Con questo numero monografico dedicato all’importanza della Politeia biblica nel pensiero politico dell’età moderna si apre finalmente la strada che porta a introdurre stabilmente il
modello dell’antico Stato degli Ebrei nella riflessione sullo Stato compresa tra i secoli XV e XVIII.
L’aspetto maggiormente rilevante di questa iniziativa è il tentativo di stabilire alcuni parametri attraverso i quali comprendere meglio il fenomeno presentato. I curatori, nell’Introduzione
tracciano due linee guida. La prima, diacronica, vuole mostrare «la permanenza della politeia biblica come riferimento cruciale nel pensiero politico», la seconda invece sottolinea come lo
studio di questo modello ci porti alla «ricostruzione del rapporto strettissimo fra politica e teologia».
L’analisi si apre con il saggio di Falchi Pellegrini sulla Respublica Israelis del Martin Bucer nel quale l’autrice analizza il pensiero politico del riformatore attraverso la sua lettura
di alcuni passi biblici. In ordine di tempo segue il lavoro sulla Respublica Hebraeorum fatto da Bodin all’interno della Methodus e ben presentata da Lazzarino del Grosso. La
terza analisi è dedicata invece al De Repubblica Hebraeorum di Carlo Sigonio, nel quale Vittorio Conti sottolinea non solo le novità storico-politiche portate dallo storico modenese, ma
presenta brevemente anche l’influenza che la sua opera ha esercitato nei pensatori successivi. L’articolo seguente, presentato da Bianchin, concentra la sua attenzione su un altro autore decisivo
per la storia di questo modello, Joannes Althusius. L’analisi però si concentra non tanto sulla presentazione che il sindaco di Emdem fece nella sua Politica, quanto sul concetto di
regalità che l’autore elaborò partendo dal commento a due specifici passi biblici.
Campos Boralevi propone la storia della fortuna della Respublica Hebraeorum nella tradizione olandese, partendo dal lavoro di Montano per arrivare a Spinoza, cercando anche di fornire
un’ipotesi per capire le cause di questo interesse. Diverso è l’approccio di Suppa, il quale presenta la visione che l’Encyclopédie ebbe dell’ebraismo e il suo tentativo di attenuare la
sacralità delle sue scritture. Con Picchetto invece ritorniamo a occuparci della tradizione dell’antico Stato degli Ebrei nelle colonie americane nel XVII e XVIII secolo e in che modo la
Respublica Hebraeorum influenzò il pensiero politico d’oltreoceano. Il volume si chiude con l’analisi dell’opera di Buber, La regalità di Dio, con la quale Quaglioni cerca di
mostrare l’attualità del modello della Politeia Biblica anche per la riflessione politica del XX secolo.
Come si può vedere da questa breve descrizione del volume il contributo al tema è ricco e cerca di coprire lo spazio di tempo più ampio possibile. Tale operazione però rischia di far perdere il
significato e il reale apporto che l’analisi dell’antico Stato degli Ebrei ha dato alla riflessione politica occidentale. Un altro difetto è riscontrabile nella mancanza di dialogo tra i saggi
presentati, problematica se si tiene conto che sono il frutto di un seminario che avrebbe dovuto dare spazio a un dibattito e a un confronto fra i vari relatori.
Rimane così irrisolta la questione più importante che questo argomento pone, vale a dire se è rintracciabile un filo che attraversa gli autori e i paesi investiti da questo interesse, se ci sia
stato uno scambio, se ci sia stata una relazione e un influenza reciproca tra le singole opere. All’interno dei singoli saggi si cerca di costruire tradizioni che però rimangono sempre parziali,
dal momento che mancano di una visione unitaria.
Forse l’unico tentativo di costruire un movimento genealogico e di problematizzare la questione è il lavoro dedicato a Bodin. Nella sua analisi l’autrice riconosce giustamente a Bodin il primato in
questo campo, sottolineando l’importanza della Respublica Hebraeorum nella riflessione del giurista francese. Mi sembra che abbia ragione Lazzarino del Grosso quando si chiede quale
portata abbia avuto quest’opera sugli autori successivi, il teologo ginevrino Bertram e Sigonio. Se si possa dunque ipotizzare uno svolgimento dell’interesse per lo Stato degli Ebrei nel quale
Bodin sia il motore che scatena una reazione in altri autori, i quali, a loro volta, influenzarono gli scrittori olandesi, inglesi e infine americani. È in quest’ottica più compatta, che individua
una strada unica per lo sviluppo di questo pensiero, che forse sarebbe possibile ritrovare elementi utili per capire se ci sia stato un generale e indistinto movimento d’interesse per questa
tematica, che in ogni paese ha avuto una sua origine e un suo sviluppo, o se invece sia possibile identificarne con certezza le tappe e gli autori.
Aspettiamo ora i contributi che verranno per verificare quale delle due ipotesi sia più pertinente continuando però un colloquio che ha già posto le sue basi.
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