Storia e Storie
Il confine tra ciò che è reale e ciò che è immaginario
si fa sempre indistinto all'interno del romanzo.
M. Doody, La vera storia del romanzo, 726
Aristotele detective di Margaret Doody inizia, omericamente, con una opportuna invocazione alla musa: «Ascoltami, o musa Clio, e aiutami nella stesura di questa storia. I fatti che riferisco sono veri» [Doody 1999, 9]. A fare appello alla protettrice della Storia è l'ateniese Stefanos, figlio di Nichiarco, voce narrante del romanzo e protagonista della storia. Una storia di cui l'autore/narratore, già scolaro di Aristotele, rivendica fin dall'incipit la veridicità. Una storia attraverso la quale la scrittrice di origine canadese Margaret Doody gioca a costruire storie nella Storia, più precisamente nella Storia antica, in quel periodo decisivo che sta tra la fine dell'età classica e l'inizio dell'età ellenistica, gli anni gloriosi dell'impresa di Alessandro il Grande alla conquista dell'Asia e degli insegnamenti del filosofo Aristotele, comprimario nel romanzo, presso il Liceo di Atene.
Margaret Doody, professore di letteratura presso il Department of English della Notre-Dame University, Indiana, è autrice, oltre che di questo romanzo, che è il primo di una serie che consta attualmente di nove titoli in totale, di molti studi sul romanzo, soprattutto ottocentesco, e di un imponente volume dal titolo The True Story of the Novel, uscito nel 1996.[1] In esso la studiosa svela un segreto a tutti noto, ma da pochissimi considerato e analizzato in tutte le sue conseguenze: il romanzo come forma letteraria ha una storia lunga duemila anni.
Lungi dall'essere una creazione occidentale degli ultimi duecentocinquanta - trecento anni, il romanzo nasce nell'antichità, più precisamente in età tardo ellenistica, con alcuni antecedenti nel corso di quel IV secolo a.C. che è anche inevitabilmente - si potrebbe insinuare - il contesto storico in cui la studiosa ha scelto di ambientare i suoi novels dedicati alle indagini di Aristotele detective.
Alcune opere del IV secolo sono ormai considerate modelli indiscussi del romanzo greco. In particolare, oltre ad alcune trame delle opere della Commedia nuova, spiccano due lavori dello storiografo ateniese Senofonte, l'Anabasi (anni 80-70 del IV secolo a.C.) e la Ciropedia (362/1-354 a.C.), veri e propri romanzi storici - o (auto)biografie romanzate - che, a giudicare dalla frequenza di attestazioni nei papiri, dovevano incontrare il favore del pubblico ellenistico, oltre ad essere esplicitamente citate, nel caso dell'Anabasi, nel Romanzo di Calliroe di Caritone (50 a.C.-140 d.C.) [Canfora 1989, 577; Doody 2009, 39-67]. La cosiddetta storiografia patetica della maggior parte degli storici di Alessandro sancisce definitivamente il legame tra la scrittura storiografica e quella romanzesca producendo come esito ultimo intorno alla metà del III secolo d.C. il cosiddetto Romanzo di Alessandro.
La vicinanza, alle origini, tra romanzo e storia e l'influenza di una certa storiografia sulla narrazione romanzesca (i due generi sono formalmente assai simili nell'antichità) intersecano fin da subito le due categorie: il primo romanzo della storia dell'Occidente è una opera storiografica romanzata (Ciropedia), il più famoso romanzo greco dell'antichità è un romanzo storico sulla figura di Alessandro il Grande (Romanzo di Alessandro). Margaret Doody conferma l'assunto nell'incipit/proemio.
