appaia a prima vista» (p. 67). Schmitt è inoltre citato da A. Baratta, Divisione dei poteri, in Scienze politiche, I, cit., p. 129, e dallo stesso in Stato di diritto, ivi, alle pp. 514 e 518. Cenni a Schmitt sono presenti anche in Nuove questioni di storia contemporanea, Milano, Marzorati, 1968, vol. I, p. 149 (M. Sernini, L’evoluzione del pensiero politico: cenni bibliografici) e p. 432 (M. Bendiscioli, Chiesa e società nei secoli XIX e XX).
[130] Novissimo Digesto Italiano, Torino, UTET, 1957 e sgg. ; voci Costituzione, di A. Origone; Dittatura, di P. Biscaretti di Ruffia; Nazionalsocialismo, di G. Perticone; Stato (teoria generale), di G. Perticone.
[131] Novissimo Digesto, cit., voce Stato d’Assedio, di F. Modugno e F. Nocilla, vol. XVIII, 1971, pp. 273-291.
[132] Novissimo Digesto, cit., voce Schmitt (non firmata), vol. XVI, 1969, p. 690.
[133] Enciclopedia del Diritto, Milano, Giuffrè, 1977, vol. XXVII, voce Necessità-Diritto pubblico, P. G. Grasso, pp. 866-881, ricca di rinvii alle opere giuridiche di Schmitt (Dittatura, Teologia politica, I tre modi di pensiero giuridico, Il protettore della costituzione). Schmitt è anche spessissimo presente, come riferimento dottrinale, in P. G. Grasso, Il principio «nullum crimen sine lege» nella costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 1972.
[134] Enciclopedia del Diritto, cit., vol. XI, voce Costituzione di C. Mortati, particolarmente p. 161.
[135] Enciclopedia del Diritto, cit., vol. XIII, voce Dittatura, di G. Sartori, soprattutto p. 371. Cfr. anche Sartori, Appunti per una teoria generale della dittatura, in Theory and Politics/Theorie und Politik. Festschrift zum 70. Geburtstag für Carl Joachim Friedrich, Haag, Martinus Nijhoff, 1973, pp. 456-485.
[136] Che non è certamente esaurito da queste brevi indicazioni; tracce della presenza di Schmitt sono in manuali di diritto pubblico (Biscaretti, Diritto Costituzionale, Napoli, Jovene, 19688, Biscaretti, Introduzione al Diritto Costituzionale comparato, Milano Giuffrè, 19702, oltre che in Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, Padova, Cedam, 19759, sul quale vedi ultra, n. 153), e in altre pubblicazioni a carattere giuridico: cfr. R. Treves, Diritto e Cultura, Memorie dell’Istituto giuridico dell’Università di Torino, 1947, pp. 16 sgg., e R. Treves, Stato di diritto e Stati totalitari, in Studi in onore di G. M. De Francesco, Milano, Giuffrè, 1957, vol. II, pp. 53-69 (particolarmente pp. 63-64). Infine cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, vol. I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, Il Mulino, 1976, soprattutto n. 7 pp. 48-49.
[137] G. Fassò, Storia della filosofia del Diritto, Bologna, Il Mulino, 1970, vol. III, pp. 380-382.
[138] Fassò, Tra positivismo e nazismo giuridico, in «Il Mulino», a. XX, 1971, n. 217, pp. 789-798.
[139] Fassò, Storia della Filosofia del Diritto, cit., p. 382.
[140] Schmitt, La notion de politique – Théorie du partisan, Paris, Calmann-Lévy, 1972 (pref. di J. Freund); Recensione in «Il politico», Università di Pavia, Marzo 1975, di Lina Venco. Dall'ambito culturale francese è stato tradotto in italiano L. Turenne, Carl Schmitt e il conservatorismo rivoluzionario in Germania, in «La Destra», gennaio 1973, pp. 31-53 (ampia presentazione di parte reazionaria del pensiero schmittiano, assunto con forte connotazione ideologica). Schmitt era già stato fatto conoscere in Francia fin dal 1936 da W. Gueydan de Roussel, che aveva tradotto e introdotto Légalité, Legitimité, Paris, Librairie Générale de droit et de jurisprudence (cfr. Recensione di D. Cantimori, in «Studi Germanici», 1937, a. II, n. 3, pp. 334-335); sempre Gueydan de Roussel traduce nel 1936 il discorso di Barcellona del 1929 (Das Zeitalter, cit.,) in «l'Année politique française et étrangère», a. XI, n. 4, 1936, pp. 274-289, e, nel 1942, il Begriff des Politischen, col titolo Considèrations politiques, Paris, Librairie Générale de droit et de jurisprudence (su questa traduzione, cfr. i rilievi fortemente critici di P. Tommissen, Contributions de Carl Schmitt a la polémologie, cit., pp. 144 e 148). Fra le opere francesi influenzate direttamente da Schmitt sono da ricordare J. Freund, L'essence du politique, Paris, Sirey, 1965, e R. Aron, Penser la guerre, Clausewitz, Paris, Gallimard, 1976, particolarmente le pp. 210-222 del vol. II (L'âge planétaire).
