Ho idea che le celebrazioni per il 150° anniversario dell'unità d'Italia siano animate da una logica inversa rispetto a quella che dovrebbe guidare la riflessione storiografica e la trasmissione pedagogica del sapere storiografico. Nella maggior parte dei protagonisti del dibattito intorno al 150° c’è, infatti, una dominante e irrefrenabile ansia di attualizzazione: presentare Garibaldi, Mazzini, Cavour ecc., come se fossero davvero dei nostri contemporanei. Questo è l’imperativo assoluto. Dopodiché, a seconda di diversi intenti politici, si invita a tributare ammirati onori a questi presunti nostri contemporanei; oppure gli si lanciano contro devastanti anatemi; oppure critiche selettive (si è a favore di una componente del movimento risorgimentale, ma non di un’altra: per i democratici e non per Cavour, o viceversa; per i federalisti e non per i centralisti, e viceversa; ecc.).
In apparenza è un sistema che dovrebbe avvicinare «i giovani» al Risorgimento italiano, e più in generale alla riflessione sulla storia. In realtà, secondo me, è una procedura sbagliata, che comporta distorsioni gravi nella conoscenza del passato; una procedura paragonabile a chi volesse insegnare la matematica sostenendo che 3 + 2 può fare 5, ma anche 6, o 4, a seconda delle convenienze o degli umori. E infatti, aggiungo, quando politici o giornalisti e anche qualche storico intervengono sulla questione animati da intenti di questo genere lo fanno sempre trascurando di indicare le fonti oppure la bibliografia sulle quali poggiano le loro perorazioni. Nel migliore dei casi, se qualcuno evoca qualche lavoro storiografico, lo fa caoticamente, di solito dando mostra di conoscere la più accreditata produzione storiografica recente in modo – a dir poco – estremamente parziale.
E qui si dirà: che sfinimento, le note, la bibliografia, le fonti. Sì, certo, una bella noia: ma il punto di differenza fondamentale tra un intervento mitografico sul Risorgimento, volto cioè a costruire un’immagine mitica – in positivo o in negativo, non importa -, e un’opera storiografica seria sta proprio in questo: l’intervento mitografico può considerare credibile qualunque testimonianza, anche la meno attendibile, purché sia funzionale al discorso che vuole sostenere; oppure opera selettivamente e in modo non dichiarato sulla storiografia, appoggiandosi su un testo piuttosto che su un altro a seconda delle convenienze; oppure, ancora, ignora completamente la storiografia più seria (accade anche questo ahimè) ed esprime le opinioni personali che gli stanno a cuore, come se la conoscenza storiografica dipendesse dalle preferenze soggettive, e non avesse alcun rapporto con metodi specifici, con procedure riconosciute, con un’analisi attenta delle fonti e dei documenti.
A rendere il pubblico piuttosto insensibile al rigore storiografico proposto dalla storiografia scientificamente più accreditata contribuiscono due bei tossici che circolano incontrollati.
Il primo è quello che si esprime nella frase: «eh, ma poi si sa, che gli storici non sono mica imparziali…». Ora è chiaro che ogni storico o storica che sia, ha le sue preferenze, la sua scala di valori, le sue inclinazioni. Ma su questa banale consapevolezza si è costruito un’attitudine scettica che ha contagiato anche quegli storici che per volersi mostrare smaliziati e up to date ripetono che l’obiettività è un sogno, non è possibile, non è alla portata di nessuno … Benissimo: ma banalità per banalità bisogna anche riconoscere che nello statuto professionale dello storico c’è l’esigenza assoluta di tener sotto controllo le proprie idiosincrasie e di non abbandonarsi mai, consapevolmente, a una manipolazione delle fonti che consenta di accordare la ricostruzione storiografica con le preferenze individuali. Chiaro, no? E anche, banale, vero? Eppure fondamentale. Una fondamentale considerazione da cui consegue – almeno per quel che mi riguarda – che non ci sono storici di destra o di sinistra, di sopra o di sotto, dell’est o dell’ovest, ma ci sono storici persuasivi, cioè capaci di presentare ricostruzioni e interpretazioni ben fondate su un’analisi accurata delle fonti reperite, e storici non persuasivi perché non tanto bravi nel reperire o interpretare le fonti. Punto.
Il secondo tossico è quello che confonde storia come narrazione, e storia come storiografia. Si chiede alla storia di essere divertente, appassionante, facile da leggere, perché la si confonde con la fiction, col romanzo, magari col romanzo storico. Vi si raccontano «storie» in tutti e due i casi, no?
