1. «Odoratissimi holocausti»
1604 in 5 d’agosto giovedì, giorno di Nostra Signora della neve, monsignor illustrissimo l’arcivescovo nostro ha vestito Vincentina da monacha, la quale hora si chiama sor Maria Madalena della Nontiata, che Dio la benedichi e l’augumenti il suo Santo Spirito. Et io l’indomani in venerdì 6 detto, giorno della Transfiguratione, mi sono vestito in habito con berreta da prete. Poi in 7 detto, sabato, giorno di san Donato, detta sor Maria Madalena et io alla porta dello monastero habiamo fatto voto di castità con intentione di professare in religione et questo per instrumento publico in atti di notar Giacobo Connio in curia di Marco Antonio Molfino. E poco doppoi monsignor illustrissimo l’arcivescovo mi ha datto l’ordine di prima tonsura in camera sua, in atti del detto notaro, et il padre preposito del Gesù, padre Giulio di Negrone, mi ha fatto la chierica con grand’allegrezza comune et cetera.
Così notava il genovese Stefano Centurione nel suo diario, all’età di 57 anni. Alle spalle, 27 di matrimonio, numerosi viaggi e commerci fra Genova, Napoli, Spagna e Corsica, e prestigiose cariche politiche [1]. L’uomo sarebbe entrato nell’ordine dei barnabiti, e quella che un tempo era stata sua moglie e madre di 11 figli, Vincenzina Lomellini, sarebbe morta religiosa nel monastero della Santissima Annunziata di regola agostiniana, che i due avevano contribuito a fondare (Solfaroli Camillocci 1997; Fontana 2008). Il caso di Stefano e consorte non è isolato nell’Europa cattolica dell’età moderna, e ha alla sua radice una serie di spinte di cui questo contributo intende indagare il piano valoriale, prendendo in esame un corpus di letteratura morale che abbraccia diversi livelli di specialismo e relativi destinatari. Manuali di edificazione spirituale rivolti a lettori istruiti ma non necessariamente membri del clero, testi ad uso di confessori e giudici che operano in tribunali che dirimono conflitti matrimoniali. A seconda del lettore immaginato, il discorso può farsi più o meno dettagliato (sui fatti della carne la minuzia d’indagine va di pari passo con una dichiarata necessità di riserbo, Foucault 2011), ma, come si vedrà, emergeranno con evidenza linee comuni: la condizione sacrificale come desiderabile e necessaria, e quella coniugale come irrimediabilmente seconda a quella, ben più nobile, ben più sacrificale, dei religiosi votati al celibato.
Tornando alla citazione che apre questo saggio, non era la prima volta che un voto veniva formulato in casa Centurione. Vincenzina aveva promesso di non indossare più né oro né tessuti pregiati quando Stefano era guarito dalla peste del 1579, e il marito, a sua volta, aveva scritto nel 1581: «In lunedì mattina alle 10 hore 19 de giugno, ho fatto voto di osservar castità congiugale (sic) mentre che io viva. In martedì poi seguente lo ho retificato in confessione» [2]. Cosa avesse indotto l’uomo poco più che trentenne a quella promessa e al successivo ripensamento non è dato di sapere (è tanto succinto su questo argomento quanto dettagliato su altri, come affari e viaggi). Quel primo atto era rimasto solo un intento messo per iscritto nello spazio privato del diario, poi subito revocato nel colloquio segreto col confessore, tanto più che negli anni a seguire sarebbero venuti al mondo nove figli. Il secondo voto, pronunciato dopo che i coniugi avevano praticato gli esercizi spirituali sotto la guida di un gesuita, era invece stato solenne, e sarebbe passato alle cronache. La notizia della coppia entrata in religione era confluita in una raccolta di Historie di Genova e, attraverso queste (ancora di incerta identificazione per la scrivente) i due sarebbero finiti nel novero di coloro che «quasi hostie vive, et odoratissimi holocausti offersero se stessi al servigio del Signore, quasi usciti d’Egitto, ed entrati nella terra di promissione della religione, con somma gloria della divina Maestà». Le «hostie vive, et odoratissimi holocausti» erano coloro che, una volta consumato il matrimonio, decidevano di astenersene per sempre votandosi a vita consacrata, senza che «piaceri usati» o «amore coniugale» [3] ne compromettessero la scelta.
Chi scrive nel primo Seicento è questa volta un gesuita marchigiano, Marcello Agostini (1587-1646), professore di teologia morale fra Fano e Sezze, dove morirà, e autore del Theatro della continenza, opera in volgare dichiaratamente destinata a istruire e impressionare i lettori (confessori e predicatori in primis, ma anche laici), con storie di spettacolari vittorie contro le forze contrarie alla castità, feroci come le belve delle arene in cui morirono i primi martiri [4]. In ogni condizione – questo il presupposto – si può vivere nella purezza e sottrarsi al pungolo della carne (e vedremo se questo può dirsi o meno desiderio, come evocato nel titolo di questo contributo). Si può essere santi in qualunque stato, anche in quello matrimoniale. Del resto, il matrimonio è «cosa santa», oltre che sacramento, come aveva confermato poco più di una cinquantina d’anni prima il Concilio di Trento nella penultima sessione, quella in cui se ne era riorganizzata dottrina e disciplina, raccomandando il rispetto di precise formalità e la decenza nelle celebrazioni («sancta […] res est matrimonium et sancte tractandum» [5]). Fra i teologi cattolici era ormai acquisito il fatto che bisognasse includere nell’alveo della Chiesa, e con piena dignità, i coniugati. Il controllo di questa fetta di umanità avrebbe infatti rischiato di sfuggire per sempre se l’istituto matrimoniale si fosse confermato faccenda terrena come per i protestanti, e se quindi lo si fosse affidato alle autorità secolari quanto alla giurisdizione, e, quanto alla spiritualità, alla pietà della famiglia, luogo di esercizio di una religiosità quotidiana che non ha bisogno di direttori e mediatori (Witt 2017; Witte Jr. 2021). Non era la prima volta che una minaccia ereticale aveva chiesto alla Chiesa di Roma uno sforzo di sacralizzazione e rivalutazione positiva delle nozze. Fra XI e XIII secolo, in risposta alle eresie dualiste che ritenevano degradante la fisiologia della generazione, e dunque degradanti le nozze stesse, la dottrina aveva messo in forte risalto la simbologia mistica dell’unione nuziale. Indissolubile e ordinato come quello fra Cristo e la Chiesa, il legame coniugale ne è la significazione, e questo gli conferisce una dignità speciale, compensando la macchia della componente carnale [6]. Ciononostante, un velo non sottile di opacità avrebbe continuato a coprire la condizione degli sposi. Loro malgrado, la loro integrità è spezzata a causa della pratica carnale necessaria per la produzione di proles. E questo nonostante la proles, nella triade di Agostino di Ippona, fondativa per la dottrina del matrimonio, sia ritenuta uno dei bona nuziali insieme alla fides e al sacramentum (Clark 1996). Di fatto, chi è sposato non può e non potrà mai avere il pensiero totalmente dedicato a Dio. Era questo il senso delle parole di Paolo (I Cor. 7, 32-34: «Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore […]»), per una lunga tradizione che, dalle prime decretali sull’astinenza raccomandata ai sacerdoti, sarebbe confluita nelle controversie cinquecentesche sulla compatibilità tra sacerdozio e vita coniugata. Come è noto, i luterani sarebbero stati a favore e i cattolici contrari. La dottrina di Roma avrebbe mantenuto una ineludibile gerarchia di dignità fra gli stati, ponendo il celibato in cima [7].