[141] Oltre a quella già cit. di L. Venco (che si riferisce, infatti, anche alla traduzione italiana del 1972), cfr. M. Fedele, in «La Critica sociologica», estate 1973, pp. 146-148; R. de Mattei, in «Il Tempo» dell'11 Marzo 1973; F. Perfetti, in «Il Giornale d'Italia» del 19 Maggio 1973; M. S. in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», n. 2, 1973, pp. 360-361; G. Fergola, in «Roma» del 30 Dicembre 1973; F. Valentini in «Paese Sera - Supplemento Libri» del 5 Ottobre 1973; A. Mignoli in «Rivista delle Società», a. XX, n. 1-2, 1975; L. Pellicani in «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 Giugno 1975; L. Albanese in «L'Unità» del 23 Dicembre 1975; C. Galli in «Il Resto del Carlino» del 31 Ottobre 1978; F. Perfetti in «Il Fiorino» del 24 Agosto 1975; più altre minori, o riproducenti queste stesse su altri quotidiani.
[142] G. Miglio, Presentazione di Le Categorie del «Politico», cit., pp. 7-14. Una traccia indiretta della ricezione di Schmitt come metodologo della storiografia costituzionale e amministrativa è forse presente già nell'importante saggio di Miglio, Premesse a una metodologia della storia amministrativa, in «Annali della fondazione italiana per la storia amministrativa», n. 1, 1964, pp. 11-19: l'autore infatti auspica una «comunicazione» fra la storia dell'amministrazione («tipologica» e «analogica» a un tempo) e la storia delle istituzioni, lamentando che quest'ultima non abbia progredito dal livello teorico raggiunto dalla «teoria giuridica fiorita fra il primo e il secondo quarto del Novecento» e dalle «posizioni dottrinali che da questa poi derivarono»; tale teoria, centrata sul concetto di «istituzione», pur avendo «lasciato intravvedere eccezionali possibilità di approfondimento e suggestivi nuovi panorami da scoprire», non ha dato grandi frutti forse perché la grande stagione del diritto pubblico europeo stava tramontando» (p. 17). È forse possibile che dietro queste espressioni e queste esigenze metodologiche si celi un riferimento indiretto anche a Schmitt, riferimento che costituirebbe in un certo senso la preistoria della Presentazione cit. E comunque da sottolineare che verso la fine degli anni '60 prende corpo una certa influenza di Schmitt nella metodologia della storiografia costituzionale e amministrativa, proprio attraverso la mediazione di Miglio e di P. Schiera (cfr. Ultra).
[143] Miglio, Presentazione, cit., p. 7.
[144] Miglio, cit., p. 13.
[145] Miglio, cit., ibidem.
[146] Miglio, cit., ibidem.
[147] C. Mortati, Brevi note, cit.
[148] Mortati, cit., p. 514.
[149] Mortati, cit., p. 516.
[150] Mortati, cit., p. 524.
[151] Mortati, cit., pp. 528-530.
[152] L'accusa di Mortati a Miglio (Mortati, cit., p. 515) si svolge proprio su questo punto, che «l'attuale scissione dell'unità dell'ordinamento giuridico statale in distinti centri di autorità» è un fenomeno «che non incide sulla configurazione delle categorie in discorso (scil. politica e diritto)».
