Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

La storia dell'Albania dal 1997 e l’identità albanese del post-comunismo

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Abstract
L’articolo analizza alcuni aspetti del dibattito pubblico albanese circa l’identità nazionale e di come tale dibattito abbia preso nuovo slancio negli ultimi anni. Sviluppi recenti che hanno caratterizzato la storia dell’Albania come la fine del comunismo, la rivolta in Albania del 1997 e la dissoluzione della Jugoslavia hanno determinato da un lato l’emersione di uno spazio albanofono d’interazione sociale che travalica i confini dello Stato, dall’altra sembrano anche avere stimolato la differenziazione tra gli albanesi del nord gegë e quelli del sud toskë.

This article engages in analyzing some aspects of the Albanian public debate on national identity which has lately assumed new vitality. Recent Albanian history has been characterized by crucial events such as the end of communism, the Albanian revolt of 1997 and the dissolution of Yugoslavia. The overall outcome of these events is twofold. The new political situation of the western Balkans has permitted the creation of an Albanian speaking community that prevaricates the Albanian state borders. However this new circumstance has enhanced the differentiation discourses between northern gegë and southern toskë Albanians.

Il tema dell’identità nazionale e tutto ciò che implica è un argomento centrale nel dibattito pubblico albanese. Il regime comunista di Enver Hoxha e l’ordine internazionale in cui era inserito sembravano aver delineato i confini politici nonché la morfologia sociale e culturale dell’Albania. Tuttavia gli anni Novanta hanno velocemente destituito l’equilibrio politico e psicologico di quel mondo del quale ora restano solo spettri e ombre. Il periodo di transizione che seguì al crollo del regime fu non meno traumatico dei precedenti anni di dittatura. Gli anni Novanta furono per gli albanesi, così come per altri popoli balcanici, anni drammatici e violenti che hanno aperto la possibilità a nuove configurazioni politiche degli stati forzando dunque gli attori a modificare la propria concezione dell’identità nazionale. Il dramma della transizione albanese giunse all’apice nel 1997, soprattutto nei mesi primaverili di quell’anno, quando lo stato crollò sotto il peso di una crisi politica di violentissime proporzioni. Congiuntamente, la dissoluzione della Jugoslavia e l’emersione di un corollario di Stati confinanti all’Albania in cui vivono numerosi albanofoni ha riaperto ciò che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo era nota come la “questione albanese”. Questo articolo cerca di analizzare in quale modo il periodo di transizione e la nuova situazione politica nei Balcani occidentali sta condizionando la ricerca di una nuova forma di identità collettiva in Albania. La mia riflessione parte dall’analisi di un libro pubblicato recentemente.

A ottobre del 2013 è uscito un libro che tratta il tema dell’identità nazionale albanese in cui l’autore, Mustafa Nano, sostiene la tesi che esistono due dimensioni culturali e linguistiche parallele, quella dei gegë nel nord del Paese e quella dei toskë nel sud. Il fiume Shkumbin è il confine naturale che tiene separate le due realtà. L’autore afferma che gli intellettuali albanesi e i regimi che si sono alternati nell’arco di un secolo d’indipendenza hanno tentato di oscurare l’esistenza di queste due parti temendone effetti scismatici che avrebbero leso al consolidamento dello Stato. Secondo l’autore questa politica avrebbe però richiesto molti sacrifici. Negando che la propria coscienza nazionale sia per natura composta da due emisferi [Shllaku 2013, 4], gli albanesi hanno ridotto le loro facoltà cognitive e hanno perso dunque la possibilità di valorizzare il bagaglio culturale e linguistico che giace in fondo alle tradizioni delle due aree.

L’idea che l’identità albanese sia costituita dall’elemento gegë e da quello toskë risale ai primi studi albanologici [Von Hahn 2010, 27]. Tuttavia gli studiosi albanesi non hanno mai considerato le differenze regionali in senso marcatamente dualistico come invece fa Nano. Prima di cercare di analizzare più a fondo le ragioni che possono avere spinto l’autore a scrivere su questo tema, credo che sia necessario eseguire un analisi tecnica del libro, ovvero esaminare la qualità dei suoi contenuti. Riguardo a questo aspetto, già dalle prime righe si evidenziano parecchi limiti. Nell’introduzione l’autore ci fa sapere di averlo inviato in stampa dopo soli quarantacinque giorni, un tempo molto breve che non poteva bastare per passare in rassegna una bibliografia sufficientemente studiata per un tema complesso come questo. Inoltre, non è chiaro se Mustafa Nano considera i gegë e i toskë due popoli distinti o due «varianti» dello stesso. Il termine «etnia/etnico» è utilizzato per definire i due gruppi, ma anche per designare realtà sociali molto più piccole come ad esempio la popolazione della sua regione natia Skrapar. Quando l’autore cerca di dare conto delle presunte differenze culturali e attitudinali tra i gegë e i toskë, lo fa citando un suo articolo del 2009 in cui riporta un elenco di antichi stereotipi. Egli fissa le differenze tra i due gruppi in una serie di antinomie speculari e complementari come segue:

Ai gegë piacciono le armi ai toskë il denaro; i gegë sanno fare la guerra, i toskë sanno fare propaganda; i gegë sono orgogliosi/coraggiosi [trima], i toskë sono aperti di mente; […] i gegë sono astuti, furbi e fermi, i toskë intelligenti, cioè pragmatici e corruttibili; i gegë amano la vita rapsodica all’interno della famiglia, i toskë preferiscono la vita sociale fuori casa; […] i gegë vivono per l’onore, i toskë per un po’ di divertimento; i gegë sono fanatici, i toskë sono dissoluti; […] i gegë incarnano le virtù nazionali, i toskë le virtù civili; […] i gegë sono votati all’auto-giudizio sorretto da codici morali, i toskë preferiscono sottoporsi all’autorità di un organo amorale come lo Stato; i gegë vedono con sospetto la modernità, i toskë vedono con sospetto la tradizione; i gegë sono tradizionalisti, conservatori a perfino reazionari, i toskë sono progressisti, liberali e rivoluzionari; i gegë sono zogollianё i toskë fanolianё; con i gegë ci puoi costruire una nazione, con i toskë la democrazia di uno Stato di diritto; i gegë sono di destra e i toskë di sinistra. [Nano 2013, 55-56]

Questo brano rivela il tentativo da parte di Mustafa Nano di dipingere un quadro bilanciato di chiaro-scuri al fine di rendere l’immagine di un unico organismo composto da due parti integranti. Tuttavia, come ho già detto, la serie di caratteristiche che egli elenca rappresenta una visione stereotipata dei due gruppi e ogni tentativo di risalire a questi attributi attraverso uno studio empirico darebbe scarsi risultati, almeno ché, tale ricerca non fosse disposta a fare abbondanti forzature.