Nel suo Theatro della continenza Agostini sintetizzava tutto questo con l’immagine della calamita che, se messa accanto a un diamante, perde per antipatia la capacità di attrarre il ferro. Evitando l’argomentazione scolastica e controversistica, preferiva evocare storie esemplari come quella di Centurione, e racchiudere il messaggio alla loro base in imprese, accostando dunque immagini (qui non rese graficamente, ma descritte) a relativi motti latini. Accanto alla figura della calamita indebolita dal diamante, ecco campeggiare la massima Vis altera vetat, a significare lo stato di «offuscatione d’intelletto» e «ottusi spiriti» esperito non solo da chi vive nella dissolutezza, ma anche da chi pratica «conversatione con donna in legitimo matrimonio» [8]. Un fatto quasi automatico e incontrollabile. Sottesa è una visione dell’umano poroso e aperto, suo malgrado, alla presenza dell’altro (qui, l’altra) alle cui influenze non è possibile sottrarsi. La sua forza attrattiva e distruttiva irrompe attraverso le porte dei sensi, che non possono mai chiudersi ermeticamente. L’unico modo per elevarsi, senza compromessi, è rinunciarvi del tutto. Insomma, che la calamita e il diamante siano drasticamente separati, e si votino, ognuno, a Dio. Queste, per Agostini, sono le condizioni per i sacrifici massimi (“holocausti”). L’elenco di coloro che ne furono protagonisti e al contempo vittime è assai popolato e attraversa la storia del cristianesimo dai primi secoli, religione non sacrificale che tuttavia mantiene il sacrificio di sé, a partire da quello di Cristo, come perno dell’economia della salvezza [9]. Alcuni dei rinuncianti evocati da Agostini furono sovrani, e non pochi assursero agli altari della santità [10]. Ma quello che più interessa qui è l’attenzione che l’autore riserva a meno noti “moderni”. Le loro non sono storie leggendarie, ma sono particolarmente preziose, per l’autore, in quanto vicine ai lettori, a chi ne ascolterà il racconto in confessionale o in prediche ispirate dalla sua opera. Un’umanità relativamente ordinaria e dunque accessibile, da imitare, di cui circola notizia in testi normalmente estranei alla costellazione tipica delle auctoritates della letteratura teologica, come le cronache genovesi evocate poco fa o la documentazione interna della Compagnia di Gesù. Ecco allora, oltre alla storia di Centurione, quella del gesuita Antonio Sardo, che a Messina aveva lasciato la professione di medico ed era entrato nella Compagnia, mentre la moglie Agata e una figlia si facevano benedettine [11]. Oltre che nel testo di Agostini, se ne trovano tracce nella corrispondenza con l’allora padre generale Diego Laìnez, al quale Sardo chiedeva due volte, a distanza di quasi un anno, l’ammissione all’ordine per sé e l’avvio al noviziato per i figli ancora minorenni. L’uomo scriveva di aver «pensato offeriri questi nostri figlioli insieme […] in sacrificio al Signore nostro Dio» [12], in un’età in cui sono «senza malizia […] più sinzeri» [13], situazione ideale per entrare in religione (l’intima convinzione degli interessati, requisito posto come ineludibile dal tridentino, non viene qui tematizzata [14]). L’impresa, alla fine, sarebbe riuscita. Offrì «in un solo sacrificio del suo cuore molte vittime insieme» [15], avrebbe commentato anni dopo un confratello messinese, alla morte di Sardo, nel 1592 [16]. E a detta di Agostini non mancavano casi simili, a lui coevi («hoggidì sono alcuni da me conosciuti, che fanno questa santa vita» [17]).
La Guida spirituale di Luis de la Puente (1554-1624) aveva usato il medesimo termine di Agostini (“holocausto”) per definire l’insieme di rinunce di coloro che, soli, riescono nell’imitazione di Cristo, pronunciando i tre voti di povertà, castità e obbedienza [18]. Questa volta siamo alle prese con uno dei testi di spiritualità più diffusi nell’Europa cattolica dall’inizio del Seicento e per gran parte del secolo successivo [19], che propone un percorso ideale a gradi verso la perfezione, pensato a seconda degli status (alla base, una visione di società stratificata e gerarchica, i cui equilibri non devono essere destabilizzati dalla pratica spirituale di ognuno) [20]. Nella tensione alla meta, si devono combinare alla preghiera varie forme di separazione dal mondo, intese come atti unitivi con Dio. Gli attaccamenti più ingombranti che ostacolano il percorso sono esemplificati dalla parabola sul banchetto al quale gli invitati rifiutano l’invito, chi perché ha appena preso moglie, chi perché ha appena acquistato un campo o dei buoi (Lc. 14, 16-24). Ognuna di queste catene può essere spezzata per seguire Cristo, con vari gradi di intensità delle rinunce possibili: quelle che praticano «i secolari», che lasciano le proprie ricchezze, o fanno voto di verginità e «rinuntiano i maritaggi», o quelle dei religiosi, gli unici capaci di sacrificio perfetto. Essi, infatti,
con tutti tre i voti offeriscono a Dio un sagrificio di se stessi, e di tutte le loro cose, simile a quello che la legge vecchia chiama Holocausto, il quale era il più eccellente di tutti, per esser lontano da ogni cupidigia, e proprietà: poiché colui ch’offeriva qualch’animale in holocausto, non ne riserbava per se parte alcuna, come negli altri sagrificii communis (sic) ma lo dava tutto intero a Dio, e abbrugiavalo co’l fuoco del sagrificio [21].
Solo i sacrifici di chi si consacra a vita religiosa sono dunque quelli che David chiamava “medullata” nel Salmo 65 («Ti offrirò grassi animali in olocausto con il fumo odoroso di arieti, ti immolerò tori e capri […]»). Secondo il commento ai Salmi di Agostino, richiamato da De la Puente, l’aggettivo si riferisce letteralmente alla sostanza che risiede nel «più intimo dell’animale: perché la pelle cuopre la carne, questa l’osso, e l’osso serra dentro di se la midolla», ma va intesa metaforicamente come «il più intimo del cuore» che il fuoco dell’amore divora, «dandolo tutto al suo Creatore» [22]. Per spiegare le prassi del sacrificio nella “legge vecchia” il gesuita di Valladolid si affida all’autorità di Filone d’Alessandria [23], ma è al citato Agostino, a Gregorio Magno [24] e a Tommaso d’Aquino [25] che chiede la lettura più autentica del sacrificio totale, una lettura spiritualizzata: non dunque l’offerta di un intero animale a Dio, penetrato dal fuoco fino alle sue fibre, ma il «sagrificio di se stessi». In questo “se stessi” vi è ciò che, pur essendo fuori da noi, è parte di noi perché ci appartiene (ricchezze, beni materiali con cui abbiamo una relazione di “proprietà” e “cupidigia”); ma vi è anche ciò che ci abita nel profondo, sostanziandoci nella nostra umanità e al contempo ostacolandoci verso la perfezione: «imaginationi, pensieri, desiderii». Il modello umano per De la Puente è il monaco di Cassiano, che riesce e strappare da sé anche quest’ultima dimensione, e così «muore a tutto il visibile e a tutto il creato, per vivere solo a Dio unito seco in spirito» [26]. Suo, solo suo, è il sacrificio perfetto [27].