[153] Oltre ai testi già discussi, bisogna vedere anche Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., vol. I, pp. 30 e 37, 58, 141, 387-388. In quest'opera si riconferma la «classica» posizione intorno allo Schmitt giurista, là dove si fanno rilevare — accanto all'apprezzabile distinzione schmittiana fra un senso assoluto e uno relativo del termine «costituzione» — le già lamentate incertezze sull'individuazione del soggetto portatore della decisione fondamentale e sul contenuto della medesima. Anche per quanto riguarda l'antitesi amico/nemico, Mortati torna ad affermare che essa vale soltanto come momento di crisi di un ordinamento, e pertanto solo come momento politico, estraneo al diritto e incapace, in quanto tale, di costituire il centro di gravità di una serie di istituzioni ordinate a un fine. Ampio favore viene invece riservato al concetto schmittiano di «neutralizzazione» e di Stato pluralistico/totale, oltre che alla definizione di dittatura.
[154] F. Mercadante, La democrazia dell'identità nella dottrina di Carl Schmitt, cit. ; cfr. Recensione di G. Locane, in «Intervento», Maggio 1975, pp. 73-80, e di C. Galli, in «Il pensiero politico», 1977, n. 3, p. 498. Qualche citazione di Schmitt è presente anche in Mercadante, Il regolamento della modalità dei diritti. Contenuto e limiti della funzione sociale secondo Rosmini, Milano, Giuffrè, 1975.
[155] Mercadante, La democrazia, cit., pp. 66-67.
[156] Mercadante, cit., p. 132.
[157] Mercadante, cit., pp. 70-71.
[158] Mercadante, cit., pp. 81-103.
[159] Mercadante, cit., p. 152.
[160] Mercadante, cit., p. 149.
[161] Mercadante, cit., pp. 111-115.
[162] Mercadante, cit., soprattutto pp. 103-109; a questo proposito, cfr. anche Mercadante, Discorsi sulla guerra: da C. Schmitt a A. Glucksmann, in «Revue européenne des sciences sociales - Cahiers Vilfredo Pareto», a. XVI, 1978, n. 44, pp. 123-140, e particolarmente n. 7, p. 125.
[163] Mercadante, La democrazia, cit., p. 139; ovvio il riferimento a Mortati, e non soltanto al saggio del 1973.
[164] Mercadante, cit., pp. 127 e 138.
[165] Mercadante, cit., p. 133.
[166] Mercadante, cit., pp. 144-146.
[167] Mercadante, Discorsi sulla guerra, cit.
[168] Mercadante, op. ult. cit., n. 7, p. 125 (già cit.); cfr. Petta, Schmitt, Kelsen, cit.
[169] Mercadante, cit., pp. 127-128.
[170] Mercadante, cit., pp. 129-130.
[171] Mercadante, cit., pp. 133-140.
[172] Interventi precedenti possono essere considerati quelli di Negri, De Giovanni, Cerroni, Albanese, nonché gli art. cit. di Scienze Politiche, vol. I; a questi va aggiunto U. Cerroni, Teoria politica e socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 204 (svalutazione di Schmitt, che non avrebbe un organico pensiero filosofico reazionario, a differenza di Gentile).
[173] A. Bolaffi, Recensione a Schmitt, Le Categorie del 'Politico', cit., in «Democrazia e diritto», 1973, n. 4, pp. 306-321.
[174] C. Schmitt, Donoso Cortés in gesamteuropäische Interpretation. Vier Aufsätze, KöIn, Greven Verlag, 1950, soprattutto il cap. IV del saggio omonimo.
[175] Bolaffi, cit., p. 317.
[176] Bolaffi, cit., p. 318.
[177] Bolaffi, cit., n. 20, p. 314.
[178] Bolaffi, cit., pp. 317-318.
[179] Bolaffi, cit., p. 319; a questo proposito, cfr. anche Albanese, cit.
[180] Bolaffi, cit., n. 23, p. 316.
[181] Bolaffi, cit., p. 307.
[182] E. Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche, Piper Verlag, München, 1963, tr. it. I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971, p. 587 e pp. 595-629.
[183] C. Roehrssen, La teoria del politico di Carl Schmitt, cit.
[184] Roehrssen, cit., p. 609.
[185] Roehrssen, cit., p. 616. Ma, su di un iperpoliticismo di Marx — che gli impedirebbe di scorgere l'autonomia del 'sociale' e che lo renderebbe, da questo punto di vista simile, a Schmitt — cfr. L. Albanese, Iperpoliticismo di Marx, in «Il Leviatano», 1976, n. 2-3, pp. 54-58.
[186] Roehrssen, cit., pp. 625-626.
[187] Roehrssen, cit., pp. 630-633.
[188] C. Schmitt, L'epoca delle neutralizzazioni, cit., pp. 177-183, e I tre tipi di pensiero giuridico, cit., pp. 250-260, e Legalità e legittimità, cit., pp. 223-244.