Il libro diventa a mio avviso più interessante nel capitolo conclusivo quando si sofferma sulla questione linguistica. Si tratta dell’unico argomento su cui è possibile condurre un’analisi delle differenze regionali su dati oggettivi. Il bisogno di affrontare quest’argomento si deve inoltre a necessità pratiche che sono legate agli sviluppi politici recenti nella regione. Per favorire la creazione di uno spazio culturale albanese e facilitare le comunicazioni tra gli albanofoni che vivono dentro e fuori i confini dello Stato albanese può essere utile ricalibrare la lingua standard. L’autore però sostiene una risoluzione a dir poco dispendiosa, quella cioè di creare un altro standard gegë da utilizzare, se si preferisce, in alternativa all’attuale standard toskë [Nano 2013, 186-189].

Mustafa Nano era consapevole che il libro non sarebbe stato molto gradito al pubblico poiché invita a riflettere sull’integrità socio-culturale degli albanesi. Per questa ragione egli ci tiene ad assicurare che il suo lavoro è dettato da un impulso patriottico ed è disposto a rinunciare simbolicamente al suo retaggio toskё per abbracciare l’identità gegë. Un jam gegë (Io sono gegë) si legge sulla copertina, ma all’interno del libro l’autore sottolinea diverse volte ciò che tutti gli albanesi sanno ovvero che è originario di Skrapar, dunque un toskё. Le buone intenzioni non gli hanno evitato l’impatto con numerose critiche negative per aver toccato un argomento molto difficile, e che, come giustamente egli afferma, è stato evitato dalla storiografia ufficiale.

I gegё e i toskё secondo l’opinione di alcuni commenti fatti a proposito del libro di Mustafa Nano

Dal momento che il libro ha suscitato diverse reazioni da parte del pubblico, credo sia interessante osservare alcune opinioni fatte da lettori di alcuni quotidiani albanesi online quando questi hanno anticipato alcuni contenuti. Si può in tal modo cogliere un’idea, seppur limitata, circa la predisposizione di alcuni albanesi rispetto al tema e al modo in cui l’autore la concepisce. Ciò che mi interessa maggiormente è capire se coloro che hanno lasciato dei commenti percepiscono o no l’esistenza di due identità parallele gegё e toskё. Ho potuto raccogliere commenti da gazetatema.net, panorama.al e gazetadita.al poiché il libro è stato pubblicato all’inizio di ottobre 2013 e molti giornali hanno cancellato le discussioni oppure non hanno avuto interesse a pubblicare una recensione. I dati possono tuttavia costituire delle fonti attendibili perché si tratta di alcuni tra i quotidiani più letti in Albania, formalmente non associati ai partiti e che non utilizzano moderatori per filtrare i giudizi che gli utenti esprimono. Questi quotidiani hanno riportato per intero o in parte il brano del libro che ho citato.

La maggior parte dei commenti sembra condividere l’idea che una pubblicazione simile era da evitare per la paura di scatenare discussioni tanto inutili quanto pericolose. Poche righe [soprattutto l’assioma «con i gegë ci fai la nazione con il toskë lo Stato»] sono bastate per far pensare a molti che si trattasse di un’opera amatoriale che affronta una questione seria, ma in modo superficiale poiché elaborata su dei pregiudizi assolutamente infondati. Arberesh su panorama.net scredita l’autore a priori senza prestar molta attenzione a quanto egli ha da dire: «chi sei tu Mustafa per giungere a tali conclusioni. Non sei né un antropologo né un genetista che ha fatto un esame del DNA a tutti i gegë e a tutti i toskë per dire chi tra loro è più albanese!». Euro Maloku (euro montanaro) su gazetadita.al afferma che non comprerà il libro in base allo stesso principio per cui «per sapere come è il vino nella botte basta berne un solo bicchiere». Altre voci riconoscono che una differenza tra i due gruppi c’è e che questo si riflette sul sistema politico. Durres su panorama.net scrive che «sfortunatamente, per quarantacinque anni l’Albania è stata invasa dai toskë con a capo Enver Hoxha». Alpini su gazetatema.net sembra stare in assetto da genocidio e offende i toskë definendoli «pidocchi» e servi del regime comunista.

Lo spettro del passato è evocato da Shkëlzeni (un nome tipico del nord che scrive sul quotidiano Panorama online) il quale approva il lavoro di Mustafa Nano ed esorta i suoi compatrioti, soprattutto quelli del sud, ad avere il coraggio di apprendere la «verità che è stata nascosta da quasi cinquant’anni di terrore esercitato dalla banda slava-ottomana uscita dalle caverne del sud e del nord». Per quanto assurda sia un’affermazione simile è interessante notare che appena qualcuno sfiora l’argomento delle relazioni tra politica interna albanese e i Paesi limitrofi molti gli fanno eco nell’articolare una visione cospirativa a danno della nazione che sarebbe stata messa in pratica da élite politiche servili e corrotte.

Su gazetadita.al Lleshi (altro nome del nord) invece, all’interno di una diatriba che si è aperta tra diversi utenti circa l’incidenza che ha avuto nelle sorti dell’Albania l’identità gegë o toskë dei leader politici ribatte affermando che «Sali [Berisha] non era un gegë, ma un venduto serbo. Fatos (Nano, ex leader del Partito Socilista, ex-Premier e nemesi di Berisha) non era un toskë, ma un venduto greco. Entrambi sono stati scelti da Ramiz [Alia, l’ultimo leader del regime comunista], bosniaco». Il quadro politico mostrato da Lleshi è certamente frutto di un’ideazione paranoica che trae spunto da alcune voci diffuse negli anni Novanta circa la politica estera di Sali Berisha [1] e Fatos Nano [2]. Ramiz Alia inoltre nella sua autobiografia afferma di essere nato a Scutari e così come i suoi familiari fino almeno al suo bisnonno [Alia 2010, 12]. L’opinione di Lleshi non è però isolata e riflette il pensiero di alcuni albanesi che giudicano negativamente i politici venuti dopo Enver Hoxha per non essere riusciti ad affermare con forza il ruolo dell’Albania nella regione, ma che al contrario sono stati permissivi e complici delle politiche anti-albanesi degli Stati vicini. Riflette inoltre un inveterato criticismo che ha sempre contraddistinto sia l’opinione comune sia quella intellettualmente più coltivata che giudicava e tuttora giudica come tradimento ogni politica estera distensiva verso i vicini da parte dei leader albanesi nel corso della storia. Tuttavia anche su questo quotidiano la maggior parte delle opinioni dimostrano fondarsi su una concezione realistica della società affermando che è impossibile trovare delle differenze nette tra i due gruppi, soprattutto se si cerca di attribuire rispettivi pregi e difetti. Antipod cita in modo scherzoso un caso empirico: «Fatos [Nano] è toskë, Sali [Berisha] è gegë; qual è il risultato delle loro azioni per il progresso dell’Albania? Il gabinetto». Psy appoggia questo punto di vista. Tirona (gergo per Tirana) marca il suo distacco da una diatriba che a suo avviso è da provinciali e neutralizza la discussione esortando a focalizzarsi su problemi attuali e concreti: «Finché c’era Enver [Hoxha] si vantavano quelli del sud, è arrivato Sali e si vantano quelli del nord. A tutti però piace vivere a Tirana. Non so quando ci metteremo in testa di costruire uno Stato forte che ci dissuada dall’emigrare».