E i laici rinuncianti? Quando promettono di vivere il matrimonio castamente, questi offrono a Dio solo un «sagrificio commune», perché «parte danno a Dio, e parte pigliano per se: de i diletti della carne sagrificano gli illeciti, e se ne restano co’ leciti del matrimonio» [28]. Il continuare a godere dei “leciti” (implicito, “diletti”) ha dunque un risvolto sminuente. C’è un egoismo residuale, un colpevole sottrarre una parte di sé a Dio nel tenersi il piacere legittimo (associato automaticamente all’atto sessuale) rinunciando solo al disordine extraconiugale. Piccolo sforzo, in fondo. Ovviamente, diverso è se di comune accordo i coniugi evitano da subito la consumazione, seguendo l’esempio di Maria e Giuseppe. La loro fu la prima coppia di «vergini, e veri consorti» [29], come avrebbe sottolineato Agostini, aggiungendo che la possibilità che il matrimonio possa essere casto, e che questo sia un fatto positivo, è un elemento di radicale novità del Nuovo Testamento, dove splende la «luce del mezzo giorno» [30]. L’antico, invece, è il luogo del buio della «mezza notte», del «timor servile» e dei precetti che Paolo chiamava «deboli e miserabili elementi» (Gal. 4, 9). Qui, era «maledetta la donna sterile» e il matrimonio casto non aveva alcun valore. Tuttavia, secondo il gesuita, a leggerlo cristianamente anche nell’Antico Testamento si può trovare una qualche esaltazione della verginità sacrificale, prefigurazione della centralità della verginità nel cristianesimo. Sarebbe nel celebre episodio narrato nel Libro dei Giudici (11, 29-40), in cui Iefte, capitano di Israele, promette a Dio che, se gli consentirà di sconfiggere gli ammoniti, sacrificherà la prima persona da lui incontrata uscire dalla sua casa. Dopo la vittoria – coincidenza di immane tragicità – quella persona sarà proprio sua figlia. Iefte, pur disperandosi, eseguirà quanto promesso, esaudendo prima l’unica richiesta della fanciulla: «lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne» (Giudic. 11, 37).
Per secoli, i commentatori avrebbero voluto il destino della ragazza stroncato da una cruenta morte fisica per mano del padre, sottolineando chi la docile obbedienza di lei (anticipazione di quella di Cristo), chi la significatività della sua verginità (che avrebbe dato a quel sacrificio un valore positivo), e chi l’insensatezza di Iefte. Pur di rispettare il voto, si sarebbe procurato con le proprie mani il peggiore destino per un uomo nell’Israele biblico, l’estinzione della propria discendenza [31]. Fra gli interpreti cristiani sarebbe stato solo Niccolò da Lira (1270-1349) a mettere in discussione, nelle sue postille alla Bibbia, l’uccisione sacrificale: la ragazza non sarebbe stata fisicamente soppressa, ma spiritualmente immolata a Dio «per observantiam virginitatis». Queste forme di immolazione esistono oggi nella Chiesa, e sono, sì, una vera e propria forma di morte, ma una morte al mondo “civile” [32]. Così constatava Lira nella sua risignificazione del testo veterotestamentario, che trovava denso di anticipazioni e similitudini: Iefte non aveva altra discendenza che la figlia, come Dio non ha altro figlio che Cristo; la figlia di Iefte era vergine, come la Chiesa è integra nella fede. Alla base della lettura, ammette Lira, vi sarebbe stata l’interpretazione di una «quaedam glossa haebraica» [33] i cui autori non vengono nominati (ma che sappiamo ora trattarsi di Joseph Kimchi e del figlio David, attivi fra XII e XIII secolo). Agostini omette di citare questo passaggio, limitandosi a un semplice rimando; così come non considera, nemmeno in chiave controversistica, la fitta tradizione di commento dell’episodio che seguì in area protestante e riformata, o l’uso che ne venne fatto all’interno del suo ordine. Quanto alla prima, basti qui citare Calvino, che nei suoi scritti torna spesso sull’episodio per mostrare l’insensatezza del voto di castità, e Lutero, per cui il sacrificio della ragazza fu effettivamente compiuto: una delle forme di idolatria che si trovano tanto nella tradizione veterotestamentaria quanto nelle abitudini dei cattolici, che con crudeltà chiudono i loro figli ancora bambini nei conventi (e non si può non ripensare alle parole di Sardo, a proposito della sua prole minorenne da lui candidata al noviziato).
Anche una tradizione interna alla Compagnia di Gesù avrebbe ripreso la storia di Iefte. Già dalla seconda metà del Cinquecento, per esempio, vennero composte tragedie da rappresentare nei collegi dell’ordine, di cui la prima si attribuirebbe niente meno che a José de Acosta (1539-1600), quando ancora si trovava nel collegio di Medina del Campo prima di partire per le Indie. Il suo De Jephte filiam trucidante avrebbe suscitato grande commozione nel pubblico, anche per l’interpretazione che ne fece un ragazzino della comunità [34]. Rappresentazioni tragiche del sacrificio di Iefte avrebbero proliferato soprattutto nelle case gesuitiche del Nord Europa, in pieno Seicento (Sypherd 1948; Linton 2004, 237-55). E la letteratura profetica prodotta dai membri dell’ordine soppresso avrebbe attinto all’episodio, ancora nel tardo Settecento, rappresentando la Compagnia di Gesù come vergine e figlia («figlia di Ignazio» [35]), vittima innocente, eroicamente docile, rassegnata alla sua fine come la ragazza dell’episodio in Giudici 11. Ad Agostini è sufficiente qui rifarsi a Lira, per rimarcare che il sacrificio della giovane non è da intendersi in senso letterale, in ottusa conformità a una visione formalista del rispetto della legge, tipicamente veterotestamentaria, ma come un “mistico sacrifitio”, che lo dota di una nuova esemplarità e dignità. Questo, anche se il vero “mistico sacrifitio”, ancor più che nella verginità della figlia di Iefte (che non ha nome, Stiebert 2013, 73-100), si trova nella verginità neotestamentaria di Maria, madre di Cristo e sposa di Giuseppe.
Ancora una volta non mancano gli esempi “moderni” di coppie che imitarono Maria e Giuseppe, rinunciando alla consumazione. Fra questi, Elisabetta Gonzaga e Guidobaldo da Montefeltro, Caterina Sicco e Francesco Trivulzio. Dalla corte di Urbino al patriziato milanese, due nobili matrimoni quattrocenteschi che Agostini evoca come vergini, dunque sacrificali. I casi sono semplicemente richiamati, ma da un’indagine anche minima emerge che dietro il primo vi fosse l’impotenza di entrambi; dietro il secondo, che vide i due farsi poi francescani, uno screzio fra padre e sposo: il padre avrebbe forzato il figlio al matrimonio e così Francesco si sarebbe votato a Dio per fargli dispetto. Sarebbe stato poi beatificato [36].