I fatti che riferisco sono veri. Io, Stefanos, figlio di Nichiarco, cittadino d'Atene, intendo esporre qui le strane e terribili avventure che mi capitarono nel primo anno della 112a Olimpiade. Si vedrà così come un uomo della mia casa fu calunniato, come fu riconosciuto innocente, e come un malvagio fu consegnato alla giustizia, per opera degli Dei onnipotenti. Inoltre, potrò così celebrare la sapienza del mio consigliere Aristotele, che io proclamo, a dispetto di tutti i detrattori, uno degli uomini migliori ed uno dei più grandi filosofi del nostro tempo [9].
Classica presunzione di veridicità, propria del romanzo storico di ogni epoca e, per converso, delle enunciazioni programmatiche degli storiografi dell'antichità con le loro reiterate attestazioni sulla autopsia dell'autore, testimone vivente e partecipe degli eventi che narra;[2] topica affermazione della grandezza del tema trattato in una formula encomiastica che diventa insieme epigrafe dedicatoria dell'opera. I fatti esposti permetteranno al protagonista/narratore di esaltare l'eccellenza di Aristotele, «uno dei più grandi filosofi del nostro tempo». Questo romanzo storico pretende di utilizzare la testimonianza genuina del suo protagonista per diventare fededegno e realizza, a fortiori e a posteriori (è stato scritto e pubblicato per la prima volta nel 1978, per poi cadere quasi nell'oblio ed essere riscoperto dall'italiano Beppe Benvenuto e dalla casa editrice Sellerio nel 1999), l'assunto teorico della sua autrice sulla nascita ellenistica del romanzo come genere letterario.
Nei fatti, stando alla testimonianza di Doody [2009, 15], la scoperta da parte della studiosa delle origini antiche del romanzo e del suo immaginario è stata posteriore alla stesura del volume Aristotele detective, essendo avvenuta in occasione delle ricerche per la composizione del seguito, il breve racconto Aristotele e il giavellotto fatale, uscito originariamente nel 1980. La nascita di Aristotele detective è biograficamente prosaica. La contemporanea lettura, per obblighi accademici e per svago serale, della Retorica di Aristotele e di una non meglio precisata 'detective story' - in questa sequenza - avrebbe prodotto nella mente creativa dell'autrice lo straordinario personaggio di Aristotele detective.[3]
Come è già debolmente emerso, Aristotele detective è un romanzo che, non fosse per le copertine rigorosamente blu notte della casa editrice palermitana, si dovrebbe definire 'giallo'.[4] Un romanzo storico e, insieme, investigativo. Nei panni del detective agisce il filosofo Aristotele, coprotagonista della vicenda narrata da Stefanos e personaggio storico a tutto tondo, un Aristotele collocato da Doody nel cuore della storia come unico comprimario dai contorni storici definiti. Le competenze ermeneutiche del filosofo, la profonda conoscenza dell'animo umano e dei fenomeni della natura miste alle eccellenti qualità dialettiche e argomentative ne fanno un perfetto antesignano del detective letterario tardo ottocentesco, fondandosi il metodo deduttivo sui princìpi della logica aristotelica. L'Aristotele di Doody è frutto del fascino esercitato contemporaneamente sull'autrice dalla Storia e dalla fiction, dagli eventi dell'antichità e dalle storie narrate.
In questa prospettiva non si tralascerà di ricordare come il filosofo di Stagira, l'Aristotele storico vissuto dal 384/3 al 322 a.C., avesse dedicato un passo famigerato del suo trattato sulla Poetica (9, 1-2) alla disamina delle differenze tra il poeta e lo storico, affermando la superiorità teoretica della poesia sulla storia:
Da quanto si è detto risulta evidente che l'opera del poeta non consiste nel riferire gli eventi reali, bensì fatti che possono avvenire e fatti che sono possibili, nell'ambito del verosimile o del necessario. Lo storico e il poeta non sono differenti perché si esprimono in versi oppure in prosa; […] ma la differenza è questa, che lo storico espone gli eventi reali, e il poeta quali fatti possono avvenire. Perciò la poesia è attività teoretica e più elevata della storia […]: la poesia espone piuttosto una visione del generale, la storia del particolare [Gallavotti 1974, 31-33].
