Storicamente. Laboratorio di storia

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Stefano Allovio, Pigmei, europei e altri selvaggi

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«[L’antropologia] dovrebbe perseverare nel riconoscere e valorizzare il contributo dei Pigmei […] alla costituzione del repertorio polifonico della cultura umana; insinuare almeno il dubbio che, nel continuo processo di costituzione di tale repertorio, i Pigmei possano essere artefici e attori equivalenti al pari di altri protagonisti» (p. 160). Se in questa affermazione si può sintetizzare la proposta contenuta nell’ultimo volume di Stefano Allovio, pubblicato per Laterza, va sottolineato che l’orientamento assunto a questo proposito dall’antropologo dell’Università di Milano ha delle implicazioni che trascendono il caso dei Pigmei per andare a toccare lo status e il modus operandi degli antropologi contemporanei.

In senso stretto, Pigmei, europei e altri selvaggi non è un libro sui Pigmei, come l’a. chiarisce esplicitamente nella premessa. Nell’arco di cinque capitoli, Stefano Allovio delinea un’analogia tra gli antropologi e i Pigmei, esaminando gli equivoci, le letture superficiali e gli essenzialismi che sono stati proiettati sugli uni e sugli altri («ci sono i Pigmei, cacciatori e raccoglitori, ci sono gli antropologi, mercanti di stupore, e ci sono i pensatori autorevoli che disseminano conoscenze», p. 12), e accostando puntualmente alla pars destruens la base su cui si può sviluppare la pars construens. In questo contesto, usare gli strumenti dell’antropologia per cogliere l’eccellenza e la complessità culturale dei Pigmei è un’occasione per mettere in discussione sia le gerarchizzazioni tra culture “eccellenti” e culture “primitive”, sia le asimmetrie tra le discipline accademiche “autorevoli” e quelle “marginali”.

Il volume fornisce descrizioni dettagliate di vari aspetti della storia e della cultura dei Pigmei: dalla produzione artistica alle concezioni ambientali e all’acquisizione di risorse, dai contatti e dagli scambi con altre popolazioni al vergognoso uso di “esemplari” di Pigmei come fenomeni da baraccone nelle esposizioni europee e americane. Ciascuno di questi temi è trattato come spunto per riflettere non solo sul dialogo tra “noi” e “loro”, ma soprattutto su quello tra l’antropologia e gli altri saperi, accademici e non, e sul rapporto che l’antropologia ha con se stessa: la marginalità dei Pigmei fa il paio con quella degli antropologi. A questo proposito, da un lato Allovio suggerisce ai non antropologi di impegnarsi maggiormente a conoscere l’antropologia prima di giudicarla; dall’altro, invita agli antropologi stessi a intrattenere un rapporto più sereno, costruttivo e intenso con la storia della loro disciplina, allo scopo di considerare e mettere a frutto quanto di utile è stato disseminato da differenti scuole nel corso del XX secolo, piuttosto che gettar via il bambino con l’acqua sporca. Come si sottolinea nel capitolo V, la ricchezza di dibattiti e la scarsa cumulatività del sapere in antropologia forse aiutano ad aggirare alcune forme di miseria intellettuale, ma rischiano anche di produrne altre (p. 137).

Pigmei, europei e altri selvaggi affronta gli spinosi dilemmi che emergono dalla ridefinizione dell’idea di disciplina accademica da quella di campo da studiare a quella di causa da portare avanti e acquisisce la critica interna (sul fronte dell’anti-essenzialismo, del presente etnografico, del concetto di evoluzione culturale, del posizionamento dell’osservatore) senza fermarsi a contemplarla, ma per giungere a proporre delle asserzioni. Per sintetizzare in una formula, l’antropologia non deve limitarsi a rivendicare il proprio ruolo e a esprimere solidarietà nei confronti delle culture altre, ma piuttosto praticare il terreno sulla cui base si può apprezzare da un lato il contributo offerto dagli antropologi al sapere accademico e dall’altro ciò che le culture altre possono inserire nel repertorio della creatività umana: non deve essere un afflato di solidarietà, per quanto assolutamente auspicabile, a indirizzare la ricerca, ma piuttosto quella riflessione sulle equivalenze di eccellenza e complessità che l’etnografia può mettere in luce ovunque nel mondo.

Stefano Allovio prende posizione su due questioni cruciali per l’antropologia culturale contemporanea: innanzitutto, scegliere le chiavi di lettura non tanto in conformità a mode teoriche e terminologiche, ma in base all’efficacia degli attrezzi concettuali utili a descrivere, interpretare e spiegare; in secondo luogo, oltre a cogliere le equivalenze dei diritti, puntare a indicare le equivalenze di eccellenza e complessità dei prodotti culturali e delle pratiche. La ricerca antropologica ribadisce da tempo la «non equivalenza dei significati», ma deve insistere anche e soprattutto sull’equivalenza di valore, e deve farlo «sulla base di considerazioni intellettuali prima che etiche» (p. 160).