Vediamo la questione in prospettiva inversa: a qualcuno verrebbe in mente di chiedere a un astrofisico di essere divertente, o a un anatomopatologo di scrivere un trattato che contenga storie di piacevole lettura? No, perché si riconosce che dietro il loro lavoro c’è una dura scientificità, non facilmente riducibile a frasi «soggetto-predicato-complemento» esposte per non più di 100-120 pagine. Ma in realtà quella domanda – facci divertire – non viene rivolta nemmeno ad altri umanisti: non agli storici dell’arte o della letteratura; non ai filosofi, anzi soprattutto non ai filosofi, che tanto più sono astrusi tanto più hanno successo (vedi Foucault o Agamben: e come li invidio e ammiro, al tempo stesso!). Ma gli storici, no; gli storici devono scrivere libretti brillanti e brevi e senza note e senza bibliografia e con una «storia» avvincente, sennò addio. Perché? Perché non si riconosce lo statuto scientifico del lavoro storiografico.
E in ragione di ciò si spiega anche il fenomeno degli innumerevoli giornalisti che scrivono libri di storia – mediamente abbastanza sgangherati, e presto dimenticati dopo l’immediato boom di vendite – come se la storia fosse un loro speciale terreno di caccia: tanto quel che c’è da fare è leggersi un paio di testi, scovare due o tre citazioni ad hoc, ed essere brillanti. Poi "chissenefrega" se la storiografia scientifica va in un’altra direzione… Da notare che il numero di giornalisti che si cimenta con presunti libri di storia è incomparabilmente più alto rispetto a quelli che si cimentano in qualunque altra disciplina scientifica: riprova – a mio parere – del valore di ciò che ho appena detto.
Sottovariante di questa seconda convinzione tossica: tutto ciò avverrebbe perché «gli storici italiani non sanno scrivere bene» (frase che spesso si completa con quest’altro commento: «… come gli inglesi»). Questa sì che è la più strepitosa balordaggine che si possa sostenere. Nel senso che se ci sono storici italiani, scientificamente inappuntabili, che però scrivono senza alcuna pietà per i loro lettori, ce ne sono anche molti altri che padroneggiano belle e piacevoli soluzioni stilistiche, senza perdere un centesimo delle loro capacità analitiche: e ciò succede allo stesso modo in tutte le storiografie del mondo.
Tutto ciò si ripercuote anche sui materiali che circolano intorno al Risorgimento.
Come reagire? Secondo me in due modi.
Primo insegnare con la massima attenzione – in generale e nello specifico caso risorgimentale – che c’è una distinzione fondamentale tra res gestae e historia rerum gestarum. Lo so che non è facile, perché la struttura della comunicazione scolastica nel campo storico tende a far sì che le res gestae assorbano tutta la dimensione conoscitiva. Cioè, per la storia si devono conoscere i fatti e non gli autori; l’esatto inverso di ciò che accade per la filosofia, in cui non si insegnano inesistenti «fatti filosofici», ma le elaborazioni concettuali dei singoli autori. Adesso, che per la storia si debbano conoscere i fatti è essenziale, e ci torno tra un secondo. Ma ogni volta che è possibile bisogna ricordare che c’è una storiografia; bisogna insegnare a distinguere storici migliori e peggiori; opere fondamentali e no; interpretazioni convincenti e altre caduche. Bisognerebbe: lo so che non è facile, che le ore sono quello che sono, che lo spazio della storia nei programmi scolastici si assottiglia progressivamente, mentre la storia – come disse un mio collega inglese con humour tutto britannico – «ogni anno aumenta sempre un po’ …»: ma se è possibile bisognerebbe fare anche storia della storiografia.
Spesso non si può. E allora ci si deve limitare a ricordare le vicende principali. Secondo me lo si deve fare evitando nei limiti del possibile ogni indebita attualizzazione. Perché «il passato è un paese lontano: fanno le cose diversamente laggiù». E questo è vero anche per il Risorgimento: i valori, i comportamenti, gli obiettivi politici che guidano gli uomini e le donne del Risorgimento non sono più – immediatamente – i nostri. E se è possibile che il nostro essere attuale sia basato su ciò che è successo – diciamo – tra 1820 e 1861, non è meno vero che è egualmente basato anche su ciò che è successo prima, o dopo. Niente attualizzazione, dunque. Cercare di capire quali sono le mentalità e le culture che animano le persone nel passato. Non esprimere giudizi di valore (Garibaldi ha fatto bene; Garibaldi era un mascalzone … ecc.). Esprimere giudizi di fatto (le vicende hanno preso il determinato corso per questa o quest’altra ragione), cercando ogni volta di sforzarsi di usare la storiografia più accreditata, la più seria, la più persuasiva per l’uso delle fonti.
Ecco, in definitiva, queste due semplici regole sono quelle che ho cercato di applicare nel mio lavoro di autore di manuali di storia, sia per quanto riguarda il Risorgimento italiano, sia per ogni altro periodo storico: dar conto del dibattito storiografico (nel mio Il senso del tempo ci sono capitoli storiografici non su ogni questione, ma su quelle che ho reputato più significative: e tra di esse il Risorgimento); e presentare ricostruzioni in contatto con il sapere storiografico più qualificato. Almeno questo è stato il mio programma di lavoro. Se ce l’ho fatta o no, naturalmente, è tutt’un’altra questione.