Il filosofo ha teorizzato, in funzione antiplatonica, l'alto valore dianoetico della poesia (e, diremmo noi, della letteratura), posto che essa, a differenza della storia che espone il certo, costruisce il vero, attingendo al verosimile, al necessario e, dunque, all'universale (ciò che per Aristotele è evidente nelle opere della Commedia e anche in quelle, che pure si riferiscono talvolta ad avvenimenti reali o a persone davvero esistite, della Tragedia). Doody, in modo alquanto intelligente, fa di lui il protagonista di una fiction filologicamente ineccepibile dal punto di vista delle ricostruzioni storiche e sorprendentemente vivida e fedele nel riprodurre le dinamiche della vita politica, in senso etimologico, dell'Atene degli anni 30 del IV secolo a.C., superando grazie all'arte narrativa le grigie descrizioni manualistiche moderne sulle istituzioni ateniesi, rendendo genuine e immediatamente comprensibili le molte facce della società antica e toccando direttamente, attraverso il verosimile, il vero.
Aristotele e Stefanos: dettagli di antichità e istituzioni
«Homicide was not one of Aristotle's favorite topics» [Stroud 1993, 203]. Il filosofo, in effetti, si occupa di omicidio solo in due brevi passi delle sue opere e sempre a proposito della classificazione dei tribunali giudicanti competenti (Pol., 4, 1300b 13-1301a 15; Ath. Pol., 57). Ben si comprende, dunque, la sorpresa del protagonista Stefanos - e l'effetto sul lettore dell'invenzione letteraria - nel trovare proprio in Aristotele la soluzione dell'enigmatico omicidio che insanguina la buona società ateniese sullo scorcio degli anni 30 del IV secolo a.C.
L'azione comincia rapidamente. I fatti si sono svolti, stando alla dichiarazione in prima persona di Stefanos, a partire dal mese di Boedromione (il terzo del calendario lunare attico, corrispondente a settembre/ottobre), al calare della terza luna dopo il solstizio d'estate, del primo anno della 112a olimpiade (cioè l'anno 332/1 a.C.), e più precisamente a partire dall'alba del terzo giorno della seconda settimana del mese. Nel corso della vicenda Doody, a parte questo preciso attacco cronologico quasi diodoreo perfettamente in linea con il tono narrativo della storiografia antica, non si lascia sfuggire l'occasione per alcuni riferimenti agli avvenimenti storici coevi. Aleggia sulla vicenda il legame tra Aristotele e Antipatro, lo stratego d'Europa lasciato come viceré da Alessandro al momento della partenza per la spedizione d'Asia nella primavera del 334, legame che, in una occasione, diventa fonte di estremo disagio per il sospettoso Stefanos [Doody 1999, 113-114]. Due eventi precisi fanno da sfondo a sequenze affatto secondarie della narrazione: la distruzione di Tebe, ordinata da Alessandro nel 335 dopo che la città beota si era ribellata, causa ultima del trasferimento di Melissa, moglie di Filemone, il cugino di Stefanos, ad Atene [Doody 1999, 175-180];[5] e, soprattutto, il recentissimo e lunghissimo assedio di Tiro, che aveva impegnato il condottiero per ben sette mesi, concludendosi nell'agosto del 332, vividamente riportato sull'agora cittadina e nella testimonianza di un soldato superstite [Doody 1999, 74-76, 132-135, 226-235].[6]
Letterariamente e insieme storicamente rilevante nella ricostruzione di Doody è l'abilità nel ricreare una certa atmosfera, nel dare conto del clima di Atene nell'anno 332/1 a.C., quando, dopo la forzata adesione alla Lega Panellenica di Corinto fondata da Filippo II e rilevata dal figlio Alessandro, la città viveva nell'orbita politica della Macedonia ed era divisa all'interno tra sostenitori della causa macedone e acerrimi nemici del condottiero. La vittoria di Alessandro sul re dei Persiani Dario III a Isso nell'autunno del 333 a.C. aveva determinato la decisione da parte dei rappresentanti della Lega di Corinto, tra cui gli Ateniesi, di onorare il re con una corona d'oro; in città, tuttavia, accanto a filomacedoni come Demade o Focione, la cui preminenza era al momento determinante, erano attivi anche personaggi «indipendentisti» come Licurgo e Demostene, o «intransigenti» come Iperide e Stratocle [Musti 1990, 654, 673; Habicht 1997, 6-22]. La figura di Aristotele, emblematica della situazione storica coeva, ben si presta ovviamente a questo gioco: i legami del filosofo con la Macedonia e insieme con la città di Atene sono storicamente così forti che una trasposizione letteraria come quella di Doody può dare un'idea genuina della posizione, fisica e ideale, contemporaneamente dentro e fuori rispetto alla città del filosofo.