2. Dentro il matrimonio:
premesse epistemiche e antropologiche
Ma che valore hanno le fatiche quotidiane degli uomini e delle donne che, invece, vivono la dimensione fisica del matrimonio? Quanto il sacrificio è chiamato in causa per giustificare il fittissimo apparato di norme applicate ai corpi e alle coscienze dei coniugati? Le prossime pagine considereranno uno dei testi più noti della teologia scolastica post-tridentina, prodotta dopo la conferma della natura sacramentale dell’unione coniugale e, a differenza dei testi fin qui attraversati, destinata all’uso esclusivo dei tecnici, confessori e uomini di legge.
Una breve premessa su finalità e struttura del discorso teologico-morale che verrà esaminato è necessaria per rispondere alle domande che aprono questo paragrafo. Si tratta di una letteratura di confine tra il diritto canonico e la teologia morale, che si nutre, per sua architettura retorica, di altri generi normativi e di altri saperi, recuperati su una scala temporale diacronica (Gay 2020). Questa natura tendenzialmente onnicomprensiva risponde non solo a un posizionamento della teologia morale in cima alla gerarchia dei saperi che contano, e che esercitano all’epoca un’influenza politica (Höpfl 2021), ma anche alle logiche di un ordine della conoscenza che riconosce la posizione del singolo autore se corroborata da una fortezza inoppugnabile di auctoritates. L’esorbitanza citazionistica che connota testi come questi ci parla anche di un fattore antropologico che ne impregna l’organizzazione interna: l’autore deve, se non sparire, quantomeno non spiccare in una rete di opinioni altre da accogliere o confutare. Solo attraverso questo gioco di rimandi l’autore c’è, ed è credibile. A sua volta, anche l’umano, l’oggetto di questa letteratura, è concepito solo all’interno di una rete di leggi che al contempo lo imbrigliano e lo sostanziano, plasmandone la natura civile (le sue relazioni orizzontali con il mondo) e trascendente (le sue relazioni verticali con Dio). Un’economia dei saperi che legittima la parola di uno a condizione che si armonizzi con le parole di altri – auctoritates patristiche, canonistiche, filosofiche, ma anche mediche, talvolta letterarie – non può dare rilevanza assoluta all’individuo. La sua esistenza attesa (e dovuta) è concepita solo in armonia con le leggi oggettive e indiscutibili di Dio, della natura, del cosmo, della ragione, che hanno la priorità sulla sua spontaneità, inevitabilmente intaccata dal peccato. In questo assetto ha una sua ovvia necessità la rinuncia a ciò che a quelle leggi è contrario, e in primis, a quella che è considerata la più spettacolare e devastante manifestazione della concupiscenza: la tensione verso la soddisfazione egoistica del desiderio sessuale [37].
Questo non è enunciato esplicitamente, ma è sotteso anche al testo di cui si esploreranno alcune sezioni, le Disputationes de sancto matrimonii sacramento del gesuita andaluso Tomás Sánchez (1550-1610), uscito fra 1602 e 1605 e ristampato fino al pieno XVIII secolo, principale riferimento per la matrimonialistica della lunga età moderna [38]. Un’età moderna che per alcuni aspetti sarebbe durata fino al Concilio Vaticano II, o ancora, fino alla revisione del Codice di diritto canonico del 1983, quando la dimensione affettiva assumerà esplicitamente una parte essenziale nella costituzione del legame e verrà destabilizzata una visione contrattualistica dell’unione matrimoniale che, alla nostra sensibilità contemporanea, può apparire cruda. Questa prospettiva risale alla civilistica del XII secolo (il matrimonio è un patto fra soggetti fondato sul consenso), viene acquisita nella riflessione della canonistica medievale e ulteriormente definita dalla teologia della seconda scolastica, nel quadro di una riflessione sistematica sui contratti, che tende a coprire tutti gli ambiti più vari, dallo scambio di merci ai rapporti sessuali mercenari (Decock 2021). In questa cornice, nei decenni che seguono il tridentino, la canonistica consolida una visione del legame che intende l’unione matrimoniale fondata sullo scambio reciproco di diritti su un bene assai peculiare: il corpo sessuato [39] e, nello specifico, il corpo quanto alle sostanze che servono a generare. «Dominium unius coniugis in corpus alterius est in ipsius semen» [40], avrebbe affermato Sánchez acquisendo pienamente la prospettiva, e non considerando elementi essenziali per la costituzione del vincolo la componente affettiva, né tantomeno il simbolismo mistico (cui si è spesso accennato sopra).
L’accesso contrattualizzato alla corporeità, fondato sulla soggettività del consenso, obbedisce a finalità oggettive: una necessità primaria di generare (essendo le sostanze seminali maschile e femminile per questo create) e una necessità secondaria ma non meno urgente di contenere la concupiscenza, essendo il genere umano costitutivamente in preda all’anarchia pulsionale dopo il peccato dei progenitori (prima, Eva e Adamo si sarebbero accoppiati solo per riprodursi). Tutti gli esseri umani vivono da allora in uno stato di emergenza, minacciati da un caos costitutivo che nemmeno la venuta di Cristo ha risolto del tutto. Ha però conferito lo strumento per contenerlo, confermando con le sue parole a Cana la natura divina delle nozze. Questo motiva la produzione di una normativa dettagliata a regolamentare lo ius in corpus sulle circostanze in cui si può richiedere l’esazione del debito e restituirlo: per esempio, chi dei due coniugi può o deve esigerlo per primo (tendenzialmente il marito), e come e quando l’altro (meglio, l’altra) può o deve assecondarlo; in quali condizioni fisiologiche, cioè armonizzando il dovere di contenere l’urgenza pulsionale della concupiscenza, propria e altrui, con la gravidanza, il ciclo mestruale e il puerperio [41]; in quali tempi, compatibilmente con un fittissimo calendario liturgico che chiederebbe per la più parte dell’anno di astenersi dai rapporti sessuali [42]. Il teologo è qui alle prese con la persistenza residuale di problemi di impurità da contatto col sangue, sia esso in forma di sangue mestruale o di seme (Douglas 2013), che dal sangue deriva per un processo di cottura e raffinamento (Gadebusch Bondio 2005; Walker Bynum 2007). Ma il principio con cui vengono normate queste questioni è analogo a quello che guida le decisioni dei suoi confratelli considerati nel paragrafo precedente a proposito dell’interpretazione del sacrificio: la legge veterotestamentaria che, intesa in senso letterale, farebbe cadere il coniuge in una condizione di impurità (Lev. 15, 16-24; Ez. 18, 6) è superata, e l’attenzione è invece spostata su un piano al contempo morale e simbolico [43]. Astenersi dall’atto sessuale nel tempo delle mestruazioni può essere un atto di responsabilità dei coniugi, che sanno che da quelle circostanze potrebbe nascere prole malata, in quanto concepita sulla base di un sangue corrotto. Così riteneva già Tommaso d’Aquino [44]. Ma poiché è piuttosto evidente [45], aggiunge Sánchez, che non sono così frequenti questi parti mostruosi, si tratta – questo è il punto – di essere capaci di contenersi, nell’attesa. Allo stesso modo, a proposito dell’incompatibilità fra tempo sacro e atto sessuale, si tratta di evitare di accostarsi all’eucaristia in uno stato vergognoso di alterazione. Lo sconquasso fisiologico che accompagna l’atto sessuale tocca non solo un piano fisico, ma anche spirituale, e questo è conseguenza, e al contempo segno, del primo peccato commesso dai progenitori. Come se ogni orgasmo – evento ritenuto certo nell’immaginazione dello scambio di petitio e redditio del debito operata dai teologi – facesse tornare nel tempo presente, riattualizzandolo continuamente, lo sconvolgimento che accompagna il genere umano dalla cacciata dell’Eden, momento originario in cui la vita eterna si perde e inizia la mortalità. Se questo sconvolgimento avviene nel quadro del matrimonio, incanalato verso la generazione di prole (quindi uno scopo che sta al di fuori della mera soddisfazione pulsionale), moderato da un esercizio regolamentato e garantito dal contratto matrimoniale, la gravità del danno è attenuata (ecco i “leciti diletti” di De la Puente) [46]. Al di fuori di esso, è, ogni volta, non solo una caduta di portata individuale, ma una disfatta totale, quasi cosmica.
