Deindustrializzazione e memoria nei contesti minerari: il caso sardo
Il processo di deindustrializzazione conosciuto dal comparto minerario sardo affonda le radici negli anni Sessanta, quando la crisi delle principali società minerarie private (Pertusola, Monteponi-Montevecchio, AMMI) portò all’acquisizione, a partire dal 1968, dei siti minerari da parte di compagnie a gestione statale. Negli anni Settanta, il comparto fu investito da un vero e proprio processo di deindustrializzazione con la contrazione e successiva chiusura dei principali siti minerari ancora attivi nel corso degli anni Ottanta. Nell’arco di poco meno di un trentennio, si assistette a un calo verticale degli occupati. Nel 1997 venne decretata la definitiva chiusura dei siti ancora attivi, all’epoca gestiti da società a partecipazione statale e regionale [1].
Il forte impatto sulle comunità dell’esaurirsi dell’attività mineraria nel corso degli anni Novanta produsse la mobilitazione della cittadinanza per la rigenerazione del territorio, che, nel caso sardo, portò alla creazione del Parco geominerario storico e ambientale della Sardegna nel 1998 [2]. Il Parco è il risultato di un’intuizione che ha visto nel grande patrimonio culturale, tecnico e scientifico della lunga storia mineraria della Sardegna, un valore e una potenzialità tali da essere portati all’attenzione dell’Unesco. E fu proprio la conferenza generale dell’Unesco, nel 1997, a riconoscere il Parco geominerario come primo parco della futura rete mondiale dei geositi/geoparchi dell’Unesco.
Nel 1998 l’Unesco, il Governo italiano, la Regione Sardegna, le università sarde e l’Ente minerario sardo firmarono la Carta di Cagliari. Gli obiettivi fissati nella “Carta” contemplavano la riabilitazione e la bonifica dei siti minerari dismessi; il recupero dei cantieri e delle strutture minerarie di interesse scientifico; la musealizzazione del patrimonio di archeologico industriale; la realizzazione di attività educative, ricreative e artistico-culturali; la promozione della ricerca scientifica, l’insediamento di attività economiche compatibili [3]. Negli anni Duemila, si è sviluppato un’importante processo di attivazione per il recupero delle fonti delle società minerarie, che ha dato vita a importanti archivi [4], anche di valenza internazionale, come l’Archivio storico minerario Igea Spa.
La crisi dell’industria mineraria e l’imponente processo di deindustrializzazione sopra richiamato hanno generato una interessante produzione letteraria e memorialistica, che, nostalgia e risentimento, affronta la perdita degli usi e dei costumi delle comunità minerarie a partire dalle trasformazioni profonde dell’ambiente e del paesaggio [Caravano 1993]. Nel reportage di Angelo Ferracuti, dal titolo emblematico Addio! [2016] c’è l’addio alla Sardegna delle miniere. Al centro della narrazione, vi sono i siti minerari abbandonati di Carbonia, Iglesias, il Sulcis-Iglesiente, abbandonati dopo la fine dell’industria estrattiva. L’incapacità della Sardegna si riconvertire il vecchio sistema produttivo minerario in un’industria innovata nei processi e nei prodotti è al centro del lavoro del volume Sollevatori di pietre. I sardi le miniere il colonialismo, il cui autore, Daniele Manca [2015], è figlio di una famiglia che con le miniere ha avuto a che fare da più generazioni.
Il documentario Cattedrali di sabbia di Paolo Carboni [2010], rappresenta un viaggio attraverso la Sardegna che ha creduto al sogno dell’industrializzazione, dismettendo le vesti di società contadina e pastorale, per aspirare a un possibile sviluppo industriale fino all’infrangersi di quel sogno industriale che ha indotto alla riscoperta dell’economia primigenia. Anche il film Appunti di viaggio, girato da Dafne Turillazzi [2000] nei territori già teatro dell’epopea mineraria sarda, riporta alla luce storie di uomini e di donne radicati nelle memorie delle comunità minerarie di San Gavino, Guspini, Arbus, Montevecchio, Ingurtosu, Piscinas. Le storie di vita e di lavoro degli abitanti delle comunità minerarie sarde sono state anche oggetto della ricerca privilegiata di antropologi come Paola Atzeni [1980], che ha documentato la rappresentazione del lavoro in miniera nella Sardegna sud occidentale attraverso i canti, e Antonietta Podda [2008], che ha sottolineato il ruolo fondamentale della musica tradizionale nella vita delle comunità sarde.