Stefanos apre la scena del delitto, di cui è testimone involontario pochi minuti dopo l'omicidio dell'eminente cittadino Boutades, della famiglia degli Etioboutadi, ex-corègo e trierarca. Doody crea la sua vittima mescolando un ingrediente inventato ma credibile - il nome Boutades - ad un impasto storicamente coerente in cui si amalgano l'importante famiglia degli Etioboutadi, il cui massimo esponente, Licurgo, dominò la vita politica ateniese dal 338 al 326 a.C. come ὁ ἐπὶ τῇ διοικήσει [Habicht 1997, 22-30]; le liturgie, ovvero le contribuzioni a carico dei cittadini più ricchi di Atene sulla base delle quali erano coperte molte delle spese pubbliche di Atene e le più importanti delle quali erano appunto la coregia (l'allestimento di un coro tragico in una delle feste annuali della città) e la trierarchia (l'equipaggiamento e il sostentamento annuale di una trireme da guerra); l'impatto sociale e politico dei ricchi cittadini coreghi e trierarchi. Alcuni dettagli, apparentemente senza importanza, sono determinanti, come il lettore accorto si aspetta in un romanzo investigativo e si affretta ad annotare mentalmente. Riaffioreranno, in modo casuale quanto puntuale nello svolgimento del plot, la grande anfora da vino con una scena di baccanale dipinta presente nella stanza dell'omicidio e la minuscola scheggia di ceramica, un piccolo frammento di vaso con un segno di scrittura, rinvenuto da Stafanos nel giardino.
Il coinvolgimento del giovane non si esaurisce in questo ruolo da testimone «di un atto malvagio, spaventoso ed empio» [Doody 1999, 13]. Quando al funerale il nipote della vittima Polignoto rivolge la tradizionale e solenne dichiarazione di accusa nei confronti dell'assassino, non lo fa contro ignoti, bensì proclama colpevole Filemone, figlio di Likias, cugino di Stefanos, già in esilio per una precedente condanna in contumacia, costringendo così il nostro eroe a farsi carico personalmente della causa.