Su gazetatema.net, tra le molte critiche negative, c’è anche qualcuno che come Marsida ritiene l’argomento interessante e si promette di comprare il libro. Su questa testata il dibattito è molto vivace. Si nota la tendenza di molti utenti a sdrammatizzare la questione per mezzo di un linguaggio aforistico. Gjergji si chiede: «un analista che fa questa distinzione [tra gegë e toskë]? Sconcertante». Miredrejtesia lo tranquillizza dicendogli che l’autore «sarà stato ubriaco». YYY appoggia la tesi dell’autore e afferma che «M. Nano ha detto la verità più grande della sua vita. Non si può negare nulla perché la verità va rispettata e non ignorata». Kunji per zittire i litigi fa notare la suscettibilità emotiva dei suoi compatrioti: «Lo scemo getta un sasso nel fiume e tutti gli altri scemi ci si buttano per trovarla… Povera Albania». Reformer critica l’aspetto ontologico del brano riportato dal quotidiano dicendo che «se dividi a metà una mela non ne ricavi mezza mela e mezza pera». Tafuti invece mette in guardia gli utenti da una truffa editoriale ironizzando su una famosa poesia di Naim Frashëri: «Oh pesci d’Albania, vi sta vendendo un libro asini che non siete altro. E ci sta riuscendo forse». Infine Ylli esprime un’opinione più bilanciata dicendo che: «Anch’io penso che tra gegë e toskë ci siano delle divergenze, ma il modo in cui è stato pensato da Muqi [sta per Mustafa] è inaccettabile. L’Albania non è l’India o la Cina e perciò ci sono più cose che ci uniscono di quelle che ci dividono. Non dimentichiamo che tra Suhareka e Prizren [città del Kosovo che si trovano all’interno del distretto di Prizren] ci sono delle differenze pure se solo venti chilometri le separano».

Dai commenti che ho letto, emerge che solo una minoranza condivide la tesi dell’autore circa l’esistenza di gegё e toskё. Dai soprannomi con i quali gli utenti si firmano si può supporre che tale minoranza sia in prevalenza di origine settentrionale. I risultati di questa indagine rivelano anche altro. Si comprende che l’opinione degli utenti, aldilà se favorevole o contraria al libro di Mustafa Nano, è frutto di una particolare visione della storia dell'Albania che è in parte gegё-centrica o toskё-centrica oppure non lo è affatto, ma che spesso è molto alterata rispetto a quella ufficiale che è stata forgiata nel corso del regime di Hoxha. Questo dato presenta i suoi lati positivi giacché dimostra l’esistenza di un dibattito diffuso tra la popolazione in cui si mettono in discussione il passato nazionale e i diversi miti che il processo di formazione dello Stato ha dovuto plasmare nel periodo tra le due guerre e durante il regime di Hoxha. A livello pubblico questo dibattito non da semplicemente luogo a una revisione storica condotta in base ad una meno idealistica lettura degli eventi, ma sembra giungere a una vera e propria riformulazione dei miti che avvolgono il carattere nazionale come ad esempio il presunto coraggio che contraddistingue gli albanesi e la loro devozione all’unità nazionale e di patria. Credo che il riconoscimento dei propri limiti sia un passo importante per ogni società che ambisce a migliorare la propria posizione sociale ed economica nel contesto in cui è inserita.

Allo stesso tempo però la libertà d’opinione e l’interesse pubblico per la storia hanno lasciato il campo aperto a diverse invasioni da parte di storici non professionisti. Dopo il regime comunista e la fine della censura ognuno può pubblicare un libro sul tema che desidera e non c’è nessuna autorità all’infuori delle case editrici private che stabilisce la validità scientifica di un’opera. Quest’assoluta libertà ha stimolato la formazione di alcune certezze collettive sulla storia di eventi recenti e non, che prendono spunto da opere pubblicistiche e da articoli giornalistici le cui fonti non possono essere controllate. Tali certezze collettive condizionano la mentalità e l’atteggiamento degli albanesi rispetto alla vita politica fino a mettere in totale discussione la lealtà a un progetto nazionale da parte dei diversi regimi che si sono succeduti sin dai tempi di Ismail Qemali. Dietro ad un profondo pessimismo si può insinuare il rischio di vedere tutta la storia dell'Albania e il progetto nazionale di cui la storia da conto come una mera opera fittizia e il progetto nazionale stesso come un disegno cospirativo.

Infine c’è un ultimo elemento che si può desumere sia dai commenti sia dal libro di Mustafa Nano e che induce ad allargare questa indagine verso un’altra direzione. Confrontando il libro con i commenti si nota un’analogia. Non fanno nessun riferimento esplicito a un periodo in cui le antinomie tra gegë e toskë possono essere ricercate all’interno di un conflitto politico che assunse i tratti di un conflitto civile. Mi riferisco alla crisi dello Stato albanese del 1997. Stupisce che Mustafa Nano non si sia soffermato, seppure brevemente, a considerare in che modo il possesso più o meno conscio di una particolare identità toskё si rifletteva nelle azioni di protesta, nelle forme di autogestione collettiva e nel rapporto con i gegё che allora divenne violento. Lui afferma che «i gegё e i toskё sono sempre stati parte dell’equazione che ha determinato la realpolitik nazionale» [Nano 2013, 16], ma del periodo in cui questo equilibrio sembrava sfaldarsi non ne fa parola. Il 1997 si presenta come un fenomeno particolarmente adatto al confronto con la sua tesi, ma l’autore evita l’argomento in modo palese. Diversi commenti invece, pur non menzionando direttamente il 1997, sembrano concepiti in conformità ad alcune certezze collettive che hanno origine nei fatti degli anni Novanta.

Del 1997 albanese fino ad oggi la storiografia, soprattutto straniera, se ne è potuta occupare molto limitatamente. Una delle ragioni scaturisce dal fatto che i documenti istituzionali non sono ancora consultabili. Si dispone però di alcuni libri con testimonianze di personaggi che hanno vissuto gli eventi in prima persona ai quali piace arricchire i resoconti con analisi fatte a posteriori. Ritengo interessante verificare in base alle fonti di cui dispongo se e in quale modo il conflitto di allora sfruttava l’immagine delle identità gegё-toskё proposta da Mustafa Nano. I testi sono stati scritti da politici e pubblicisti che sono stati protagonisti e testimoni oculari. Questi sono l’ex primo ministro Aleksander Meksi, l’allora sindaco di Valona Gёzim Zilja, lo scrittore e intellettuale Fatos Lubonja, i giornalisti Frrok Ҫupi e Mero Baze e l’antropologa statunitense Clarissa de Waal.