L’orgoglio identitario per il lavoro in miniera e la nostalgia per il suo esaurirsi nell’ambito del processo di deindustrializzazione emergono a chiare lettere dalla memorialistica. Quest’ultima è divenuta abbondante negli anni Duemila, grazie all’attivismo di associazioni di minatori che, in collaborazione con le comunità locali, hanno dato origine a interessanti esperienze di valorizzazione. È il caso dell’Associazione minatori memorie (Amime) che nel 2007 pubblica Sardegna: minatori e memoria, un volume che raccoglie fatti e storie di protagonisti che hanno perso la loro vita nelle miniere della Sardegna e dell’Iglesiente. Analogamente, l’Associazione minatori Nebida, ha dato vita a un piccolo spazio espositivo e centro di documentazione sull’attività mineraria, collaborando alla realizzazione di attività di valorizzazione della memoria del lavoro in miniera. Infine, il progetto del Museo Laboratorio Andaus a sa scola de miniera curato da Paola Atzeni [2007] ha dato origine, grazie all’apporto volontario dei cittadini, a un archivio di memorie orali e alla raccolta del patrimonio fotografico scolastico [http://museoscuoladiminiera.it] dei primi anni del Novecento.
Negli anni 2010, inoltre, è stato promosso un processo di raccolta di fonti orali su vasta scala, tutt’ora in corso, che ha visto tra gli attori principali l’Archivio storico minerario Igea s.p.a. e il Parco geominerario storico e ambientale della Sardegna. Queste fonti appaiono ancora largamente sconosciute, per la mancanza allo stadio attuale di strumenti d’accesso e di ricerca, ma costituiscono una risorsa preziosa per chi voglia indagare la storia del lavoro nel contesto minerario, sardo in particolare. Le potenzialità degli archivi digitali di fonti orali per lo studio della storia del lavoro nei contesti minerari sono emerse anni or sono dal pionieristico progetto coordinato da Giovanni Contini e che ha dato origine all’Archivio video di storia orale, contenente interviste ai minatori del Monte Amiata [http://www.archiviovideodistoriaorale.it/parcoamiata].
Le fonti orali dell’Archivio storico minerario Igea s.p.a.
Nella cornice del processo di valorizzazione e rifunzionalizzazione di aree minerarie ormai dismesse ha preso corpo l’Archivio storico minerario, ospitato, dal 2011, presso quello che un tempo era il magazzino centrale di una delle più importanti società minerarie, la Monteponi, edificato negli ultimi anni dell’Ottocento. Nell’Archivio sono confluiti, negli anni, attraverso processi di liquidazione e di fusione societaria, gli archivi delle società minerarie (o parte di essi) che dal 1850 hanno gestito le attività estrattive e di arricchimento dei minerali in Sardegna e in altre regioni italiane [Cuccu 2017].
Come evidenziato dal responsabile dell’Archivio, Alessandro Cuccu, «la documentazione subisce tra il 1976 e il 1986, numerosi spostamenti, frazionamenti e rimaneggiamenti». Accanto alle dispersioni, tuttavia, si sono verificate cospicue donazioni di documenti, fotografie e anche attrezzature, macchine da stampa e calcolatori [Cuccu 2017; Azara, Betti 2017].
Nel 1994, la Soprintendenza archivistica per la Sardegna ha dichiarato l’Archivio di notevole interesse storico. Tra il 1998 e il 1999, Igea, una società a partecipazione regionale incaricata della gestione del comparto minerario e dell’attività di bonifica connessa alla chiusura dei siti, decide di dare vita a un vero e proprio archivio storico. In tale processo, un ruolo determinante è svolto da ex minatori e impiegati che si attivano per il salvataggio delle carte ancora collocate negli edifici dismessi, spesso in condizioni di degrado e abbandono. Oggi, Igea è impegnata in un’opera di censimento, riordino e inventariazione del patrimonio documentale, con l’obiettivo di renderlo condivisibile attraverso strumenti di corredo scientifici, con i sistemi archivistici nazionali.