[189] Schmitt, Il concetto di 'politico', cit., pp. 150-151.
[190] Schmitt, op. ult. cit., pp. 106-107.
[191] F. Valentini, Carl Schmitt o dell’iperpoliticismo, Prefazione a Schmitt, La Dittatura, cit., pp. VII-XXXI. Di Valentini cfr. anche Il pensiero politico contemporaneo, Bari, Laterza, 1979, nel quale le posizioni dell'autore su Schmitt (pp. 355-361) vengono sostanzialmente confermate.
[192] Valentini, Carl Schmitt, cit., p. XXV.
[193] Valentini, cit., pp. XXIX-XXX.
[194] M. Surdi, Pluralismo come dilemma: Carl Schmitt, una soluzione totalitaria per gli anni '30, in «Problemi del socialismo», IV serie, a. XVIII, 1977, n. 5, pp. 239-260.
[195] Surdi, cit., pp. 253 sgg.
[196] Surdi, cit., p. 257. Fra il pensiero di Schmitt e il New Deal (intervento «decisionale» e «politico» dello Stato nel territorio «neutrale» dell'economia, al di là di ogni formulazione «organicistica» del rapporto forma-Stato/sistema-della-società) istituisce una mediazione anche M. Cacciari, Intervista, in «Il Manifesto», 30 Maggio 1978.
[197] Surdi, cit., p. 260. Che l'esito nazi-fascista del pensiero schmittiano sia dovuto a una componente romantica è indubbiamente possibile; resta da stabilire in che rapporto tale componente si collochi rispetto alle tematiche, tutt'altro che romantiche, dell'ordine e dell'esclusione. Del resto già Curcio, cit., ascriveva al pathos romantico per la rivoluzione il potenziale fascista di Schmitt, senza tuttavia vedere in ciò la contraddizione con i temi più importanti del pensiero schmittiano. La posta in gioco è la possibilità di una lettura di Schmitt che non dipenda completamente dalla sua adesione personale al nazismo, che riesca a prescinderne pur spiegandola.
[198] L. Mangoni, Cesarismo, bonapartismo, fascismo, in «Studi storici», a. XVII, 1976, pp. 41-61: si vedano soprattutto le pp. 45-49, in cui, insistendo sulle ascendenze hobbesiano di Schmitt, si sottolineano, con Cantimori, i rapporti fra lo stesso Schmitt e gli ambienti reazionari borghesi non nazisti. Sul saggio nel suo complesso, cfr. S. Mastellone, Imperialismo e cesarismo, in «Il pensiero politico», a. XI, 1978, n. 2, pp. 257-262, critico soprattutto sul rapporto fra cesarismo e bonapartismo, termini la cui confusione non sarebbe da attribuire al pensiero borghese — Weber e Schmitt — come vorrebbe Mangoni, quanto piuttosto al marxismo e a Trotzski.
[199] P. Petta, Schmitt, Kelsen , cit.
[200] Petta, cit., n. 14, p. 515.
[201] Petta, cit., p. 514.
[202] Petta, cit., p. 545 e pp. 516-517.
[203] Petta, cit. Ibidem.
[204] Petta, cit., pp. 530-531, e Schmitt, Il concetto di 'politico', cit., p. 105.
[205] R. Racinaro, Introduzione a H. Kelsen, Socialismo e Stato, cit.
[206] Sul dibattito ideologico degli anni '20 e sui temi connessi della crisi di Weimar e dell'elaborazione del cosiddetto Sozialismus e dell'austromarxismo, cfr. fra gli altri, oltre ai titoli che verranno forniti in seguito, AA. VV., Weimar. Lotte sociali e sistema democratico nella Germania degli anni Venti, a cura di L. Villan, Bologna, Il Mulino, 1978; G. E. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Torino, Einaudi, 1977; G. Marramao, Austromarxismo e socialismo di sinistra tra le due guerre, Milano, La Pietra, 1977. Infine, recentissimi, G. Marramao, Il politico e le trasformazioni, Bari, De Donato, 1979 (su Schmitt le pp. 21-23), e Correnti ideali e forze politiche (a cura di P. Pombeni), Bologna, Il Mulino, 1979 (si vedano gli interventi di S. Sechi, pp. 245-259, e di I. Agnoli, pp. 289-311).
[207] Racinaro, cit., p. CXV e p. CLII.