L’opposizione nord – sud e la questione identitaria nel dramma albanese del 1997

All’inizio del 1997 un’ingente speculazione finanziaria di struttura piramidale portò al crollo delle istituzioni statali comprese la polizia e l’esercito. Seguirono settimane di tetra anarchia che la stampa nazionale e soprattutto estera presentarono come un conflitto civile che opponeva il nord che era considerato sostenitore dell’allora presidente Sali Berisha e il sud che riteneva il presidente direttamente responsabile di quanto stesse accadendo [Pettifer and Vickers 2009, 16; Zilja 2001, 122-138]. Questa lettura degli eventi fu dovuta al fatto che nel sud le proteste furono sin dal mese di gennaio molto violente perché si pensa che maggiori siano stati i danni economici nelle città meridionali. Già alla fine di febbraio Tirana non esercitava nessuna sovranità su tutto il territorio albanese che si estendeva a meridione della città di Elbasan. Dei cosiddetti «comitati di salvezza pubblica» si formarono all’inizio di marzo a Valona, Tepelen, Berat, Saranda e in altri piccoli centri. Questi divennero portavoce di rivendicazioni secessioniste che miravano a costituire una o diverse entità territoriali autonome. Alcuni media greci, ingannati dagli eventi, salutarono una rivolta armata per la liberazione dell’Epiro del nord.

Quali termini utilizzavano gli schieramenti politici per definire se stessi e soprattutto i loro oppositori? In una raccolta di interviste e interventi parlamentari dell’allora primo ministro, l’archeologo Aleksander Meksi, si nota che all’inizio della crisi erano impiegati termini di paragone che richiamavano gli estremismi del Ventesimo secolo. Meksi affermava che la rivolta di Valona, città dove il comunismo aveva trovato sostegno in passato, fu organizzata secondo un manuale di rivoluzione marxista mirante a debilitare la capacità difensive dello Stato [Meksi 1997, 306]. Alla fine di gennaio il ministro degli esteri Tritan Shehu sosteneva che le violenze erano guidate dai terroristi rossi [Zilja 2001, 31]. Secondo la versione diffusa dal governo dell’epoca le violenze erano da ritenersi un colpo di coda reazionario messo in pratica per ragioni fondamentalmente tutt’altro che marxiste, da agenti del vecchio regime in combutta con le bande mafiose.

La pensava diversamente Fatos Lubonja – un noto intellettuale e scrittore – che in un’intervista rilasciata a febbraio del 1997 accusava il governo dicendo che «un regime fascista può anche esistere quando consegue successi in campo economico, ma noi qui ci troviamo di fronte ad un fallimento totale […]» [Lubonja 1999, 351]. Lubonja ha recentemente pubblicato le sue memorie del 1997 in cui racconta l’attività che svolse a capo del polo di opposizione Forumi pёr Demokraci (Il forum per la democrazia) cui diede vita alla fine di gennaio del 1997. Nel suo libro accusa il presidente Berisha di aver fatto leva su formazioni di tipo squadriste per compiere azioni intimidatorie e violente ai danni di chi si opponeva al suo regime che diveniva ogni giorno più autoritario e personale [Lubonja 2010, 62] [3]. Tra le diverse vittime dei pestaggi ci fu anche l’attuale primo ministro Edi Rama che fu colpito con spranghe e pugno di ferro. Fu aggredito di notte sotto la sua abitazione dove un gruppo di persone gli aveva teso un agguato.

Nel 1997, l’opposizione nord-sud iniziò a proiettarsi nel mese di febbraio quando l’amministrazione pubblica e la polizia stanziata nelle città meridionali disertarono lasciando così il campo ai ribelli che erano scarsamente controllati dall’opposizione e dai comitati di salvezza. La propaganda antigovernativa iniziò a bersagliare non solamente le qualità politiche del governo e del presidente Berisha, ma indicava le ragioni del dispotismo di quest’ultimo nelle sue origine montanare. Oltre alle devastazioni ci furono altri accadimenti ambigui che difficilmente troveranno una risposta. A febbraio il popolo del sud prese a protestare innalzando al cielo le tre dita, un gesto che sino ad allora era stato visto fare ai serbi. Si dice che fu il leader del Partito Social-Democratico Skёnder Gjinushi (già membro della nomenclatura del vecchio regime) a dare l’esempio. Nella situazione tesa che c’era tra gli albanesi del Kosovo (che sarebbero dei gegё) e Belgrado, tale fatto non poteva che suscitare perplessità e sconcerto agli occhi di molti albanesi che si definivano patriottici. Furono tuttavia date diverse interpretazioni che escludevano ogni legame con il contesto jugoslavo [Zilja 2001, 160-162].

Il 14 febbraio il giornalista britannico Andrew Gumpel pubblicò un articolo su The Independent in cui denunciava il governo albanese, il Partito Democratico e Sali Berisha di avere organizzato traffici illeciti di varia natura. I politici albanesi erano accusati di rifornire il conflitto bosniaco con armi e petrolio che veniva immesso nella federazione Jugoslava attraverso il Montenegro, contravvenendo dunque all’embargo che l’ONU aveva imposto sui belligeranti. I contenuti di quest’articolo hanno alimentato le voci circa il sostegno che Berisha avrebbe fornito alla Serbia di Milošević vendendogli petrolio estratto in Albania. Fatos Lubonja non ha dubbi sul fatto che l’articolo trasponga in maniera precisa quanto avvenne in Albania in quegli anni e suppone che l’informatore di Gumpel fosse stato un tale Charles Walsh che all’epoca si trovava in Albania per conto di USAID, ma che in verità lavorava per i servizi segreti [Lubonja 2010, 118].

A Valona la notte tre il 28 febbraio e l’1 marzo i ribelli uccisero due ufficiali dello SHIK di origini settentrionali. Il trattamento riservato al corpo del giovane ufficiale Lek Qoku, superò i limiti del raccapriccio e va ad aggiungersi all’elenco di assurdità grottesche e tragiche che caratterizzarono il 1997 e che in questo caso non possono essere semplicemente attribuibili all’odio verso il malcapitato agente del governo che egli rappresentava, né tantomeno l’insofferenza del popolo di Valona rispetto al nord, quanto ad una profonda crisi d’identità morale che accompagna spesso i periodi di transizione e all’isteria collettiva che si era impossessata della folla. Al cospetto di una crisi interna irrefrenabile il governo di Meksi diede le dimissioni il 2 marzo e il giorno seguente entrò in vigore la legge marziale. Nel sud fu dato l’assalto ai depositi militari di armi e munizioni. Il 9 marzo Berisha nominò un nuovo governo detto «di rappacificazione nazionale» con a capo il socialista Bashkim Fino. Fu proposta anche un’amnistia generale per chiunque deponesse le armi sottratte allo Stato. Si nutriva ancora forse la tenue speranza di arginare la frattura politica del Paese, ma la situazione non fece che peggiorare e nei giorni che seguirono la tensione tra il nord e il sud sfiorò il punto d’ebollizione.