La documentazione conservata presso l’Archivio storico minerario fa riferimento al periodo compreso tra la metà del XIX secolo e il 2015, con una consistenza stimata in 64 mila unità archivistiche. La documentazione è costituita da migliaia di elaborati tecnici e piani minerari; planimetrie dei giacimenti, delle gallerie e dei pozzi di estrazione, utili a ricostruire le diverse fasi dell’attività industriale-estrattiva. Di rilievo anche la cartografia tecnica che riguarda gli impianti, i macchinari, gli edifici industriali e civili. Imponente è la documentazione amministrativa e tecnico-amministrativa, relativa al personale, ai bilanci e alle produzioni. Significativi anche i “rapporti di miniera”, i fascicoli del personale e i libri matricola, importanti per ricostruire aspetti della storia lavorativa di donne, uomini e fanciulli impiegati dalle diverse società, nel tempo [Cuccu 2017].
Preservare la memoria del lavoro in miniera è stato il motore che ha spinto l’Archivio storico minerario Igea a promuovere, tra il 2010 e il 2012, diverse fasi di raccolta di fonti orali, a integrazione delle altre tipologie di fonti già presenti. È stato così costituito un fondo che consta di circa 100 video-interviste. Le video-interviste sono state realizzate con un’attenzione specifica alla mansione svolta, al sito minerario di appartenenza, al luogo di residenza, criteri che consentono di approfondire la cultura del lavoro nei suoi aspetti tecnici, le condizioni di lavoro e il loro evolversi nel tempo, oltre al background familiare. Per quanto il genere non sia stato uno dei criteri adottati nella realizzazione delle interviste, da cui la presenza residuale di sole 5 donne tra gli intervistati, è indubbiamente possibile indagare sia il tema della mascolinità che quello della soggettività femminile, già al centro di studi condotti su fonti orali in altri contesti minerari [Contini, Martini 1993; Contini 1999]. Gli intervistati appartengono a più generazioni, la prima e meno numerosa è quella dei nati tra la metà degli anni Venti e la metà degli anni Trenta; la seconda è quella dei nati nella prima metà degli anni Quaranta; l’ultima è quella nata negli anni Cinquanta.
Le interviste prese in esame offrono uno spaccato del lavoro e della vita in miniera della prima generazione di intervistati, l’unica che consente di tematizzare anche la presenza femminile. La differenza sostanziale tra il mondo femminile e il mondo maschile in miniera è, nel caso delle donne intervistate, la scarsa alfabetizzazione, la completa assenza di qualificazione e l’impossibilità di accedere a occasioni formazione professionale. Il lavoro di “cernitrice”/”lavatrice”, svolto dalle intervistate, rispondeva essenzialmente a un’esigenza di sostentamento per la famiglia di appartenenza, nel caso di donne nubili, o per la propria, nel caso di madri con figli a carico o di vedove che avevano perso il marito (generalmente a seguito di un incidente sul lavoro in miniera). Il mondo maschile, invece risulta molto più composito sul piano professionale e nel campione degli intervistati presi in esame, accanto alla figura tradizionale del minatore, emerge anche quella dell’ingegnere e del manovale tuttofare.
Identità, cultura del lavoro e percorsi di carriera maschili nelle miniere sarde
Nelle biografie maschili esaminate [5], le origini familiari giocarono un ruolo tutt’altro che secondario nella scelta di lavorare nel contesto minerario. Se in alcuni casi la condizione di minatore veniva trasmessa da una generazione all’altra, talvolta i figli ebbero la possibilità di migliorare la condizione sociale di partenza attraverso lo studio. È il caso dell’ingegnere minerario Antonio Ghigino (1933), che coltivò il sogno di diventare ingegnere fin da bambino, nella Carbonia degli anni Trenta pervasa dalla cultura di miniera. Non casuale appare la scelta del medico del lavoro Antonio Guaida (1928), il cui padre era stato operaio nella miniere di Montevecchio, che si specializzò nella cura degli infortuni e malattie proprie dei contesti minerari. Mentre il manovale “tuttofare” Piero Loi (1933) era figlio di un custode della miniera di Montevecchio, il minatore Antonio Fallo (1925) proveniva da un famiglia di minatori e l’operaio Ferdinando Macciò (1928) vantava un padre impiegato nella stessa società, la Monteponi.