Il matrimonio è, insomma, il dispositivo che fa sì che si scongiuri il peggio, quando non si è in grado di contenersi in toto. La posta in gioco è elevata, e rimanda a un orizzonte valoriale di secolare persistenza in cui la trasgressione sessuale si ritiene dotata di effetti catastrofici, che esorbitano la contingenza terrena della vita individuale. Non solo la perdita di controllo sperimentata nella fisiologia sessuale riattiva, in ogni individuo, la caduta di Adamo ed Eva (che come abbiamo visto il matrimonio parzialmente ridimensiona, grazie ai suoi fini oggettivi). Ma anche, la trasgressione sessuale di uno, o di un piccolo gruppo, può determinare l’ira divina su tutti, come mostra la vicenda di Sodoma e Gomorra (Gen. 19; Grassi 2019). In questo paesaggio, l’individuo non è, come nel senso comune a noi contemporaneo, inteso come «entità finita», «determinato a vivere […] in relativa autonomia rispetto a tutto quanto sta fuori di esso»; non è «definito […] da tendenze sue proprie che lo differenziano qualitativamente da tutti gli altri», né, infine totalmente «responsabile di sé» (Godani 2021, 9; Le Breton 1990, 51-9). In questo orizzonte, ognuno invece sperimenta, suo malgrado, l’irruzione di una forza altra, che riporta nel tempo presente quello pre-storico della caduta dei progenitori. Ognuno porta in sé una sostanza seminale che deve contribuire a generare altro, altri [47]. Nessuno è proprietario di sé, ma responsabile amministratore. Quello che emerge da questo orizzonte di mentalità si direbbe essere un soggetto costitutivamente “sacrificato”, costretto ad arretrare di continuo di fronte a forze e necessità altre.
3. Atti dovuti, secondo giustizia
Nel testo all’interno del quale ci stiamo muovendo, “sacrificio” non si direbbe essere un lemma associato a matrimonio (l’indagine andrebbe estesa alle auctoritates di riferimento e alla letteratura coeva in materia, su cui Le Bras 1927 [48]). Piuttosto, lo è “sacramento” (Reynolds 2018). Il sacramento conferisce una speciale grazia a chi è nella condizione matrimoniale, grazia che tuttavia non vale per sempre, ma che deve essere confermata dall’agire quotidiano degli sposi. Insomma, il matrimonio non salva, ma mette temporaneamente al riparo se vissuto in ottemperanza alle regole del contratto coniugale, anche quando attenersi ad alcune di queste può mettere la persona in condizioni di sofferenza. La stessa fisiologia dell’atto sessuale espone infatti parte maschile e parte femminile a pericoli diversi, talvolta letali. Possiamo leggerli come sacrifici in nome della legge del matrimonio, istituto di fondazione divina e santo?
La casistica del rischio dell’atto sessuale è disseminata nel trattato di Sánchez e qui è possibile richiamarne solo alcune evenienze, tratte dalla disputatio che risponde al quesito specifico «quando è lecito che il coniuge, per evitarsi la morte, rifiuti di rispondere alla richiesta di consumare il matrimonio?» [49]. Il diniego è sicuramente legittimo quando si soffre di “febbre etica”, una febbre intermittente, con picchi frequenti che portano alla consunzione. Questo disturbo è sufficientemente grave da giustificare un rifiuto, ma non lo sono certo un mal di denti o di testa, scuse (di cui forse l’autore ha sentito in confessionale?) che non hanno alcun valore. Lecito è anche astenersi dopo pranzo, perché si rischia di ostacolare il processo digestivo che ha bisogno di calore, qui utilizzato per la produzione della sostanza seminale. Lo stesso se la consumazione del rapporto sessuale è richiesta durante o subito dopo un bagno, altre situazioni che provocano uno squilibrio termico [50].
Il teologo non specifica il sesso del soggetto da preservare, ma è implicito che si tratta del maschio, la cui fisiologia, più di quella femminile, si fonda su una quantità elevata e regolare di calore, che le situazioni sopra evocate tendono a destabilizzare. Un altro caso prevede invece esplicitamente la tutela dello sposo: il coniuge può rifiutarsi quando la richiesta è eccessiva, a rischio di provocare un pericoloso dispendio di forze [51]. Il marito deve assecondare l’insistenza della moglie solo se non c’è stato ancora concepimento, solo quindi se lo scopo oggettivo di specie lo richiede, o se vi sono altrettanto oggettive necessità politiche, quando il regnum o la communitas chiedono nuova prole. Per esempio, se il re avesse bisogno di uomini per mantenere la pace (leggi: per fornire combattenti agli eserciti), o per popolare un territorio [52]. E sappiamo che, in quello scorcio di Cinquecento, il matrimonio poteva costituire un efficace dispositivo di assoggettamento delle terre di recente conquista (de Castelnau L’Estoile 2019).
Anche la parte femminile è esposta a rischi, ma le possibilità di sottrarsi appaiono minori. Per esempio, può esserne necessaria l’apertura forzata se la sua strettezza (arctitudo) rende il corpo impenetrabile, impedendo il primo atto sessuale, ovvero la consumazione che sigilla il contratto. L’opportunità e legittimità di questa operazione, già menzionata in due decretali fra XII e XIII secolo, verrà ripresa dalla teologia post-tridentina, che non stigmatizzerà la forzatura con uno strumento che taglia o brucia, anche se la donna si opporrà, e se l’operazione rischiasse di provocare, se non la morte, certamente molto dolore (Alfieri 2019). Per meglio contestualizzare questa cruda sentenza dovremo, oltre che tenere presente il peso della cornice contrattualistica, aprire anche a una storia culturale del dolore (Moscoso 2011): tenere dunque conto di una medicina coeva che continuerà a lungo, fino alla metà dell’Ottocento, a non mirare tanto all’eliminazione della sofferenza, quanto al ripristino degli equilibri umorali che causano la malattia. Bisognerà, inoltre, considerare la significazione positiva del dolore corporeo, che avvicina a Cristo. Ma qui, nella fitta rete delle regole del matrimonio, non c’è imitazione di Cristo [53] a giustificare la dolorosa, e forse mortale, apertura forzata del corpo di una sposa. Piuttosto, vi è, implicita, la maledizione di Eva, che partorirà nel dolore, e così tutte le donne dopo di lei (Gen. 3, 16). E se c’è un modello nobilitante per chi è nella condizione matrimoniale, come abbiamo visto, è quello di Maria e Giuseppe, sposi vergini.