Dalle fonti di cui si dispone non è possibile capire cosa fece scattare l’assalto ai depositi di munizioni nel nord del Paese, tuttavia è chiaro che fu una molteplicità di fattori che portarono gli individui ad armarsi essenzialmente per paura (di un possibile attacco del sud o per proteggersi dalle bande), per emulazione o in lungimiranza di un profitto. C’è poi la tesi sostenuta soprattutto da giornalisti stranieri che l’assalto ai depositi del nord servì per rifornire, previo pagamento, l’arsenale delle nascenti organizzazioni per l’indipendenza del Kosovo FARK e UҪK [Pettifer and Vickers 2009, 37-39]. Vi fu inoltre il 10 marzo uno scontro tra le forze governative e i cittadini della città meridionale di Pёrmet dove con alcune vittime tra i civili che fece ulteriormente aggravare la situazione [Baze 2010, 236]. Infine, l’opposizione che aveva fraternizzato con la ribellione al sud cercava esplicitamente le dimissioni di Berisha [Ҫupi 1998, 130], il quale però si rifiutava dicendo che senza di lui il Paese rischiava un reale rischio di scissione [Baze 2010, 231] [4].

Sentendosi intimidito e privo di supporto internazionale sembra che Berisha abbia tentato di trovare sostegno per vie extra-istituzionali giocando la carta della deterrenza. Sono in molti a pensare che fu il presidente a permettere, se non addirittura ad ordinare, che la popolazione del nord si armasse a spese dell’esercito nazionale il quale rimase a guardare mentre cittadini di qualsiasi fascia d’età portavano via armi e munizioni da guerra dai depositi militari [De Waal 2009, 353] [5]. Se così fosse, si trattò di un modo folle per ristabilire e mantenere l’equilibrio interno senza ricorrere a un vasto intervento repressivo nel sud con forze reclutate nel nord, ammesso che ci fosse stato un numero sufficiente di uomini disposto a fare questo lavoro. L’11 marzo furono saccheggiati i depositi di armi della capitale. Ecco come un giornalista dell’epoca si immaginava la scena del presidente rintanato nel suo ufficio nei giorni di marzo – i più drammatici di tutto il 1997 albanese – protetto dai suoi fedelissimi del nord: «I “fedeli”, che lui aveva raccolto dagli ovili tra le montagne del nord, mentre vedevano il loro “pascià” con la barba allungata, rannicchiato vicino a un kalashnikov che gridava stordito “Vlora hee... Vlora”, se la facevano sotto più di lui» [Ҫupi 1998, 85] [6].

Nelle settimane che seguirono non ci fu nessun attacco del sud sul nord o viceversa, ma solo terrore per la gente comune che rimaneva chiusa in casa mentre fuori piovevano proiettili. Un bilancio preciso delle vittime è indeterminabile tuttavia si stima che tra le 2.000 e 3.000 persone perirono per cause legate all’utilizzo improprio delle armi da fuoco o nei conflitti tra bande rivali. Già all’inizio di aprile nessuno parlava più di sud autonomo o indipendente. Le bande si facevano guerra tra loro per le aree d’influenza. Le strade erano bloccate da uomini mascherati che rapinavano i viaggiatori. Il 14 aprile Romano Prodi visitò Valona dove s’incontrò con i membri del comitato locale e fu scortato dalla banda di Zani Caushi ora in carcere a vita. Il viaggio di Prodi a Valona indispettì all’epoca Berisha perché dimostrava che l’occidente aveva preso atto dell’esistenza dei comitati. Ad aprile sbarcarono anche le truppe della “Operazione Alba”, la cui utilità – in teoria era un’operazione umanitaria – fu subito schernita dagli albanesi che definirono i soldati come i «turisti più costosi al mondo» [Zilja 2001, 160] [7]. Aldilà dei costi e dell’effettivo rischio che il contingente estero era disposto ad assumere la sua presenza deve avere in qualche modo contribuito all’avvio di un processo di normalizzazione. Non ci fu, infatti, un’escalation del conflitto politico, ma le guerre tra bande perdurano per molti mesi a seguire. La sicurezza iniziò a migliorare molto lentamente. Il sud ritornò sotto la sovranità della capitale gradualmente, di zona in zona, dopo che il Partito socialista vinse le elezioni alla fine di giugno. Resta tutt’oggi fuori dal controllo di Tirana il villaggio di Lazarat nella provincia di Argirocastro [8].

Come è possibile comprendere dalla singolare scena dipinta dal giornalista nel brano che ho citato precedentemente, in quel periodo di crisi e incertezza, la stampa contribuì a portare alla saturazione un processo di stigmatizzazione dei montanari – detti malok [9] – che si era avviato subito dopo la fine della dittatura tra il 1991 e il 1992. Presso molti albanesi sussiste tuttora la convinzione che Berisha abbia tollerato e incoraggiato lo spostamento demografico dal nord verso il centro, promuovendo pure incarichi amministrativi di rilievo per i nuovi arrivati alfine di consolidare il suo predominio e garantirsi una base politica militante che all’occorrenza fosse pronta a impugnare le armi. Questa visione non è priva di logica dato che all’inizio degli anni Novanta Berisha si mostrò piuttosto lascivo con le migliaia di famiglie che dal nord si scagliarono nei suburbi di Tirana e Durazzo dove occuparono proprietà pubbliche e private senza incontrare alcuna opposizione da parte dello Stato.

Tra i più ferventi avversari del Presidente nel 1997 c’era Frrok Ҫupi che è anche l’autore di quel brano che dipinge Berisha come un mujaheddin con tanto di barba. Ҫupi ha avuto una carriera a dir poco avventurosa [10]. Pure se originario del nord nel 1997 divenne portavoce dei ribelli di Valona e mise la sua penna a servizio della causa. Già a febbraio lanciava appelli per «Valona capitale» designando una città afflitta dalla violenza e dal caos come un «modello di libertà» o anche come «il nucleo dello Stato di domani» [Ҫupi 1998, 51-52]. Ҫupi affermava inoltre che Berisha ripudiava la cultura del sud poiché aveva reso la popolazione avversa a farsi sottomettere da lui [Zilja 2001, 64].

Il giornalista Mero Baze, in un recente libro dedicato agli eventi 1997, sostiene che nel sud furono maltrattate e torturate persone solo perché erano del nord. Spiega però che tali trattamenti non facevano parte di alcuna politica coerente così come non c’era nessun piano organizzato per separare il nord dal sud, ma solo violenza indiscriminata contro chi era sospettato di essere un agente di Berisha [Baze 2010, 287]. Egli afferma che indubbiamente il Partito Democratico aveva più sostegno al nord, ma non perché aveva portato grandi benefici alla regione, piuttosto per i mali arrecati dal comunismo [Baze 2010, 230]. Baze termina la sua analisi affermando che Berisha, negli anni in cui ha potuto esercitare il suo potere come presidente e poi come primo ministro, ha creato uno Stato ombra o «informale» tramite la nomina di suoi uomini in posti chiave della burocrazia. Questo espediente gli consentiva di controllare le istituzioni pure se formalmente queste erano fuori dalla portata delle sue azioni [Baze 2010, 351-355].

Frrok Ҫupi offre un esempio, forse immaginato dal momento che non lo cita come un caso concreto, di come Berisha poneva sotto la propria influenza le istituzioni in una nota scritta ad aprile del 1996, cioè un anno prima della crisi, dal titolo didascalico «I malok al sud».