Alcune biografie evidenziano, invece, come nei contesti minerari sardi avesse un ruolo importante il lavoro agricolo sia nel periodo tra le due guerre che in quello successivo, evidenziando quanto fosse diffusa la pluriattività tra agricoltura e attività mineraria sia nella generazione degli intervistati che in quella dei genitori. Antero Fanunza (1929) e Piero Loi (1933) furono impegnati fin da bambini nei lavori agricoli, transitando all’attività mineraria solo da adulti. Piero, dopo la quinta elementare, lavorò come pastore a tempo pieno, pur avendo iniziato a lavorare in agricoltura già durante la scuola; negli anni Cinquanta si mise in proprio come piccolo contadino e negli anni Sessanta abbinò all’attività agricola quella di camionista per una società appaltatrice della miniera di Montevecchio. Nel 1964 iniziò quindi a lavorare per la stessa Miniera, nel sito di Piccalinna. Vi resterà per venticinque anni, fino al 1988; cessando il lavoro poco prima della chiusura del sito (1991). Antero, impiegato fin da bambino nei lavori dei campi, a 18 anni iniziò a lavorare in una miniera di barite. L’esperienza fu, tuttavia, breve, per via dell’incipiente crisi nella produzione mineraria, che lo costrinse a occuparsi della disinfestazione dalle cavallette che infestavano l’area dell’Iglesiente nei primissimi anni del secondo dopoguerra. Nel 1951 tornò poi all’attività mineraria, iniziando a lavorare nella miniera di piombo e zinco di Rosas, dove rimase oltre un trentennio.
Mentre la mobilità territoriale a lungo raggio contraddistingue solo alcune delle biografie, l’attaccamento al territorio emerge a chiare lettere in tutte le memorie degli intervistati, sia in coloro che non si staccarono mai dai luoghi d’origine sia in chi vi tornò dopo un periodo trascorso nelle capitali del boom, come Milano. Emblematico è il caso dell’ingegnere minerario Antonio che, assunto nella miniera piombo-zincifera di Montevecchio (Guspini), ampliò i suoi orizzonti viaggiando dal nord al sud dell’Italia per conto dell’Agip, ma di fronte alla prospettiva di trasferirsi in Patagonia decise di tornare in Sardegna e continuare a lavorare nelle miniere dell’isola. L’operaio specializzato Gavino Spanu (1931), dopo aver tentato di seguire le orme del padre calzolaio, emigrò a Milano a 28 anni, impiegandosi come spedizioniere. Il richiamo della Sardegna fu così forte che, non appena si manifestò la prospettiva di essere assunto nel suo paese di origine (Lula), ormai sposato e con una figlia tornò nella sua terra di origine, impiegandosi presso la miniera di Montevecchio.
L’orgoglio identitario e la cultura del lavoro minerario emergono a vari livelli nelle testimonianze, in stretta connessione ai percorsi professionali degli intervistati.
Se il prestigio sociale dell’ingegnere minerario come il “principe della città”, al vertice della gerarchia sociale nella comunità mineraria, spinse Antonio ad abbracciare tale professione, il suo percorso testimonia una carriera precoce e longeva. Da tecnico nella direzione dei cantieri nel 1961, impiegato di seconda categoria, dopo cinque anni divenne funzionario di prima categoria. Allontanatosi dalla Sardegna, vi tornò nel 1967: a soli 33 anni Antonio si vide triplicare lo stipendio e sperimentò un cambio radicale di lavoro, a partire dal rapporto con le maestranze: non più “minatori” ma “cavatori” che lavoravano a cielo aperto. La sua quarantennale carriera, conclusa negli anni Novanta come amministratore delegato e direttore generale della Carbosulcis, lo vide muoversi tra differenti incarichi e tipologie di produzione, privilegiando sempre, nonostante le esperienze varie maturate sulla penisola, il contesto minerario sardo.
Completamente diverso appare il percorso professionale di Piero, il quale negli oltre due decenni che fu impiegato nello stesso sito minerario, la miniera di Piccalinna, svolse varie mansioni senza alcuna una progressione verticale. Dapprima impiegato come muratore, si occupò della costruzione di strutture di consolidamento del fornello nel sottosuolo, lavorando anche all’esterno per la manutenzione dei siti- Nell’ultima fase del suo percorso professionale, con l’esaurirsi dell’attività estrattiva, lavorò come autista, nello smaltimento dei rifiuti, nonché dell’abbattimento strutture pericolanti moltiplicatesi nel processo di dismissione delle miniere.