L'accusa presentata da Polignoto corrisponde in ogni dettaglio alla procedura canonica prevista dal diritto attico in caso di omicidio, la δίκη φόνου, così come è fissata dalla tradizione giuridica che risale almeno alla legge di Draconte (c. 624-20 a.C.). I parenti della vittima, il padre, i fratelli e i figli in primo luogo, i parenti fino ai cugini e ai figli dei cugini (compresi anche generi e suoceri) in seconda istanza, hanno la possibilità di avviare una azione legale contro l'assassino presentandone richiesta al magistrato competente, l'arconte basileus, e facendo una pubblica accusa nell'agora. Questa proclamazione pubblica dell'accusatore e del basileus sanciva anche l'allontanamento dell'assassino dai luoghi sacri e dall'agora, il che emerge precisamente nelle parole di Polignoto [Doody 1999, 42], pena l'arresto immediato da parte degli Undici attraverso una procedura chiamata ἀπαγωγή.[7] La causa per omicidio, probabilmente introdotta da Draconte per sottrarre alla sfera privata e alla vendetta la punizione dell'assassino, resta - anche nel momento in cui è istituita dal legislatore Solone all'inizio del VI secolo la γραφή, ovvero la procedura esperibile in casi determinati e nella quale chiunque poteva farsi accusatore per così dire 'pubblico' - una procedura di tipo eminentemente 'privato', una δίκη, nella quale solo i parenti della vittima (o i padroni di uno schiavo) sono abilitati quali accusatori.[8]
Quando Stefanos sente il bisogno di una conversazione intelligente, dopo l'incontro con la disperata zia Eudossia, che, madre in lacrime dal nome profetico e insieme antifrastico, ripete instancabilmente quello che diverrà poi il principale ma opinabile argomento della difesa del figlio imputato - «non è ragionevole sospettare un uomo che non è qui» [Doody 1999, 45] -, è il momento di Aristotele - il quale, a riguardo, dichiarerà «Provare delle negazioni: un aspetto tedioso della logica» [Doody 1999, 64]. Il personaggio è introdotto in veste di maestro dalle parole del suo stesso ex allievo: un maestro particolare, straniero, nato a Stagira nella penisola calcidica, residente ad Atene e legato biograficamente ai sovrani macedoni (Aristotele era figlio di Nicomaco, già medico di corte del re macedone Aminta III, c. 393-370 a.C., ed era stato precettore di Alessandro, il nipote di Aminta, tra il 343 e il 341 a.C.).
Stefanos fa riferimento a due fasi della biografia del filosofo: il primo soggiorno ad Atene a partire dal 367/6 e fino al 347/6 a.C., durante il quale Aristotele fu allievo della Accademia platonica, e il secondo soggiorno dal 335 a.C. Doody, sfruttando appieno le contraddizioni della tradizione biografica antica sul filosofo, menziona le possibili cause di questa partenza, mettendo in bocca a Stefanos una accorata difesa del maestro e una chiara confutazione di quella credenza che voleva Aristotele e Platone nemici sulla base della distorta interpretazione del lascito testamentario dell'Accademia al nipote di Platone Speusippo. In sordina Doody lascia la possibilità che ci fossero motivazioni ben più alte per la partenza di Aristotele da Atene: in quell'anno, dopo la conquista di Olinto da parte del re di Macedonia Filippo II nel 348/7 a.C., ad Atene il partito antimacedone capeggiato da Demostene aveva preso il sopravvento rendendo forse pericolosa la permanenza del filosofo in città [Canfora 1989, 434; Santoni 1999, xii-xiii]. Il rientro del maestro nel 335 a.C., all'indomani della distruzione di Tebe da parte di Alessandro, durò quasi fino alla sua morte nel 322 a.C.: è questo il periodo dell'insegnamento personale di Aristotele nella sua scuola, il Liceo, che lo stesso Stefanos dichiara di aver frequentato con passione prima della morte del padre.