Nella strategia per la preservazione del potere di E. Hoxha e S. Berisha non c’è qualche differenza: mentre Hoxha poté nominare segretari di partito dal sud al nord, questo fece anche il presidente in seguito. Egli installò al sud montanari del nord, suoi compaesani di Tropoja, come capi dei commissariati di polizia, doganieri, impiegati del SHIK (Shёrbimi Informativ Kombёtar/Servizio d’Informazione Nazionale), eccetera. Non è questione del fatto che questi furono scelti dalle aree del nord dove il Presidente ha il “fis [11]; ma furono scelte tra quelle persone che non hanno istruzione, che sono cechi obbedienti, bruti nell’atteggiamento e che capiscono solo la grammatica di Berisha. Questi furono percepiti come elementi comici al sud. [Ҫupi 2005, 193]

Nel 1997 la dinamica sopradescritta da Frrok Ҫupi era una certezza collettiva e il presidente Berisha fu ritenuto il principale istigatore delle divisioni nord-sud, che secondo Fatos Lubonja egli sfruttava per mantenere saldo il suo potere [Lubonja 1999, 361]. In un’intervista rilasciata l’8 maggio, l’allora segretario del Partito Repubblicano Ҫerҫiz Mingomataj non fa parola delle responsabilità del presidente sulla crisi finanziaria che aveva generato il caos nazionale, ma ne elenca gli errori in campo amministrativo e istituzionale. Mingomataj si autodefiniva lab, cioè un meridionale della regione intorno a Valona. Egli sosteneva che in quel periodo si stava consumando un conflitto storico tra il nord e il sud poiché Berisha non era stato in grado di ricostituire una società equilibrata dopo la fine del comunismo. Durante il regime di Hoxha il sud avrebbe beneficiato in termini di istruzione e cariche pubbliche. Berisha, secondo l’opinione di Mingomataja, essendo un presidente di Tropoja non seppe o non volle neutralizzare in modo graduale questa frattura in seno al popolo, ma al contrario riempì l’amministrazione di settentrionali. In definitiva Mingomataj affermava che il 1997 era una ribellione dei sentimenti del sud che era stato per tanto tempo maltrattato. Valona invece era la manifestazione di un nazionalismo regionale dovuto ai sentimenti offesi dei cittadini che erano stati abbandonati dal governo e sfruttati dal Partito Socialista [Zilja 2001, 215-216].

Un analogo paragone tra Enver Hoxha e Berisha lo fa anche Fatos Lubonja. La sua prosa su questo punto è elusiva forse perché l’autore non vuole lasciarsi andare a frasi laconiche e spiegazioni dozzinali come quelle di Frrok Ҫupi, tuttavia, dietro un quadro linguistico più raffinato permane l’idea che entrambi i leader abbiano assunto atteggiamenti a favore di individui coltivati nelle terre e nella cultura d’origine. Lubonja sostiene che nonostante l’uno fosse del sud e l’altro del nord entrambi esemplificano la parabola dell’egotista di campagna che sopraggiunge in città pieno di complessi d’inferiorità, ma con la psicologia del mercenario che non si fa scrupoli per ottenere ciò che vuole. Essi si sarebbero posti a capo di un’intera categoria di individui simili riuscendo ad avere la meglio su un effimero strato di intellighenzia cittadina che nulla poté contro la determinazione di chi è cresciuto in una realtà sociale che si basa sul culto della forza e dove la sconfitta è considerata una vergogna. Con Berisha si sarebbe portato a compimento la seconda fase di urbanizzazione di tali individui mentre la prima, quella iniziata con Hoxha, è rimasta incompiuta per ragioni che l’autore non spiega [Lubonja 2010, 189-190]. Lubonja non si sbilancia a dare una collocazione meridionale o settentrionale agli “urbanizzati” della prima o della seconda ondata forse perché vuole essere corretto politicamente e perciò evita ogni generalizzazione.

Ci sono gёge e toskё nell’Albania contemporanea?

Le fonti che ho potuto consultare non sono sufficienti per rispondere in modo soddisfacente alla questione se è possibile rinvenire un sfruttamento delle identità gegё-toskё da parte delle fazioni politiche che erano in conflitto. Per fare ciò serve uno studio molto più dettagliato che raccolga interviste e che prenda in esame tutta la stampa dell’epoca, del periodo precedente e di quello immediatamente successivo. Bisognerebbe inoltre attendere la pubblicazione dei documenti d’archivio che sicuramente conterranno informazioni che serviranno per conoscere meglio la storia di tutta la regione negli anni Novanta e non solo dell’Albania. Posso tuttavia affermare con certezza che i termini gegё e toskё non compaiano mai né sui testi scritti nel periodo coevo e immediatamente successivo alla crisi del 1997 né in quelli scritti alcuni anni dopo tra quelli che ho potuto leggere. I termini impiegati sono nord e sud, ma questi non indicano con precisione una particolare tipologia di cultura albanese, quanto invece sembrano costituire delle coordinate informali per designare delle aree di influenza politica. Le opinioni che ho riportato affermano chiaramente che il sud costituiva il serbatoio umano da cui il regime di Hoxha trasse i propri elementi più fedeli. Il nord svolse la stessa funzione per Berisha dopo la fine della dittatura. Pure ammettendo che questa tesi è certamente fondata su dati reali, manca uno studio storico, sociologico o demografico che dimostri in maniera precisa come è avvenuto il consolidamento dei due sistemi (comunista e post-comunista) a favore di elementi provenienti prima dal sud e poi del nord e quali ripercussioni ha avuto sullo Stato.

Siccome sui testi che ho letto non si fa riferimento diretto ai gegё e toskё si può pensare o che i termini siano stati effettivamente oscurati dai sistemi politici così come sostiene Mustafa Nano, oppure che gli individui non abbiano sentito alcuna esigenza di utilizzarli perché sono due parole che sono state impiegate in precedenza per raggruppare aree che se colte separatamente sono alquanto diversificate al loro interno. È possibile che una volta che i termini gegё e toskё non siano stati più utilizzati, siano stati semplicemente scartati perché non evocavano nulla alla maggior parte della popolazione che secondo Mustafa Nano è designata da questi nomi.

Nel 1997 non c’era un conflitto tra nord e sud, ma una forte contrapposizione tra alcuni centri del sud e il sistema politico che aveva consentito il proliferare di istituti bancari informali. Quando le città meridionali si sono temporaneamente sottratte alla nazione hanno iniziato a rivendicare le rispettive particolarità regionali senza descriversi come parte di un’entità più vasta nota come toskёria. Ҫerҫiz Mingomataj si autodefinisce lab mentre indicava come la fonte principale dei problemi Sali Berisha il quale non era semplicemente del nord, ma di Tropoja. In sostanza non sembra che ci fosse stata una percezione di differenze tra nord e sud, ma soltanto rimostranza per chi era sospettato di essere originario della regione estrema del nord da cui proveniva Berisha e dove presumibilmente la gente viveva ai margini del progresso culturale e da dove il presidente raccoglieva i membri della sua cricca. Penso che il sentimento di ostilità verso i montanari desumesse dall’odio nei confronti di Berisha e non dall’antipatia che potevano avere suscitato in pochi anni le nuove leve di comando di origine settentrionale a cui il presidente aveva affidato alcuni incarichi di rilievo nel sud.