[208] M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 26-27 e 175-177; Racinaro, cit., pp. CLII-CLV. Sull'associazione di Foucault a questo contesto, cfr. G. Marramao, Sistema politico, razionalizzazione, 'cervello sociale', in Discutere lo Stato, Bari, De Donato, 1978, pp. 255-270, e M. Cacciari, Trasformazione dello Stato e progetto politico, in «Critica marxista», a. XVI, n. 5, 1978, pp. 27-61.
[209] Su questo tema, che si coniuga a quelli del rapporto marxismo-teoria politica, della crisi dello Stato e al problema dell'egemonia e della centralità operaia — le discussioni, cioè, più avanzate dell'area marxista — cfr., oltre agli interventi più oltre citati nel testo, C. Mancina, Il dibattito sullo Stato. Marxismi a confronto, in «Critica marxista», a. XVI, n. 5, 1978, pp. 63-77 (con buona bibliografia), e inoltre: A. Negri, Proletari e Stato, Milano, Feltrinelli, 1976 (soprattutto le pp. 23-27); F. Stame, Società civile e critica delle istituzioni, Milano, Feltrinelli, 1977 (particolarmente pp. 7-14); A. Illuminati, Sull'autonomia del politico. Da Hobbes a Tronti, in «Aut-Aut», n. 165-166, 1978, pp. 152-157; R. Tomassini, Fabbrica-Stato e centralità operaia, in «Aut-Aut», cit., pp. 158-181 (come il precedente, si tratta di un intervento piuttosto critico). Inoltre, in «Critica Marxista», a. XVI, n. 1, 1978, M. Ghelardi (Mario Tronti e il 'politico', pp. 127-137), F. Apergi (Sulle origini di una sociologia marxista in Italia: il caso dei 'Quaderni Rossi', pp. 103-125), G. Prestipino ('Autonomia del politico' come anticipazione del sociale, pp. 139-145), R. Tosi (Politica e società civile nel dibattito sullo Stato contemporaneo, pp. 147-157), inseriscono i nuovi temi nel più tradizionale rapporto Stato-società.
[210] M. Tronti, Sull'autonomia del politico, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 16.
[211] Oltre a quelle già segnalate, cfr. L. Ferrajoli-D. Zolo, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Milano, Feltrinelli, 1978, in cui si accusano Tronti e Cacciari di teorizzare una forma di potere «teo-tecnocratica», disgiunta da ogni controllo popolare (soprattutto pp. 20-22 e 68-72); nella stessa opera è presente anche una ricca bibliografia sull'argomento.
[212] Sulla politica come «terreno della discontinuità», cfr. Tronti, cit., p. 11 e Cacciari, Trasformazione dello Stato, cit., pp. 27-36, oltre che Cacciari, Intransitabili Utopie, cit., passim. È da notare, tuttavia, che Racinaro, in op. cit., sottolinea proprio la «sostanzialità» del discorso schmittiano sul potere, in opposizione a Kelsen: ma in quel contesto premeva insistere sulla decisione in senso forte e antinormativo.
[213] Tronti, cit., p. 6.
[214] Tronti, cit., pp. 13-14. Sull'esigenza metodologica di rifare i conti col 'politico' a partire dalle origini dello Stato moderno, cfr. Stato e Rivoluzione in Inghilterra, a cura di M. Tronti, Milano, Il Saggiatore, 1977. Che Schmitt sia l'elemento indispensabile per questa operazione di 'archeologia' del 'politico' è testimoniato dalla sua larghissima presenza in A. Piazzi, Stato e proprietà nella teoria politica di Thomas Hobbes, in Stato e Rivoluzione, cit., pp. 7-100 (lettura di Hobbes come modernamente decisionistico, sulla scorta di La Dittatura, Le Categorie del 'Politico', e naturalmente di Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes) e in Tronti, Hobbes e Cromwell, ibidem, pp. 183-317 (sul celebre 'cristallo di Hobbes', cfr. pp. 287 sgg.). È infine da ricordare che in Appendice (pp. 319-327) a Stato e Rivoluzione, cit., si trova la traduzione dal tedesco di un brano (pp. 47-60) di Der Leviathan.
[215] Tronti, Sull’autonomia del politico, cit., p. 20.
[216] Tronti, op. cit., pp. 27-31.
[217] Cacciari, Intervista a «Il Manifesto», cit., e Trasformazione dello Stato, cit. 218.