Tornando alla casistica del rischio, nemmeno una gravidanza difficile può scusare la donna dal dovere coniugale, tanto più che «per la più parte del matrimonio la moglie è gravida» [54] e sarebbe inumano chiedere al coniuge maschio di astenersi tutto il tempo. Ma c’è un altro caso che diviene di scuola, fondativo per la tradizione dello ius in corpus, il dilemma dei coniugi leprosi (termine dall’accezione a lungo polisemica, Demaitre 2007). Le basi sono un’epistola di Urbano III e soprattutto due decretali di Alessandro III, che sarebbero confluite nel capitolo secondo del titolo De coniugio leprosorum (quarto libro del Liber Extra, promulgato da Gregorio IX negli anni Trenta del XIII secolo e riferimento imprescindibile per la matrimonialistica). In caso di lebbra, il coniuge sano avrebbe dovuto assecondare la richiesta di unirsi venuta da quello malato, a prescindere dall’esistenza di statuti o consuetudini (la sfera del diritto terreno) che ordinano la separazione dei sani dai malati. Fra XIV e XV secolo, i commentatori delle decretali avrebbero teso a introdurre cautamente un’ipotesi di legittima salvaguardia della sopravvivenza personale, guidata dal principio secondo cui la tutela della propria incolumità è una forma di charitas, essendo la vita di uno destinata alla grande catena della vita. Questo principio implicherebbe il dovere di evitare il rapporto sessuale nel massimo picco dell’infezione. Non vi è una distinzione di genere, almeno dichiarata, da applicare nelle prescrizioni a riguardo, almeno fino alle soglie dell’età moderna, quando l’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi (1389-1459) raccomanderà di ascoltare il parere dei medici (che non cita) e di prestare attenzione al fatto che gli uomini sono più esposti al contagio di quanto non lo siano le donne, specie se si tratta di “lebbra leonina” (così detta per le particolari lesioni che provoca). Per questo sarà dunque più scusabile un rifiuto del marito verso la moglie che viceversa. E attraversando a grandi falcate una dottrina affollata e contraddittoria, qui insintetizzabile (per una disamina puntuale, rimando a Testuzza 2012 e 2013), Sánchez aggiungerà anche il “morbo gallico”, aggiornando l’agenda epidemiologica, e ammettendo la possibilità di un rifiuto nel caso in cui si avrà la certezza che la vita sarà messa a repentaglio (senza specificare da quali avvisaglie acquisire tale certezza). La possibilità di legittimo rifiuto è declinata qui con chiarezza in base al sesso, perché una cosa è certa, scrive il teologo: in ogni malattia è più contagiosa la femmina del maschio. Lo è per la sua stessa costituzione fredda e umida, che non è capace di bruciare gli umori malsani, espellendoli per questo nell’atto sessuale. Ed essendo il corpo maschile facile ad assorbirli, il marito sarà, dunque, per ragioni ineludibili di fisiologia, più legittimato al rifiuto [55]. La moglie potrà però respingere il marito in tempore menstruum, temendo (fatto, come accennato, assai raro) che nasca da quella sua condizione fisiologica una prole leprosa (qui lepra significa malattia capace di generare deformità deturpante, e non vi è alcun rimando esplicito alle occorrenze veterotestamentarie). La sola idea di avere sotto gli occhi un figlio in quelle condizioni la indurrà a sottrarsi alla richiesta del debito, fatto umanamente comprensibile. Quest’ultima soluzione (una piccola crepa emotiva si apre fra le maglie delle priorità oggettive, proveniente forse, ancora una volta, dall’esperienza diretta del confessionale?) sarà letta dagli interpreti come apertura a una qualche rilevanza della soggettività nella cruda, a tratti implacabile, rete di necessità dello ius in corpus (ancora Testuzza 2012). Ma quando può dirsi massimo il rischio di un’infezione o di un concepimento mostruoso? Difficile stabilirlo in assoluto, e a seconda di come si guarda questo confine indistinto si può leggere nella posizione del teologo una possibilità di apertura a un qualche diritto soggettivo sul corpo (stavolta non dell’altro, ma del proprio), oppure un appiglio sempre pronto alla sua inibizione, tenuto conto che la coscienza dei coniugi (in teoria quella di nessuno, nemmeno del sovrano) non può mai agire in totale autonomia, ma nella regolare frequentazione di un confessore, cui spetta l’ultima parola anche sulla soluzione di queste questioni [56].
4. Disciplina senza sacrificio?
Possiamo dunque affermare che i coniugi siano tenuti a vivere in un regime di sacrificio permanente, avente come oggetto la libido, da imbrigliare nelle trame di norme il cui rispetto è prioritario rispetto alla sopravvivenza individuale? Questo sistema si basa certo su una ineludibile componente di rinuncia, chiede l’arretramento di fronte alle istanze dell’altro, e implica, per essere mantenuto, una dose necessaria di sofferenza che non esclude la morte (il tutto organizzato in modo armonicamente sperequato secondo la natura dei sessi). Non c’è, però, immolazione di un ignaro innocente, non si aspira a supplizi spettacolari che testimonino una fede irriducibile di fronte a occhi increduli [57]. Siamo piuttosto in un regime di obbligazioni attese, fra le regole di un contratto per cui il coniuge ha prestato il proprio consenso irrevocabile, consegnando per sempre all’altro i diritti sul proprio corpo. Capacità terrifica del linguaggio giurato (Agamben 2008): qui sottrarsi alla parola data è non soltanto una colpa morale, un peccato contro il sacramento quindi contro un ordine dogmatico, ma anche una violazione di giustizia (non ottemperare ai doveri originati da una promessa). Questo, si direbbe, è il prezzo da pagare per quelli che «de i diletti della carne sagrificano gli illeciti, e se ne restano co’ leciti del matrimonio», per richiamare ancora De la Puente [58]. Quei «diletti», del resto, non sono i correlati di quella forza contraria alla ragione che un Dio arrabbiato ha inflitto al genere umano dopo la prima trasgressione dei progenitori (Brown 2010)?
Qui non c’è sacrificio, dunque. Ma nemmeno desiderio. Il titolo di questo intervento è probabilmente sbagliato. Perché alla base di questo catenaccio di obbligazioni c’è una tensione che prende i nomi di concupiscentia, appetitus, libido, e non è pensata orientarsi verso l’altra persona, proprio quella, oggetto specifico di desiderio. L’altro, l’altra del patto coniugale, è il somministratore, la somministratrice dell’atto sessuale, inteso come rimedio momentaneo. La letteratura teologico-morale allude sì ad affectio, benevolentia, mutua conversatio, amor (l’«amore coniugale» di Agostini [59]) come componenti affettive del legame, considerandoli però alla stregua di semplici ricadute o corollari di una consuetudine regolata in primis su un’assiduità fisica obbligata [60]. Quest’ultimo è il territorio oggetto di una normazione intensiva, che non si applica con pari precisione al campo dei sentimenti. Il compagno, la compagna sono, in questo sistema pensato per mettere in sicurezza l’umanità dopo il disastro dei progenitori, presenza opaca. Quasi uno stato emergenziale destinato a non chiudersi mai, che giustifica un regime di disciplina dovuta, una disciplina senza sacrificio.