Il dibattito circa l’identità albanese contemporanea come conseguenza della contrapposizione città – campagna

C’è un’ulteriore elemento su cui i testi portano a riflettere. Come si può notare sia Frrok Ҫupi sia Lubonja e in parte anche Mero Baze tendono a sottolineare un atteggiamento prettamente provinciale e retrogrado della leadership albanese e il modo in cui questa esercita il proprio controllo sulla società. L’opposizione dei contesti città-campagna e i rispettivi valori che questi due milieu rappresentano sono fenomeni spesso citati come le cause primarie della manifestazione di fenomeni violenti così come sono indicati all’origine dei malfunzionamenti statali che portarono al 1997 e che ancora oggi affliggono l’Albania. Il sociologo Gёzim Tushi in un suo libro recente critica gli impiegati statali di alto rango che non rispettano la legge poiché si sentono superiori a essa. Egli sostiene che:

Il vestito firmato e la macchina di lusso non può nascondere il fatto che fino a una certa età si è cresciuti tra mulattiere di campagna senza semafori. […] È molto difficile celare la propria origine che è tradita proprio in circostanze simili: semplici, ma essenziali per il cittadino, la sua cultura e la sua educazione. [Tushi 2010, 271]

Shinasi Rama è un albanese che insegna al dipartimento di scienze politiche della New York University dove è anche direttore del programma Master. Senza mezzi termini, egli pensa che il sistema socio-politico albanese sia una dittatura di bifolchi. Nel suo libro Pёrrallat e tranzicionit shqiptar (Le favole della transizione albanese) argomenta con convinzione come la classe dirigente albanese abbia ereditato dal contesto rurale una serie di attributi spregevoli e che tale retaggio ha conseguenze nefaste sulla prosperità dello Stato e dei cittadini. Con questa idea in mente egli ha elaborato una teoria per spiegare i malfunzionamenti della società albanese. Secondo Rama lo Stato albanese è afflitto da una mancata circolazione delle élite perché il loro processo di formazione è ostruito da un piccolo numero di individui che hanno potuto concentrare nelle loro mani tutto il potere politico ed economico [Rama 2012, 110-126]. Questi individui formerebbero la «Paria e Tiranёs» che nella visione del politologo è costituita da contadini che sono usciti dalle campagne per arrivare in città dove hanno occupato i posti chiave del potere [12]. Adesso come in passato la Paria non avrebbe interesse a trasformarsi in un’élite che diffonde i raggi della propria saggezza e del proprio benessere su tutto il popolo. Rama crede che la Paria, per non rischiare nulla, rimane legata ad una tradizionale concezione localista, ultramaterialista e miope dell’esistenza opponendosi con veemenza a qualsiasi evoluzione nella struttura sociale e politica del Paese. In sostanza la mentalità contadina sarebbe il problema più grande dell’Albania contemporanea perché «lo Stato è capeggiato da contadini, che non hanno il minimo sentimento nazionale e umano» [Rama 2012, 404].

Oltre alla somiglianza con le idee di Lubonja va notato che l’attacco alla mentalità contadina, che Rama detesta in modo eccessivo, sembra nutrito da più da narcisismo che da qualche teoria sociologica che non si adatta al contesto albanese [Rama 2012, 395] [13]. Non stupisce che Rama, quando elenca i centri storici di cultura cittadina, al primo posto pone la sua natia Scutari [Rama 2012, 404]. Il quadro della società albanese che Rama dipinge da una parte colpisce per la lucidità con cui da conto dei problemi che contraddistinguono la nazione in termini di corruzione e illegalità diffusa. D’altra parte l’autore fornisce spiegazioni troppo semplici e sembra voler completamente ignorare i presupposti da cui iniziava il cammino democratico dello Stato albanese sminuendo ogni passo che è stato fatto in questa direzione. Si tratta di progressi certamente limitati e che hanno arrecato innumerevoli ingiustizie economiche e sociali che ora danneggiano la vita di tanti albanesi. Ma sono aspetti a cui uno studioso deve dedicarsi con maggiore attenzione. La libertà d’espressione, di cui lo stesso Rama usufruisce non è un fattore da sottovalutare. Inoltre la considerazione della città come luogo di cultura più elevata rispetto alla campagna evoca la celebrazione il mito della civiltà occidentale riprodotto in scala ridotta.

In base alle opinioni dei diversi autori che ho sin qui comparato, è evidente che questi percepiscano l’esistenza di una frattura sociale all’interno della nazione dove secondo la loro opinione coesistono due diverse concezioni dell’organizzazione sociale, quella rurale e quella cittadina. L’identità albanese sarebbe sospesa in una dimensione psicologica tra un passato contadino e un presente urbanizzato. Sembra però che sia il passato a condizionare negativamente il presente poiché per la maggior parte degli attori, cioè per gli albanesi odierni ex contadini, non è possibile mettere in pratica in un contesto urbano la solidarietà meccanica che garantiva l’equilibrio nelle realtà rurali. I contadini urbanizzati tenderebbero a comportarsi in modo predatorio con i concittadini che non fanno parte della cerchia più stretta di parenti e conoscenti. Mustafa Nano, a differenza di Shinasi Rama, Fatos Lubonja e Gёzim Tushi non utilizza direttamente i termini “contadino” o “cittadino”. Tuttavia, le caratteristiche che egli attribuisce a gegё e ai toskё pongono l’accento sulla predisposizione culturale dei primi a vivere secondo i precetti di una vita rurale fondata sulla tradizione e dei secondi a muoversi in un contesto moderno e urbano governato dalla legge civile. Rispetto agli altri autori, bisogna riconoscere a Mustafa Nano un’apprezzabile umiltà. Egli non si estranea dal contesto locale toskё al quale afferma di appartenere, mentre gli altri autori il cui pensiero è stato da me discusso sembra vogliano prendere le distanze dal popolo e dalla classe politica che lo governa. Nelle opinioni di Shinasi Rama e Fatos Lubonja il popolo e la classe politica sarebbero causa dei loro stessi mali, che provengono dall’assenza di educazione e dall’incapacità di vivere o persino di concepire le istituzioni di uno Stato del diritto democratico.