[218] Cacciari, Trasformazione, cit., e soprattutto Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Milano, Feltrinelli, 1978.
[219] Cacciari, Dialettica, cit., pp. 27-29; sul 'simbolo' barocco del potere e sull'allegoria della secolarizzazione, cfr. anche Intransitabili Utopie, cit., pp. 193 sgg.
[220] Cacciari, L'impolitico nietzschiano, in Appendice a Nietzsche, Il libro del filosofo, Savelli, Roma, 1978, pp. 103-120, particolarmente p. 111.
[221] Cacciari, Intransitabili Utopie, cit.
[222] Cacciari, op. ult. cit., pp. 198-201 e, sul valore di maschera dell'ordine schmittiano (assimilato al decisionismo assoluto), ivi, n. 149, p. 225. Sull'incapacità schmittiana di risolvere il problema della neutralizzazione attraverso la decisione assoluta, perché fondata sul nulla, cfr. anche Cacciari, Trasformazione, cit., pp. 31-33, e, sugli esiti aporetici e reazionari di tale posizione, ivi, p. 56.
[223] Come già si è accennato, esiste un nesso fra l'analisi di Cacciari e quella di Löwith, pur nella completa estraneità delle prospettive: tale nesso è dato dal collocare Schmitt come punto d'arrivo della razionalizzazione e secolarizzazione post-hegeliane, e dal rilievo dato al rapporto antitetico esistente fra assoluta autonomia della decisione politica e processo di relativizzazione.
[224] Il concetto di maschera pare in tal caso simile alla tradizionale nozione marxiana di ideologia, che si riconfermerebbe cosi la categoria privilegiata dell'interpretazione di Schmitt.
[225] Non pare tuttavia presente, a questo proposito, un esplicito discorso di Cacciari sull'irrazionalismo di Schmitt, secondo la tradizione lukácsiana.
[226] Cacciari, Intervista, cit. ; la decisione, insomma, deve, secondo Cacciari, essere fondata né sul nulla né su di un soggetto classicamente sostanziale, ma sulle differenze e sulle contraddizioni reali delle varie regioni del sapere/potere, tra le quali quella politica è autonoma «perché costretta ad avere soltanto una sua legge, una sua ratio» (Trasformazione, p. 57), il che comporta la crisi delle nozioni di 'centralità' e di 'superamento'. Organizzare i nuovi nessi potere/sapere — al di là di ogni totalizzazione — è l'interesse strategico della classe operaia all'altezza della complessità del politico, e insieme la garanzia della apertura realmente democratica del complesso socio-politico.
[227] Marramao, Sistema politico, cit., si fa portavoce di questa esigenza, che emerge proprio dalla recente scoperta marxista del ruolo centrale della decisione nel definire il campo del politico (e su tale ruolo Marramao appunto insiste ripetutamente).
[228] S. Valitutti, La politica come destino, in «Nuovi Studi politici», 1976, n. 4, pp. 3-46 (estr.), poi ristampato identico in Löwith-Valitutti, Politica come destino, cit., pp. 41-84.
[229] Valitutti, cit., pp. 30, 33, 36.
[230] Valitutti, cit., pp. 43-45
[231] Valitutti, cit., pp. 25-26.
[232] Valitutti, cit., p. 38.
[233] Valitutti, La fortuna di Carl Schmitt in Italia, cit.
[234] Valitutti, La fortuna, cit., pp. 98 e 101.
[235] G. Malgieri, La recezione di Carl Schmitt in Italia, cit.
[236] Malgieri, La recezione, cit., p. 185.
[237] Dizionario di Politica, a cura di N. Bobbio e N. Matteucci, Torino, UTET, 1976.
[238] Dizionario di Politica, cit., voce Politica, di N. Bobbio, pp. 733-734.
[239] Schmitt, Il concetto di 'politico', cit., pp. 116-120, e Tommissen, Contributions de Carl Schmitt e la polémologie, cit.
[240] Dizionario di Politica, cit., voci Resistenza, pp. 871-872 e Sovranità, p. 978, di N. Matteucci.
