Marzio Barbagli, “Storia di Caterina che per ott’anni vestì abiti da uomo”, Bologna, il Mulino, 2014, 243 pp.
Come si sarebbe definita Caterina Vizzani se avesse avuto a disposizione le nostre categorie identitarie, qualora avesse avvertito la necessità di farlo: lesbica? transgender? Marzio Barbagli, sociologo attento alla dimensione storica delle relazioni famigliari e di genere, sostiene la prima ipotesi scrivendo una delle poche storie sull’omosessualità femminile del periodo moderno finora proposte dalla storiografia italiana.
La vicenda, già in parte nota agli studiosi soprattutto d’area anglo-americana, si svolge attorno alla morte di un giovane venticinquenne romano, Giovanni Bordoni, avvenuta nel 1743 presso l’ospedale di Siena dov’egli si trovava ricoverato a causa di una ferita d’archibugio, conseguenza di una fuga d’amore. Con grande scalpore, quel corpo esanime che per ott’anni aveva vestito i panni di un servitore «donnajuolo», senza che mai nessuno dubitasse della virilità tanto ostentata, nascondeva nell’intimità un’identità biologia femminile: quella di Caterina Vizzani. Tuttavia, secondo l’interpretazione data (giacché non abbiamo alcuna testimonianza autobiografica), il travestimento che Caterina-Giovanni inscenava nella quotidianità settecentesca non esprimeva tanto la volontà di un cambio di genere, ma era piuttosto un utile espediente per ricondurre l’attrazione omosessuale all’interno di uno schema di tipo eteronormativo.
Come afferma Barbagli, se in questo caso l’omosessualità femminile è potuta sfuggire all’usuale silenzio delle fonti, lo dobbiamo all’opera dell’anatomista senese Giovanni Bianchi (Jano Planco) che per primo si occupò di ricostruire la storia della giovane «che s’infingeva uomo» deceduta nell’ospedale dov’egli operava. Mosso da interesse scientifico, il professor Bianchi non si arrese alle tradizionali risposte che giungevano dalla medicina, dal diritto e dalla morale del tempo in merito alle ragioni per le quali alcune donne si dimostravano attratte da altre donne. Egli raccolse notizie e dissezionò il cadavere alla ricerca di una possibile causa anatomica che determinasse tale «diversità». Ma non vi trovò alcun «errore della natura» né tantomeno l’esame della giovane vita rivelò alcun «disordine dell’immaginazione», negando così due dei principali argomenti tradizionalmente avanzati a spiegazione di quei comportamenti. «Non avea questa Giovane – annotò il professore nel breve trattato edito senza nome e alla macchia nel 1744 (capitolo VIII), ora ripubblicato in appendice al libro – una maggior Clitoride dell’altre, […] come dicono che l’hanno tutte quelle che i Greci chiamarono Tribadi, o che di Saffo seguono il costume; ma in Lei era molto ordinaria». Eliminata l’incognita della malformazione genitale, che la cultura cinquecentesca dei mostri e una concezione fallocratica della sessualità indicavano come causa dei rapporti omosessuali – il «terzo sesso», l’ermafroditismo (capitolo VI) –, Giovanni Bianchi si spinse a ipotizzare un’inedita e proto-illuminista interpretazione dei fatti. Quasi fosse un antropologo ante litteram, contro il sapere della sua stessa epoca, il professore collocò Caterina nel gruppo sociale di coloro che «seguono il costume» di Saffo, facendo di quella giovane persona – per dirla con Michel Foucault – l’antesignana di una «specie».
Alla ricerca del «nome della specie» è dedicato il capitolo IX, dove il punto d’osservazione è allargato alle fonti della tradizione letteraria sull’omosessualità femminile. In un percorso all’indietro che ricalca idealmente quello compiuto da Bianchi, spaziando tra storia e diritto (si veda l’agile sintesi storiografica sulla sodomia, delitto di «misto foro», al capitolo VII), letteratura e arte (l’apparato iconografico fornisce ottimi spunti dal Medioevo al Novecento), la vicenda senese è anche occasione per Barbagli di riflettere sui cambiamenti intervenuti nella società contemporanea, dando seguito alla precedente ricerca sociologica sul tema scritta a quattro mani con Asher Colombo (Omosessuali moderni, 2001).
L’epilogo, infine, riassume i principali punti di svolta e le questioni ancora aperte del campo di ricerca nel quale il libro si colloca: dalla difficoltà di pensare storicamente il nesso tra omosessualità e identità (le donne e gli uomini che abitavano le terre toscane nel Settecento davano un nome, e quale, all’attrazione omosessuale?), alla cesura paradigmatica tra sodomia e omosessualità individuata da Foucault nella medicalizzazione dell’«inversione sessuale» di fine Ottocento; dal conseguente dibattito tra costruttivisti ed essenzialisti sviluppato all’interno delle scienze umane, all’affermazione ultima degli studi di genere.
Ma che cosa pensava Caterina-Giovanni di sé? Quale nome e genere grammaticale avrebbe voluto utilizzassimo? Sono domande condannate all’astrattezza, perché il tempo ha confuso e cancellato molte tracce di quel giovane individuo. Eppure, una riflessione altra rispetto alla tesi dell’anatomista Bianchi, che si occupi di problematizzare e storicizzare, ad esempio con gli strumenti del queer, la rigida contrapposizione binaria dei sessi, e insieme l’eteronormatività, potrebbe probabilmente aggiungere nuove prospettive interpretative alla vicenda, restituendo a essa quella complessità culturale che è propria dei sentimenti più intimi e, in fondo, della vita stessa. È indubbio che attorno alla sessualità, ieri come oggi, gli uomini e le donne abbiano costruito codici morali, norme comportamentali, credenze, ansie, tabù, che sono mutevoli e che dipendono dal contesto culturale cui appartengono. Nonostante i secoli e le persone, però, ciò che si modifica non pare essere la sostanza dei sentimenti, ma la qualità delle idee che definiscono i ruoli di genere e la percezione che abbiamo di essi. I sentimenti, invece, sembrano senza tempo e talvolta non aspettano altro che gli storici tolgano loro la polvere di dosso.