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Note
1. Questo studio è stato svolto nell’ambito del progetto PRIN 20179JL8WR, “Sacrifice in the Europe of the religious conflicts and in the early modern world: comparisons, interpretations, legitimations”. Ringrazio organizzatori e partecipanti al ciclo di seminari “Il sacrificio nell’Europa dei conflitti religiosi e nel mondo moderno: comparazioni, interpretazioni, legittimazioni”, in cui è stata discussa una versione iniziale di questo saggio, per l’occasione di confronto e discussione; Cristiana Facchini e Vincenzo Lavenia per aver letto e commentato il testo; Mauro Brunello per l’aiuto nel reperimento della documentazione conservata presso l’Archivum Romanum Societatis Iesu. Il Libro di note di Stefano Centurione (1547-1625) e del figlio Agostino (1584-1657) è conservato nel Complesso archivistico Durazzo Giustiniani a Genova (Archivio Centurione 1.2), e si cita qui da Bologna 2018, 45. Non fu solo il padre a entrare tardivamente in religione; dopo una prestigiosa carriera politica e militare, anche Agostino fece l’ingresso nel noviziato gesuitico di Chieri.
2. Bologna 2018, 16.
3. Agostini 1631, cap. 21, § terzo, 516.
4. Notizie sull’autore in Sommervogel e de Backer 1890, col. 73. L’edizione citata è l’unica. In chiusura, l’autore promette di scrivere tre ulteriori capitoli sugli «atti generosi nell’uno, e nell’altro sesso seguiti circa la virtù della pudicitia», che tuttavia non videro le stampe. L’opera non ebbe seguito, a causa probabilmente della valutazione poco entusiasta dei confratelli. ARSI, FG 666, cc. 71r-73r contiene tre censure operate da membri della Compagnia: la prima, a firma di Iohannes Estiot, non è datata («legi librum qui inscribitur Teatro di continenza»); la seconda e la terza, a firma rispettivamente di Adam Pleickner («vidi tres codices […] quorum primus inscribitur, Theatro della continenza con gl’aforismi di quest’angelica virtù; alter Theatro della continenza con gl’antidoti del vitio contrario; tertius Cataclismo, cioè diluvio de’ mali del peccato») e Andrea Pisacane (come il precedente), sono datate 26 e 23 novembre 1640. I primi due ritengono l’opera non pubblicabile a causa delle numerose imprecisioni dell’autore, della materia «non satis digesta» e dei rimandi a indegni autori «de trivio» (71r). L’edizione del 1631 (recante doppio frontespizio, con data 1623) conteneva il nulla osta del padre generale Muzio Vitelleschi e delle autorità maceratesi (diocesi e Sant’Uffizio).
5. Alberigo et al. 2013, Concilium tridentinum, Canones super reformatione circa matrimonium, cap. 10, 753-9.
6. Sul matrimonio mistico fino all’età tridentina, Zarri 2000, 251-387. Per il medioevo, da ultimo, Reynolds 2019.
7. La risposta cattolica alla disputa è sintetizzata nell’opera del francescano Medina 1569.
8. Agostini 1631, cap. 12, § quinto, 76.
9. Sulla dinamica di interiorizzazione del sacrificio, individuata come caratteristica non del cristianesimo, ma già dell’ebraismo successivo alla distruzione del tempio, la nota lettura di Stroumsa 2006. Una prospettiva comparativa in Weddle 2017.
10. Sul primo cristianesimo e l’alto Medioevo, Ferrarini e Rossi 2020. La dottrina giuridica tardomedievale in materia è esaminata da Marchetto 2008, 387-426. Manca, a mia conoscenza, un’indagine sulle prassi di età moderna. Noti i casi di ingresso in religione delle vedove Marie de l’Incarnation (orsolina, al secolo Marie Guyart), Jeanne-Françoise Frémyot de Chantal, fondatrice delle visitandine.
11. Agostini 1631, cap. 21, § secondo e terzo, 513-5; la vicenda è anche in Scaduto 1964, 260, che ricorda, insieme alla vicenda di Sardo, anche quella di Giovanni Antonio Oliviero. Siciliano a sua volta, entrava nell’ordine con tre figli. Casi come questi si verificano fino al Novecento. Weber 2022.
12. ARSI, Ital. 123, c. 172r, Antonio Sardo al generale Diego Laìnez, Messina, 10 settembre 1573. Sulla vicenda di Sardo, anche le cc. 341r-342v. Tre figli sarebbero entrati nell’ordine ignaziano, ARSI, Sic. 183 I, c. 95v.
13. ARSI, Ital. 125, c. 171r/v, Antonio Sardo al generale Diego Laìnez, Messina, 29 novembre 1574.
14. Ricorre l’uso del termine “sacrificio” negli scritti di denuncia delle monacazioni forzate di Arcangela Tarabotti: Medioli 1990; Tarabotti 2007.
15. Samperi 1644, lib. 2, 221 e lib. 3, 339.
16. Ne riferisce la littera annua dal collegio di Messina, insieme al racconto drammatico della carestia che colpì la città. Quell’anno si mangiavano cani, catturati per strada con esche uncinate, «subito tirati con gran giubilo et allegrezza», ARSI, Sic. 183 I, cc. 95r/v.
17. Agostini 1631, cap. 21, § terzo, 516.
18. Puente 1628, trattato IV, cap. 4, “Del terzo frutto dell’Oratione, che è la rinuntia di tutte le cose, con varij gradi […]”, § 2, “Di tre eccellenti rinuntie, che sono di consiglio”, 216.
19. Puente 1616, tract. 2, 129-70. La Guía espiritual uscì originariamente in spagnolo nel 1609, venendo in questo idioma più volte ristampata nel corso del secolo, e ancora fino alla prima metà del Novecento; la traduzione francese conobbe ristampe fino alla fine del Settecento; l’ultima italiana è del 1744. Del medesimo autore, il Tratado de la perfección cristiana en todos los estados (uscito in più volumi fra 1612 e 1616), pensato in parti specifiche dedicate a laici, clero regolare e clero spirituale, dedica – nel volume su questi ultimi – una sezione alle forme del sacrificio fra Antico e Nuovo Testamento, di cui la messa è la più nobile sintesi.
20. Le corrispondenze del gesuita con le sue dirette spirituali sposate invitano alla moderazione degli eccessi devozionali e al mantenimento dell’equilibrio domestico, Roldán-Figueroa 2017.
21. Puente 1628, trattato IV, cap. 4, “Del terzo frutto dell’Oratione, che è la rinuntia di tutte le cose, con varij gradi […]”, § 2 “Di tre eccellenti rinuntie, che sono di consiglio”, 215.
22. Ivi, 216; Agostino d’Ippona, Enarrationes in Psalmos, In psalmum 65, 20, col. 799.
23. Filone di Alessandria, De specialibus legibus, lib. 1, tract. De victimis, di cui si è consultata l’ed. Philo in Ten Volumes, 191-267 (capp. 33-47).
24. Gregorio Magno, Homiliarum in Ezechielem prophetam libri duo, homil. 8 e 9, coll. 1027-58.
25. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae, q. 186, art. 7.
26. Puente 1628, trattato IV, cap. 4 “Del terzo frutto dell’Oratione, che è la rinuntia di tutte le cose, con varij gradi…”, § 2 “Di tre eccellenti rinuntie, che sono di consiglio”, 216. Il riferimento è a Giovanni Cassiano, Collationes, 3, 6, coll. 564-6.