[241] Tracce più o meno consistenti di una presenza di Schmitt o di un interesse per il suo pensiero sono infatti presenti in parecchi articoli o saggi di questi ultimi anni, nelle più diverse aree di ricerca; a titolo esemplificativo, cfr. AA. VV., Società, politica e Stato in Hegel, Marx e Gramsci, Padova, CLEUP, 1977, particolarmente l'articolo di Bodei, Differenze nel concetto hegeliano di società civile, soprattutto p. 38; AA. VV., Per una storia del moderno concetto di politica, Padova, 1977; C. Amirante, Presentazione a E. Forsthoff, Stato di diritto in trasformazione, Milano, Giuffrè, 1973, pp. V-XXXIV; A. Momigliano, Ermeneutica e pensiero politico classico in Leo Strauss, in L. Strauss, Che cos'è la filosofia politica?, Urbino, Argalia, 1977, pp. 7-21; A. Battistini, Beckett e Vico, in «Bollettino del centro di studi vichiani», a. V, 1975, pp. 1-9 (estr.), particolarmente p. 7; R. Ruffilli, Sulla 'crisi dello Stato' nell'età contemporanea, in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento», a. II, 1976, pp. 513-551 (Schmitt compare più volte nell'ampia bibliografia); F. Russo, Kelsen e il marxismo. Democrazia politica o socialismo, Firenze, La Nuova Italia, 1976 (pp. 45, 130, 189); D. Fisichella, Analisi del totalitarismo, Messina-Firenze, D'Anna, 1976 (Schmitt è spesso utilizzato nella confutazione del pluralismo liberale, pp. 18-20; per il concetto di neutralizzazione, p. 24; per la teoria amico/nemico, p. 119; per la distinzione fra regime totalistico e totalitario, pp. 182-183; per la dittatura, p. 190); F. Focher, Vico e Hobbes, Napoli, Giannini, 1977, (n. 3, p. 8; secondo l'autore, in Der Leviathan Schmitt «aveva volto talune tesi del filosofo inglese a larvato sostegno e difesa dello Stato totalitario nazista»; ma contro questa interpretazione del saggio schmittiano del 1938 su Hobbes, cfr. J. Freund, Vue d'ensemble sur l'oeuvre de Carl Schmitt, in «Cahiers Vilfredo Pareto-Revue européenne des sciences sociales», n. 44, cit, pp. 7-38, e particolarmente la n. 16, p. 32); di «larvati intenti apologetici» del nazismo, a proposito di Der Leviathan, parla anche A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 1974, pp. V-XL, soprattutto pp. XXVIII-XXIX; lo stesso autore svolge una tesi analoga in Introduzione a Hobbes, Bari, Laterza, 1971, p. 134. Infine, in area cattolica, cfr. un accenno a Schmitt in G. Ambrosetti, L'essenza dello Stato, Brescia, La Scuola, 1973, p. 112.
[242] G. Poggi, La vicenda dello Stato moderno, Bologna, Il Mulino, 1978.
[243] Poggi, La vicenda, cit., pp. 30-31 e 33-35.
[244] Poggi, cit., p. 29.
[245] Poggi, cit., pp. 113, 119, 191-192; per la tematica della legittimità e della legalità, nella quale ha rilievo la posizione di Schmitt, cfr. pp. 159-160.
[246] Nel ribadire quanto già detto in n. 116, occorre rilevare che da un punto di vista puramente quantitativo la presenza dei cattolici è in questo saggio probabilmente la più cospicua: la disorganicità con cui la cultura cattolica ha letto Schmitt non permette tuttavia di ipotizzare un interesse preciso verso un autore che, più che irrazionalista, è da considerare per certi versi estremamente legato alla tradizione cattolica dell'Ordine trascendente. Questo aspetto del pensiero schmittiano, che i cattolici italiani non hanno rilevato, se non sporadicamente, è invece testimoniato non soltanto da numerosi critici, come Tirenne, Dallmayr, Tommissen, Kodalle, Niekisch, Schwab, ma anche dalle prese di posizione politiche dello stesso Schmitt negli ultimi anni della repubblica di Weimar (per le quali, non certo vicine al Zentrum di Kaas, quanto piuttosto alla reazione cattolico-militare di Papen e Schleicher, cfr., oltre alle indicazioni di Cantimori e Petta, J. W. Bendersky, Carl Schmitt in the Summer of 1932: a Reexamination, in «Cahiers Vilfredo Pareto-Revue européenne des sciences sociales», n. 44, cit., pp. 39-53). Bisogna infine sottolineare che Schmitt, nel suo scritto Römischer Katholizismus und politische form, Hellerau, Jakob Hegner, 1923, oppone le «figure rappresentative» e il sentimento religioso del Medioevo alla «finzione» dell'ordine astratto democratico, all'interno di una tematica che per certi aspetti pare presente, come si è visto, anche in Cacciari.