La descrizione dell'incontro diretto con il maestro è magistralmente rallentata da Doody con l'espediente della cena in corso. Stefanos, in sala, sente le voci di Aristotele e della moglie Pitia, figlia di Hermias di Atarneo, ed è colpito dalla straordinaria quantità di libri che il maestro possiede e tiene in casa. Si rammenterà, a questo riguardo, che, tra i molti aneddoti riportati dalla tradizione, c'è quello che ricorda come Platone fosse colpito dalle qualità di studioso di Aristotele e lo chiamasse ὁ ἀναγνώστης, cioè il lettore. Alla lettera ἀναγνώστης è lo schiavo istruito che legge ad alta voce dal rotolo di papiro per qualcuno che ascolta, la normale procedura di lettura indiretta ancora in uso per la generazione di Platone; Aristotele, al contrario, leggeva direttamente i libri (cioè i rotoli di papiro) e, grazie a questa modalità, potè documentarsi assai presto su molte materie [Santoni 1999, xii]. Da un punto di vista letterario, il collezionismo librario dell'Aristotele di Doody, confermato dalle fonti antiche, a cui si aggiunge nel prosieguo della storia l'avvio di una raccolta a scopo scientifico (e investigativo) di armi, ben si addice a certe manie o raffinatezze tipiche del detective romanzesco, dal violino e dalla pipa del modello Sherlock Holmes, alla predilezione per i cibi pregiati e i fiori preziosi di Nero Wolfe.[9]
È l'apertura di una porta che materializza un Aristotele allegro, perfettamente informato su tutto quanto è avvenuto in città - il Liceo era collocato al di fuori della cinta muraria di Atene - e sicuro che Stefanos voglia assumersi il compito di difendere il cugino accusato dell'omicidio di Boutades. La procedura attica, ancora una volta scrupolosamente rispettata da Doody, prevede, infatti, che, in assenza dell'accusato, sia il parente più prossimo a sostenere la difesa e che tale difesa sia svolta personalmente, come è prassi abituale nei tribunali ateniesi in cui, mancando la figura dell'avvocato professionista, accusa e difesa sono fatte dall'accusatore e dall'accusato (o da un parente per lui) di persona.
Altrettanto scontato è che il filosofo, accattivandosi la simpatia del lettore oltre a quella del coprotagonista, si dichiari pronto ad aiutare il suo ex allievo: «Ovviamente tu ti assumerai il compito di difenderlo (scil. Filemone). Non è dunque naturale che tu sia venuto da me, tuo vecchio maestro di retorica e di altre branche della filosofia? Una mossa molto sensata» [Doody 1999, 52]. Seguendo la procedura tipica degli avvocati cinematografici che vogliono conoscere la verità per poter difendere al meglio il loro assistito - come fa, attraverso un interrogatorio apparentemente efficace, Charles Laughton con Tyrone Power in Testimone d'accusa - Aristotele ottiene soddisfacenti garanzie circa l'innocenza del cugino Filemone e si propone a tutti gli effetti come consulente legale di Stefanos, colui che lo aiuterà ad elaborare una difesa e lo spronerà a svolgere indagini per scoprire il vero assassino.
Doody si sbizzarrisce a trasformare il filosofo in un vero e proprio Sherlock Holmes ante litteram [Canfora 2000, 62], nel tentativo ben riuscito di dimostrare, sempre attraverso la sua finzione storica, che, senza il metodo dimostrativo della logica aristotelica di epoca preellenistica, non ci sarebbe stato 1) il romanzo investigativo, 2) il tipo di detective deduttivo alla Sherlock Holmes, prototipo degli investigatori letterari del novecento (l'Hercule Poirot di Agatha Christie, l'Ellery Queen dei cugini Dannay e Lee, il Nero Wolfe di Rex Stout, il Guglielmo da Baskerville di Umberto Eco, solo per citarne alcuni). Naturalmente, la copia/modello è così ben costruita che accanto a Sherlock Holmes/Aristotele agisce un corrispondente dottor Watson, cioè Stefanos, che diventerà presto non solo l'alter ego investigativo di Aristotele (con la stessa posizione, per così dire, intellettualmente subalterna, ma con un ruolo itinerante e autoptico rispetto ad Aristotele almeno all'inizio più simile a quello di Archie Goodwin nei confronti del casalingo e orchidea-dipendente Nero Wolfe); ma anche, come nei romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, sarà fatto al tempo stesso narratore delle vicende di cui è protagonista.