I minatori Antero, Antonio, Gavino presentano esperienze differenti. Antonio, dopo aver cercato lavoro in diverse miniere della Società Pertusola, fu assunto come aiutante perforatore nella miniera di Masua, dove restò fino al 1955, anno in cui lasciò il lavoro per via del suo atteggiamento oppositivo alla abitudine consolidata presso la Società di cronometrare i perforatori, il cui lavoro era spesso soggetto al cottimo. Quando trovò nuovamente lavoro presso la miniera di San Giovanni per il suo carattere intemperante continuerà a svolgere lavori non qualificati, impiegandosi come arganista, armatore, pompista e ruspista.
Antero per lunghi anni si occupò della manutenzione delle strade del sito minerario, talvolta lavorando al palanco, talaltra in galleria; a seguito dell’introduzione delle nuove tecnologie fu addetto alle pale meccaniche. Appare come un operaio particolarmente volenteroso, che non si lamenta mai per il sovraccarico di lavoro ed è disponibile a ruotare sulla base delle esigenze produttive, senza discutere e mostrando sempre un atteggiamento di grande deferenza nei confronti della direzione. Nel 1979, la proposta di lavorare nel sottosuolo venne vissuta come un grande riconoscimento, perché si trattava di un lavoro qualificato e di squadra. Fu addetto prima alla frantumazione, poi ad una fase del processo considerata più selettiva, la separazione tra piombo, zinco e materiale sterile. L’applicazione del cottimo, nelle attività di sgombero e vorata, fu percepita positivamente a differenza di Antonio.
Gavino, a differenza di altri, ebbe la possibilità, rientrato da Milano in Sardegna, di frequentare un corso di formazione pagato della durata di 6 mesi, a seguito del quale gli venne affidato il compito di allestire il nuovo impianto di flottazione nella miniera di Lula. Il suo ruolo di minatore addetto alla flottazione connotò la sua intera esperienza lavorativa, dal 1963 (anno dell’assunzione) al 1989 (anno del pensionamento). Un arco temporale lungo, durato oltre un ventennio, in cui nulla era cambiato nell’uso degli acidi e nelle procedure. Il lavoro di Gavino si svolgeva nel soprasuolo, la flottazione (o smistamento) che seguiva la frantumazione e il mulino, consisteva nel lavaggio della blenda e del piombo con acidi pericolosi e la loro classificazione in apposite celle. Nonostante il grado di pericolosità dei prodotti utilizzati nel lavaggio dei minerali, la Società non prevedeva particolari misure di prevenzione dai danni: Con orgoglio Gavino descriveva la sua vita in miniera come minatore qualificato, un lavoro ben retribuito che consentì, grazie anche alla gestione parsimoniosa della moglie, di garantire un’istruzione ai figli e di viaggiare.
Ferdinando, impiegato presso la Monteponi per 40 anni consecutivi, iniziò a lavorare concluse le scuole elementari presso la cooperativa che gestiva i servizi alla miniera, tra i quali lo spaccio alimentare. A 13 anni aveva un compito di grande responsabilità: contava i soldi degli incassi insieme con la cassiera e li portava in banca. Dopo aver frequentato un corso serale gestito dai funzionari e dagli ingegneri della stessa società, a 18 anni divenne così un meccanico qualificato. Per 19 anni, fu addetto alla manutenzione delle pompe del pozzo di Monteponi, l’impianto più sensibile e nevralgico dell’intera miniera: non era consentito assentarsi o scioperare ed era reperibile 365 giorni l’anno. Pur ricordando la fatica di un lavoro sulle pompe collocate a 100 metri di profondità, lunghe 3,5 metri e con motori che pesavano fino a 4 tonnellate, rivendicava orgogliosamente che, a differenza del padre, era divenuto operaio specializzato.
Più limitatamente, invece, emerge la militanza politico-sindacale, che spicca come tratto distintivo solo nella biografia del minatore Antonio, la cui identità politica oscilla tra i poli opposti nel dopoguerra, transitando più volte dal Pci alla Dc e viceversa. Negli anni caldi che segnarono il passaggio societario, forse più doloroso, da Pertusola a Piombozincifera (1969) la sua anima comunista prevalse ed fu tra coloro che occuparono la miniera di San Giovanni. Terminò il suo percorso lavorativo nella miniera di Is Arenas, considerata allora una sorta di destinazione punitiva in cui relegare comunisti, operai politicizzati e sindacalizzati che animavano gli scioperi e, fatto ancora più grave nelle menti dei dirigenti, che denunciavano abusi e inefficienze in miniera, soprattutto dettate dalla mancata osservanza delle ineludibili norme sulla sicurezza.