[247] Fin dall'anteguerra ciò è stato esplicitamente notato anche da critici non professionalmente «filosofi»: cfr. Cantimori, La politica di Carl Schmitt, cit., p. 482, e Pierandrei, La politica e il diritto, cit., p. 121.
[248] Sul rapporto critica/crisi, cfr. R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt. Freiburg-München, Verlag Karl Alber, 1959, tr. it. Critica illuministica e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino, 1972, ricordando che Koselleck è stato discepolo di Schmitt, e che questi ha elogiativamente recensito tale opera (cfr. P. Schiera, Introduzione all'edizione italiana, in Koselleck, cit., pp. VII-XXII); sullo stesso argomento, cfr. anche Cacciari, Trasformazione dello Stato, cit.
[249] Schmitt, Der Leviathan, cit., p. 50.
[250] Schmitt, Die Tyrannei der Werte, in Säkularisation und Utopie. Ebracher Studien, Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, Stuttgart-Berlin, Kohlhammer Verlag, 1967, pp. 37-62, tr. it. La tirannia dei valori, in «Rassegna di diritto pubblico», 1970, nuova serie, n. 1, pp. 1-28.
[251] Das Zeitalter, insomma, non è un brano di «filosofia della storia».
[252] Foucault, Microfisica del potere, cit. ; cfr. oltre alle pp. cit. in n. 208, le pp. 12 e 40-41, sulle nozioni di ideologia e di interpretazione. Del resto, non è casuale il frequente richiamarsi a Foucault da parte di autori che si occupano a vario titolo di Schmitt, soprattutto nell'area marxista e in questi ultimi anni.
[253] Schmitt, Premessa all’edizione italiana, in Le Categorie del ‘'Politico’, cit., pp. 21-26, e particolarmente p. 25.
[254] Schmitt, Ex captivitate salus, cit., pp. 21-22.
[255] J. Freund, L'essence du politique, cit., p. 448.
[256] Sul ruolo di Schmitt nella critica letteraria e sui suoi rapporti con W. Benjamin, cfr. Tommissen, Carl Schmitt e il Renoveau, cit., e Cacciari, Intransitabili Utopie, cit. Si vedano inoltre, sullo stesso tema, che è certamente uno dei più stimolanti di tutta l'ermeneutica schmittiana, H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell'arte, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 125-128, e P. Pasqualucci, Felicità messianica (interpretazione del frammento teologico-politico di Benjamin), in «Rivista internazionale di Filosofia del diritto», a. LV, 1978, n. 3, pp. 583-629, soprattutto p. 588.
[257] A questo proposito, cfr. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit.
[258] N. Matteucci, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna, Il Mulino, 1972, soprattutto La scienza politica e le scienze umane, ivi, pp. 219-258; G. Sartori, La scienza politica, in AA. VV., La scienze dell'uomo e la riforma universitaria, Bari, 1969, pp. 85 sgg.
[259] Mortati, Brevi note, cit., e Matteucci, Il liberalismo, cit., pp. 254-255.
[260] Koselleck, Critica illuministica, cit. ; Brunner, Neue Wege der Verfassungs und Sozialgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen, 1968, tr. it. Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano, Vita e Pensiero, 1970 (Introduzione di P. Schiera, pp. XI-XXIV, in cui si rende noto il debito metodologico di Brunner nei confronti di Schmitt, p. XVI); E. W. Böckenförde, Die deutsche verfassungsgeschichtliche Forschung im 19. Jahrhundert, Berlin, Duncker & Humblot, 1961, tr. it. La storiografia costituzionale tedesca del secolo decimonono. Problematica e modelli dell'epoca, Milano, Giuffrè, 1970 (Introduzione di P. Schiera, pp. 19-49, in cui, particolarmente alle pp. 23-24, si sviluppa la distinzione schmittiana tra Verfassung e Konstitution).
[261] P. Schiera, Dall'arte di governo alla scienza dello Stato. Il cameralismo e l'assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968; cfr. soprattutto le pp. 62-63, in cui Brunner e Schmitt vengono indicati come i riferimenti metodologici fondamentali. Schmitt è anche citato da Schiera, in relazione alla sua deposizione a Norimberga, in La Prussia fra polizia e «lumi»: alle origini del «Modell Deutschland», in «Annali dell'Istituto storico Italo-Germanico in Trento», a. I, 1975, pp. 51-84.