Storicamente. Laboratorio di storia

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Ottavia Niccoli, “Muta eloquenza”

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Ottavia Niccoli, Muta eloquenza. Gesti nel Rinascimento e dintorni. Roma: Viella, 2021. 201 pp.

Il più recente volume di Ottavia Niccoli sviluppa sistematicamente un ambito tematico che l’autrice aveva già avuto occasione di affrontare in più contributi, pubblicati soprattutto nel corso degli ultimi quindici anni. L’oggetto è di estrema importanza per un’antropologia storica dell’età moderna e si può dire che non abbia ricevuto adeguata attenzione nel mondo degli studi. Nello stesso tempo, si trova all’incrocio di una serie di prospettive e orientamenti di ricerca dinamici, che prometterebbero che nel prossimo futuro se ne venga a sapere di più. Detto questo, il riferimento di Ottavia Niccoli a orientamenti storiografici correnti non sempre è esplicito (se ne dirà oltre).

Nel corso di anni di ricerca in cui ha mostrato costante attenzione per questi fatti e aspetti, l’autrice è venuta raccogliendo un fenomenale repertorio di informazioni sulla gestualità in uso in età rinascimentale, tanto che l’esposizione e discussione ordinata e ragionata di una serie di campi in cui veniva esercitata assume in questo volume la forma di una specie di sintetico dizionario del lessico gestuale dell’epoca. Vi ritroviamo, fra gli altri, riti e gesti del potere (così come quelli che lo pongono in questione, ivi incluso un immaginario mondo alla rovescia a guida femminile); i gesti dell’Annunciazione; saluti, baci e strette di mano; i gesti del lutto e del pianto. Il tutto con consapevolezza e attenzione alle dinamiche sociali che li percorrono e utilizzano facendone il campo di differenze e conflitti fra gruppi, di pratiche di disciplinamento e di acculturazione.

L’esperienza di ricerca di Ottavia all’Istituto e Biblioteca Warburg ha lasciato un segno visibile nel campo dei suoi interessi e metodi di studio (naturalmente, le istituzioni non plasmano i ricercatori come modelli di cera: questi, in primis, se le vanno a cercare, e l’interazione è sempre reciproca). Se quella lezione è stata presente lungo l’arco della sua produzione scientifica, a partire da I sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia di un’immagine della società (Torino: Einaudi, 1979), il colloquio ideale con la warburghiana idea-chiave di Pathosformeln si infittisce in questo volume, in cui viene evocata ripetutamente, a suggerire topoi gestuali divenuti convenzionali, tanto in forma verbale quanto iconica, per veicolare significati così come stati d’animo. Ottavia Niccoli non ha qui bisogno di riferirsi espressamente al boom editoriale che ha conosciuto internazionalmente negli ultimi tempi la storia delle emozioni; in ogni caso i suoi esempi e le sue osservazioni si accordano e rafforzano il meglio della ricerca che vi si è compiuta, che non ha mancato di sottolineare la componente di costruzione sociale e di ritualità che attraversa l’espressione delle emozioni in contesti culturali, che vengono a normare le regole dell’interazione interpersonale senza per questo comprometterne la sincerità, che se ipostatizzata e ontologizzata è un falso problema. Nel dar conto di tali fenomeni dalla natura e interpretazione complessa, l’autrice opera scelte lessicali sempre puntuali ed efficaci.

L’apparato iconografico di tavole fuori testo che correda il volume contempla la riproduzione di una quarantina di opere grafiche o pittoriche (o loro dettagli) e di tre scultoree. Il fatto che, oltre a una ricca varietà di materiali testuali, una fonte significativa dell’opera sia costituita da immagini ha delle evidenti implicazioni sull’impianto argomentativo dell’autrice e solleva questioni di metodo note, ma sempre stimolanti e passibili di nuove formulazioni e soluzioni. L’esperienza e competenza dell’autrice si rivelano nella sensibilità ai diversi contesti; come quando, nell’esporre due soggetti iconografici piuttosto simili – i villani che, secondo i diari di Marin Sanudo, mostrano il culo al passaggio dell’imperatore Massimiliano che si ritirava dal fallito assedio di Padova; e quelli che, in un’incisione di Lucas Cranach, alla stessa maniera deridono il papa – nota en passant che una differenza fra le due scene sta nel fatto che solo la prima potrebbe effettivamente essere accaduta.

In questa sede Ottavia Niccoli non tratta di potere delle immagini, né ricostruendo quello che vi possono aver contribuito donne e uomini dell’epoca, né discutendo quanto ne ha detto la letteratura recente. Vale la pena ricordare, però, che se n’era occupato sistematicamente, dieci anni prima, il suo Vedere con gli occhi del cuore. Alle origini del potere delle immagini (Roma-Bari: Laterza, 2011), il cui intento dichiarato era indagare «le modalità con le quali, concretamente, uomini e donne fra tardo medioevo e prima età moderna costruivano dentro di sé un mondo di immagini mentali che consentivano loro un rapporto con il soprannaturale positivo e affettivamente intenso» (Vedere, p. IX). L’autrice, peraltro, aveva, in premessa, messo in guardia il lettore:

In questo libro lascerò da parte più che potrò le questioni teoriche che il tema necessariamente pone, pur dandone conto se necessario, e cercherò soprattutto di seguire le esperienze immaginative concrete di uomini e donne, tentando anche di verificare come queste esperienze abbiano subito nel corso del periodo preso in esame delle alterazioni […] (ibid.).

Di conseguenza una recensione, per il resto alquanto benevola (Evelyn Lincoln, American Historical Review 118, 1, 2013: 240-41), commentava che la scelta «perhaps accounts for the feeling readers may have of encountering a string of juxtaposed events».

In Muta eloquenza, pertanto, a maggior ragione non ci si attenderà un dialogo, per fare un esempio, con le ipotesi di David Freedberg e Horst Bredekamp sull’agentività delle immagini. Rimane il fatto che a proposito dell’uso delle immagini come fonte storica non ogni lettore sarà edotto dei contributi che vi ha portato la riflessione metodologica recente, da Peter Burke a Ludmilla Jordanova. E alla medievistica francese, con cui l’autrice ha indubbia familiarità, alla scuola di Jacques Le Goff e Jean-Claude Schmitt, e a opera fra gli altri di Jérôme Baschet, si deve una focalizzazione sulla materialità dell’immagine (l’“immagine-oggetto”), che suggerirebbe di rimarcare la differenza che fa, dal punto di vista del pubblico fruitore, il fatto che un motivo iconografico sia affidato a un disegno o a una statua – con tutte le dimensioni che questo comporta, non esclusa quella tattile (per quanto la statua possa implorare: noli me tangere). Né sarebbe probabilmente superflua un’esplicita considerazione dei contesti originari di circolazione o esposizione, con le caratteristiche (dal luogo pubblico o privato, alle condizioni di luce o all’angolatura della vista) che hanno marcato le forme dell’esperienza passata di quelle immagini.

A un gran bel libro di duecento pagine non si poteva chiedere tutto, ma queste considerazioni di un amico lettore sono da intendere come prosecuzione di un dialogo su teoria e storia, che si sa rimarrà sempre aperto.