Una breve considerazione finale

In base a quanto emerso dal confronto dell’opera di Mustafa Nano con gli altri autori vorrei formulare delle ipotesi sulle motivazioni che possono averlo spinto a scrivere questo libro. Bisogna innanzitutto notare che una reintroduzione delle categorie gegё e toskё si osserva nelle nuove ricerche in campo albanologico e più in generale balcanologico da parte di autori che riutilizzano tassonomie care ai viaggiatori del XIX secolo con l’intento di mostrare l’inconsistenza delle identità nazionali e, forse, con la speranza che ciò possa attenuare i nazionalismi regionali. Ma è anche probabile che il lavoro di Mustafa Nano sia in parte determinato dall’evoluzione di eventi politici recenti che certamente influiscono sullo sviluppo di un’identità albanese post-comunista. In tal senso uno dei commenti sintetizza il modo in cui, per così dire, l’essere albanesi non si limita ai soli albanesi di cittadinanza. L’utente Ylli, il cui commento qui ripropongo [14], faceva notare che l’Albania è un’entità piccola e non presenta una grande variabilità linguistica o socio-culturale. Il fatto però che Ylli abbia preso come esempio un’area che non appartiene allo Stato albanese dimostra che l’Albania, come entità culturale e sociale, si estende oltre i suoi confini formali. Con l’indipendenza de facto del Kosovo e il miglioramento delle relazioni tra i Paesi dei Balcani la popolazione albanese si sta progressivamente integrando. Quasi tre milioni di albanofoni distribuiti tra Montenegro, Kosovo e Macedonia sono tutti potenziali consumatori di cultura albanese allo stesso modo in cui lo sono quelli dell’Albania vera e propria. Tale sviluppo ha spostato il baricentro culturale dell’entità nazionale verso settentrione. Gli attori di questo nuovo spazio d’interazione sociale e i “clienti” della produzione culturale che è generata dal processo d’interazione parlano tutti un idioma gegë. Di conseguenza, il sud dell’Albania sta divenendo un’area periferica. La parlata del sud ha l’egemonia sulla lingua scritta, ma potrebbe perderla poiché gli albanofoni del nord sono in maggioranza. Coloro che si sentono dei toskë come Mustafa Nano iniziano forse a percepire la cupa sensazione di essere una minoranza. Oppure forse accade un processo strutturalmente analogo, ma di segno opposto. Ovvero che di fronte alla nuova situazione politica che sta rimescolando i tratti distintivi della nazionalità albanese, è probabile che presso taluni individui, la paura di rimanere intricati in questioni nazionali del nord extra frontaliero si cristallizzi in un sentimentalismo toskё.


 

Quotidiani e risorse online

Bibliografia

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Note

1. Sali Berisha è il leader storico del Partito Democratico (Partia Demokratike) e indiscusso protagonista della scena politica degli anni Novanta e duemila. È stato presidente della repubblica dal 1992 al 1997 ed in seguito, dopo aver sostenuto il varo di una legge che trasformò la repubblica in un sistema parlamentare, ha ricoperto il ruolo di primo ministro dal 2005 al 2013.

2. Fatos Nano è un politico albanese, attualmente ritiratosi dall’attività, ex capo del partito socialista e capo del governo albanese formatosi nel 1991 dopo le prime elezioni libere del paese che furono vinte dall’ex partito di regime che lui stesso aveva riformato. Accusato di corruzione fu arrestato e imprigionato fino al 1997 quando di fronte alla violenta crisi, l’allora presidente albanese Sali Berisha gli condonò la pena. Tornò alla guida del governo per un breve periodo tra il 1997 e il 1998 e poi tra il 2002 e il 2005.

3. Lubonja scrive in terza persona a modo di un romanzo che viene alternato da brani in prima persona estratti dal diario del protagonista “Fatos qorri” (Fatos il cieco o quattrocchi).

4. Secondo una dichiarazione scritta che lo stesso Berisha ha consegnato al giornalista Mero Baze in cui raccontava le decisioni che aveva preso e le motivazioni che lo avevano spinto a non dare le dimissioni.

5. L’antropologa Clarissa de Waal statunitense si trovava a Mirdita in quel periodo e ha assistito in prima persona a quanto stava accadendo in quella regione, nei giorni in cui la popolazione rapiva le armi dai depositi.

6. Qui Ҫupi offre una descrizione levantina di Berisha, abbellendolo con una barba che lui non ha mai portato.

7. L’ex sindaco di Valona Gёzim Zilja sostiene che la missione non fece quasi nulla. In teoria doveva scortare i viveri da distribuire alla popolazione, ma tale compito era inutile in quanto non c’era affatto penuria in Albania e le riserve di cibo erano molto più abbondanti di quanto lo fossero state all’inizio degli anni Novanta.

8. Lazarat è sempre stato un bastione della destra e sin dal 1997 il territorio gode di un’autonomia de facto. L’area è famosa tra i criminologi dell’UE per la produzione di cannabis sativa che quotidianamente è immessa nei mercati illegali dell’Unione. Ultimamente sembra che stia divenendo anche una meta di turismo alternativo per giovani occidentali. Nell’estate del 2014 un’azione della polizia del nuovo governo Rama ha cercato di porre freno alle coltivazioni. Tuttavia i fatti dell’estate (con tanto di cronache in diretta degli scontri tra la polizia e i coltivatori di cannabis che venivano diffusi dalla radio e dalla televisione) hanno diffuso presso la popolazione l’idea che si sia trattato solo di un blando teatro per mostrare agli osservatori dell’UE l’intento governativo di voler aprire un nuovo corso di disciplina sociale e politica.

9. Malok significa montanaro, ma è utilizzato come dispregiativo per indicare gli abitanti del nord dell’Albania. Più raramente si utilizza anche per indicare i montanari del sud il che rimarca la funzione del termine come prettamente offensivo. Ultimamente mi sono imbattuto in una traduzione televisiva che impiegava malok per tradurre l’inglese hillbilly – noto epiteto che è utilizzato per indicare i membri delle comunità dell’hinterland statunitense i quali vivono sugli altipiani e dove, secondo lo stereotipo collettivo, perseguirebbero uno stile di vita isolato e degenerato.

10. Ha iniziato la sua carriera con il giornale di regime Zёri i Popullit. Nel 1991 fu per un breve periodo caporedattore dell’organo del Partito Democratico Rilindja Demokratike. Lasciò dopo pochi mesi perché, come lui stesso dice, non accettava l’intromissione di Berisha nelle questioni editoriali e passò all’opposizione nel giornale Koha Jonё. Intorno agli anni 2010 ha ricucito il suo rapporto con Berisha.

11. fis può essere inteso qui come famiglia allargata oppure lignaggio.

12. Non inerente all’omonima casta indiana; paria (accento cade sulla i) in albanese indica un organo di persone a capo di un corpo sociale.

13. Non credo che la teoria della circolazione delle élite di Ibn Kaldhoun del XIV secolo che Rama utilizza per analizzare l’odierna Albania sia il metodo migliore per comprendere i fenomeni legati alla transizione albanese in particolare e gli altri contesti ex-comunisti in generale. Questa teoria non prende infatti per nulla in considerazione l’ambiente esterno ovvero il contesto più ampio mondiale che direttamente e indirettamente determinò e guidò i processi di transizione.

14. «Anche io penso che tra gegë e toskë ci siano delle divergenze, ma il modo in cui è stato pensato da Muqi [sta per Mustafa] è inaccettabile. L’Albania non è l’India o la Cina e perciò ci sono più cose che ci uniscono di quelle che ci dividono. Non dimentichiamo che tra Suhareka e Prizren [città del Kosovo che si trovano all’interno del distretto di Prizren] ci sono delle differenze pure se solo 20 chilometri le separano».