Soggettività femminili nelle comunità minerarie sarde: le cernitrici tra lavoro e famiglia
Le donne intervistate tra il 2010 e il 2012 provenivano tutte dai paesi limitrofi alle ex aree minerarie ed erano nate tra la metà degli anni Venti e i primi anni Trenta, da famiglie che vantavano precedenti esperienze lavorative in miniera. Scarsamente alfabetizzate, come si evince dalle interviste rilasciate in larga parte in sardo, iniziarono tutte a lavorare molto giovani come cernitrici. La professionalità delle intervistate è quindi la medesima, a differenza degli intervistati di sesso maschile. Di diversa lunghezza i periodi lavorativi che variavano da una settimana a 7 anni. La mansione principale era la separazione della calamina dal minerale t
dalla blenda dal materiale sterile destinato alla discarica, ma vi erano anche donne addette all’alimentazione del nastro trasportatore e alla spalatura del materiale. Gli ambienti in cui le cernitrici lavoravano erano il piazzale antistante alla miniera dove arrivava il materiale con i vagoni, il tavolo della laveria, talvolta in latta talaltra in cemento.
Il lavoro della cernitrice si trasmetteva frequentemente per via familiare, spesso di madre in figlia, ma venne consapevolmente ricercato dalle donne intervistate. Giovanna Saba (1924), entrata in miniera nel 1946 fu protagonista di una scelta consapevole, iniziando a lavorare in miniera da nubile. Lì conobbe il marito, proprio grazie al suo salario riuscì a dare un contributo sostanziale al bilancio familiare. I suoi risparmi, nascosti dietro un quadro con l’immagine di Gesù nella sua camera da letto matrimoniale, consentirono di comprare il terreno con cui lei e il marito costruirono la casa familiare. Doloretta Ledda (1925), figlia di un minatore e di una cernitrice, iniziò a lavorare in miniera a 18 anni, sostituendo la madre. Fino ad allora vissuta in campagna, occupandosi di coltivare, di seminare, di vendere la legna, percepì il lavoro in miniera come un’opportunità di affrancarsi dalla vita contadina che, a tratti, dipinge come una vita più faticosa del lavoro in miniera. Natalina Cau (1926) e Amelia Cara (1931), invece, dopo aver iniziato il lavoro in miniera rispettivamente a 18 e 17 anni, lo svolsero per periodi più periodi, considerandolo più un fardello che un’opportunità per le dure condizioni di lavoro.
Il lavoro della cernitrice era dominato dalla presenza costante di grandi quantità di acqua che inondavano i tavoli da tavolo, attorno ai quali ruotavano ragazze e donne adulte impegnate nella cernita dei materiali. Il pranzo portato da casa di norma si consumava all’esterno, nel piazzale antistante la miniera, per evitare, secondo le intervistate, un’esposizione allo sguardo maschile e adulto e l’insorgere di possibili pettegolezzi, sia per risparmiare tempo. Sia pure mantenendo i contorni di un lavoro non qualificato, e mal retribuito, la cernitrice della seconda metà degli Quaranta godeva di una condizione lavorativa migliore a quella della generazione precedente: lavorava all’interno di un ambiente chiuso e protetto, la laveria, e non in ginocchio nel piazzale antistante la miniera.