27. Si fa di nuovo riferimento a un testo di minore diffusione, anche se tradotto in francese e ristampato nel XIX secolo: Candela 1599, in “parte quinta. Che nella gloria essenziale le vergini haveranno maggior gloria che le vedove, maritate”, 165, in cui si afferma che la castità delle vergini «è l’hostia vivente, santa, ragionevole […]. La vergine è un sacrificio, e un sacrificio più eccellente di altri sacrifici […] un perpetuo martirio, che dura tutta la vita».
28. Puente 1628, trattato IV, cap. 4 “Del terzo frutto dell’Oratione, che è la rinuntia di tutte le cose, con varij gradi…”, § 2 “Di tre eccellenti rinuntie, che sono di consiglio”, 215.
29. Agostini 1631, cap. 21, § primo, 493.
30. Ivi, cap. 20, 492.
31. Un inquadramento dell’episodio in Frymer-Kensky 2004, 102-17.
32. Bibliorum sacrorum tomus secundus 1545, c. 46r-v. Interpretazioni della prima patristica in Bauks 2010, 129-37. Fra queste, quella di Ambrogio, che nella sua Exortatio virginitatis sottolineava il valore sacrificale della verginità della figlia di Iefte, elemento positivo dell’episodio (131). Sull’interpretazione di Lira, ancora Bauks 2010, 137-8 e Thompson 2001, 150-2.
33. Bibliorum sacrorum tomus secundus 1545, c. 47v.
34. Così Juan de Polanco nei Monumenta Paedagogica Societatis Iesu 1965, 597; Thompson 2001, 165-6.
35. Borgo 1786, 41. Un uso “gesuitico” del sacrificio di Iefte nel lungo periodo mi risulta ancora da indagare.
36. Su Trivulzio, Sevesi 1936; sul matrimonio Gonzaga-Montefeltro, la fonte esplicitata di Agostini è Bembo 1548 (Pellizzer 1993). La prospettiva della dottrina in Gaudemet 1980.
37. Sull’accezione agostiniana di concupiscenza, di recente Van Oort 2018. Letture della concupiscenza nel lungo Medioevo in Comportamenti e immaginario della sessualità nell’alto Medioevo 2006. Una ricostruzione dettagliata delle discussioni a Trento, Boyer 1945.
38. Qui si farà riferimento all’edizione Sánchez 1623, non soggetta a censura, indicando le partizioni interne. Sull’autore nel dibattito canonistico contemporaneo, Kowal 2012, e, anche per un aggiornamento bibliografico, Alfieri 2021.
39. Sulla canonistica medievale, Madero 2015. Una prospettiva di lungo periodo in Dieni 1999 e Witte Jr. 2021.
40. Sánchez 1623, lib. 9, disp. 19, § 9.
41. Ivi, disp. 21.
42. Ivi, dispp. 12 e 13.
43. Ivi, disp. 21, § 7.
44. Tommaso d’Aquino, IV Sentent., dist. 32, art. 2, “Sulle teorie del concepimento”, Pancino 2021.
45. Non vi è alcun rimando, qui, a letteratura medica, ma è probabile che alla base di questa considerazione vi sia il coevo revival dell’embriologia galenica, che attribuisce un ruolo rilevante nella generazione anche agli umori femminili. Non solo, dunque, materia sanguigna, eccedente, facile a corrompersi e a danneggiare il concepito, come nello schema aristotelico.
46. Puente 1628, trattato IV, cap. 4 “Del terzo frutto dell’Oratione, che è la rinuntia di tutte le cose, con varij gradi…”, § 2 “Di tre eccellenti rinuntie, che sono di consiglio”, 215.
47. La stessa visione medica, di matrice galenica, considerava i corpi non separati dal cosmo: «piccoli universi infiammati, e nel loro cuore, nel loro cervello e nelle loro vene pulsava lo stesso calore e spirito vitale irradiato dagli astri», Brown 2010, 14.
48. Uno sguardo sulla letteratura teologico-morale successiva: Scarpazza 1797, ad esempio, cremasco, morto alla fine del XVIII secolo, nel trattato IX sul sacramento dell’ordine scriveva che il matrimonio è «massimo impedimento al Sagrifizio», inteso qui ovviamente come eucaristia. «Se nemmeno era lecito ai Levitici Sacerdoti offrire sacrifizi, sebbene ombre sterili del Sacrifizio nostro […] quanto più puri non dovranno essere quei che offrono il Sacrifizio dell’immacolato Agnello sposo delle vergini?» (224).
49. Sánchez 1623, lib. 9, d. 24 continua la quaestio: «O come quando uno dei due coniugi è infetto da lepra, o qualche altra malattia contagiosa?».
50. Ivi, §§ 3 e 4.
51. Ivi, § 5. Esplicito anche il medico coevo, esponente del galenismo ippocratista e docente ad Alcalá, evocato qui dal teologo, Vega 1565 (prima edizione 1564), lib. 2, cap. 4, 381: «Immodicus itaque venereorum usus foeminas parum laedit, mares vero valde». Sull’autore, Hernández González 1997.
52. Sánchez 1623, lib. 9, d. 24, § 11.
53. Il “mystical self-sacrifice” di Tommaso di Kempis e Teresa d’Avila, in Weddle 2017, pp. 132-138.
54. Sánchez 1623, lib. 9, d. 22, §§ 6 e 12.
55. Ivi, d. 24, § 19. Si tratta di un atto di giustizia, secondo le regole dello ius in corpus, anche se con probabilità a quel dovere ottemperato seguirà la morte. Gli autori allegati non comprendono medici coevi, presenze non infrequenti nell’opera, ma autori che si espressero genericamente «ex medicorum testimonio». Fra questi, il più risalente è Durand de Saint-Pourçain 1563, lib. 4, dist. 32, q. 1, § 8, c. 323v. L’autore, morto intorno al 1332, afferma che bisogna credere ai medici, «quia unusquisque in arte sua sapiens est», come è scritto in Eccles. 38.
56. Una riflessione sulla giurisprudenza contemporanea, Gazzolo e Marella 2022.
57. Con il generalato di Claudio Aquaviva, sotto cui opera anche Sánchez, inizia la prima stagione martiriale della Compagnia di Gesù. Il martirio non deve essere necessariamente cruento, ma può avvenire anche per caritatem, come nell’assistenza ai malati, o nell’ascolto della confessione. Motta e Rai 2022; anche Lavenia e Pavone 2022 [eventuale contributo interno al fascicolo?]
58. Puente 1628, trattato IV, cap. 4 “Del terzo frutto dell’Oratione, che è la rinuntia di tutte le cose, con varij gradi…”, § 2 “Di tre eccellenti rinuntie, che sono di consiglio”, 215. Sull’interiorizzazione del sacrificio, ancora, Stroumsa 2006, in partic. 60-87.
59. Agostini 1631, cap. 21, § terzo, 516.
60. Non è questa la sede per un esame di occorrenze e significati della formula “amore coniugale”, da sondare in prospettiva comparativa fra letteratura normativa, in lingua latina, ad uso degli addetti ai lavori (giuristi, confessori), letteratura pratica, in volgare, rivolta ai laici, e letteratura erudita di matrice umanistica, ecclesiastica e laica. Mi limito a citare i lavori di Morant Deusa 2002 e Leushuis 2004.