Le condizioni di lavoro degli anni Quaranta emergono nella loro cruda materialità nelle memorie delle interviste, Saba ricorda i ritmi serrati e le condizioni di lavoro usuranti: otto ore di lavoro consecutive con solo mezz’ora di pausa pranzo. Natalina descrive il freddo, il lavoro svolto a mani nude e sedute per terra, la grande umidità prodotta dall’acqua, gli infortuni legati all’inesperienza e mancanza di formazione, come lo schiacciamento delle dita. Amelia evidenzia le lunghe ore di lavoro, il peso della cernita, il cibo scarso e la difficoltà di apprendere, che la spinse ad abbandonare il lavoro dopo solo una settimana. Doloretta restituisce un’idea dello sforzo fisico e dei ritmi di lavoro: due donne dovevano cernire dodici vagoni al giorno, caricando i grandi secchi con due manici sulle spalle dei ragazzi che li trasportavano. Erano ancora le donne a svolgere lo straordinario domenicale nelle discariche, dalle 7 alle 2 del pomeriggio, pagate come nei giorni feriali. Le condizioni igieniche emergono vividamente dalla testimonianza congiunta di Natalina e Amelia, che ricordano la completa assenza dei servizi igienici e la necessità di raggiungere il bosco, previo permesso della sorvegliante, per assolvere alle funzioni fisiologiche. Le scarpe mancavano, unica calzatura per raggiungere a piedi la miniera erano gli zoccoli di legno. Per combattere il freddo venivano scaldate pietre di barite che, una volta incandescenti, provocavano tuttavia bruciature, delle quale le donne portavano ancora i segni.
La condizione familiare, il matrimonio e le gravidanze, ebbero un impatto tutt’altro che trascurabile nelle vite delle donne intervistate, come emerge a chiare lettere dalle loro storie di vita. Doloretta, nonostante amasse la miniera e i vantaggi di un pur duro lavoro salariato, dopo 7 anni fu costretta a cessare il lavoro di cernitrice con la fine della sua vita da nubile. Il marito le impedì di lavorare e già al momento del fidanzamento le pose come condizione: “Niente miniera”. Il matrimonio segnò per Doloretta l’interruzione di ogni rapporto di lavoro. Nel caso di Natalina, al rientro dal fronte il fidanzato le impedì di continuare a lavorare e lei cedette il posto a suo fratello. Nel caso di Giovanna, le gravidanze e non il marito la spinsero ad abbandonare il lavoro. Dopo aver perso due gemelli, nati prematuri, lasciò il lavoro, perdendo la casa e il diritto alla pensione, non avendo ancora maturato i 15 anni di contributi necessari.
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- Carboni P. (regia di) 2010, Cattedrali di sabbia, Italia.
- Medas G.L. (regia di) 2012, Contos, Rassegna famiglie d’arte, Cagliari.
- Turillazzi D. (regia di) 2000, Appunti di viaggio, Cagliari.
Note
1. Sui complessi passaggi societari conosciuti dai siti minerari sardi si veda: Associazione Minatori Memorie 2007; Sanna 2014.
2. Il Parco copre un’area molto estesa, 3.800 kmq, suddivisa in 8 core areas, aree storiche minerarie, ciascuna con le proprie prerogative geografiche e produttive, le proprie testimonianze dell’attività mineraria, le proprie emergenze archeologiche, dal nord al sud della Sardegna (dalla Gallura al Sulcis, passando per l’Argentiera, il Guspinese e l’Iglesiente); 81 comuni su 377 della Sardegna sono ricompresi nel Parco.
3. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito del Parco (http://www.parcogeominerario.eu) e Todde 2018b.
4. Sulla costituzione degli archivi delle società minerarie si rimanda a Concas, Ortu 2010; Todde 2018a; Azara, Betti 2017.
5. Le interviste di cui si da conto nell’articolo sono state realizzate in momenti e luoghi diversi, nello specifico: Giovanna Saba (Gonnesa, 22 dicembre 2012); Doloretta Ledda (Iglesias, 7 marzo 2012); Natalina Cau e Amelia Cara (Narcao, 21 settembre 2011); (Antonio Ghigino (Calasetta, 28 settembre 2011); Antonio Guaita (ASM, 20 ottobre 2011); Piero Loi (Guspini, 24 maggio 2011); Gavino Spanu (Lula, 11 aprile 2012); Antonio Fallo (ASM, 27 luglio 2011); Antero Fanunza (Rosas, 5 settembre 2012); Ferdinando Macciò (Iglesias, 22 ottobre 2015). Le prime undici interviste sono state realizzate da Agostina Bua. Ferdinando Macciò è stato, invece, intervistato in un momento successivo, in ordine temporale, da Carmen Francesca Allenza. Le interviste sono parte del progetto “Il Lavoro e la memoria. Interviste a minatori, tecnici, sindacalisti e protagonisti della storia mineraria della Sardegna” e sono oggi conservate presso l’Archivio storico minerario Igea s.p.a. di Monteponi (Iglesias).