Oltre alle profonde qualità logiche che accomunano i protagonisti dei romanzi di Doody e di Conan Doyle, le competenze anatomiche e chimiche che Watson riconosce a Holmes nell'incipit di Uno studio in rosso sono brillantemente possedute dallo stesso Aristotele, figlio di un medico e affatto digiuno di nozioni utili al reperimento di indizi dallo stato dei cadaveri.[10] Aristotele, tuttavia, supera Holmes. Le conoscenze filosofiche e politiche dello Stagirita sopravanzano di molto lo zero che Watson assegna a Holmes in materia. Doody, inoltre, sa che al calamo di Aristotele (o della sua scuola) si deve la più dettagliata e ricca fonte antica sulle istituzioni ateniesi, la Ἀϑηναίων Πολιτεία, composta in una data incerta tra il 335/4 e l'anno della morte del filosofo nel 322 a.C. [Rhodes 1981, 52], in cui l'autore, forse anche in virtù del proprio status di straniero residente esercita una profonda capacità nel comprendere e descrivere la realtà storica, politica e istituzionale della città guardandola dall'interno.
Le qualità indiziarie della trama di Aristotele detective confermano l'operazione di Doody sull'archetipo Sherlock Holmes, mentre gli altri romanzi della serie, per ora limitati ad un numero ridotto di otto unità secondo una scala di grandezza che avvicina Doody a Conan Doyle piuttosto che ai prolifici Christie o Stout, diventano progressivamente più avventurosi, comportando per i due protagonisti viaggi e imprese pericolose e movimentate di stampo più marcatamente tardo-ellenistico (e, per analogia, hard-boiled).
All'Aristotele investigatore si affianca e si mescola, come si è detto, l'Aristotele legale. In attesa del processo, in base alla procedura attica [Bearzot 2008, 64-70] che Doody ricrea con acribia, il tempo di circa quattro mesi del racconto è scandito secondo le tre prodikasiai che separano Stefanos dal tribunale e lo spingono ad almeno altrettanti incontri preparatorî con il maestro. Con questo termine (προδικασία), che Doody ricava da una orazione per una causa di omicidio dell'oratore attico Antifonte in cui è descritta anche la successione dei tre incontri (Sul coreuta, or. 6, 42), si intendono le udienze preliminari di accusa e difesa davanti all'arconte basileus. Il termine più attestato nelle fonti antiche per questa fase della procedura è, tuttavia, ἀνάκρισις, che indica la fase preliminare del processo, quella durante la quale, attraverso più incontri alla presenza del funzionario competente, si raccolgono gli elementi utili e necessari per il giudizio. Nel caso degli omicidi, era uno dei nove arconti ateniesi, l'arconte basileus, che assisteva le parti mentre producevano i mezzi di prova (dichiarazioni e testimoni, essenzialmente) e che si incaricava di presentarli il giorno del giudizio davanti al tribunale competente [Biscardi 1982, 266; Todd 1993, 99, 126-7, 129]. Non molte sono le informazioni superstiti su questa anakrisis, che alla lettera significa 'esame', come pure sulla procedura analoga della prodikasia, che rimanda parimenti ad una 'valutazione preliminare'. È certo che questi incontri non avessero nulla a che fare con l'istruttoria tipica dei processi dei sistemi giuridici occidentali moderni, durante la quale il giudice è incaricato di svolgere indagini e scoprire la verità, interrogando testimoni e raccogliendo prove. L'arconte non ha il potere di un giudice moderno: semplicemente ascolta le parti e riceve le loro dichiarazioni. Da questo punto di vista il sistema penale e processuale attico assomiglia di più a quello anglosassone, nel quale, come è noto, lo scopo del processo penale è determinare se colui a cui spetta l'onere della prova (di solito l'accusatore) ha dimostrato senza ombra di dubbio la sua accusa. Il sistema attico si spinge, tuttavia, ancora più in là: il ruolo della corte giudicante non è tanto quello di stabilire se l'accusa sia stata provata, quanto quello di scegliere quale delle due tesi esposte, quella dell'accusatore ovvero quella del difensore, sia preferibile [Todd 1993, 359].
Epigrafi e ceramiche
L'acume letterario di Doody si manifesta nella scelta degli indizi. A conclusione del primo incontro con Stefanos, Aristotele ha in mano una tavoletta sulla cui cera ha preso rapidi appunti riguardanti il delitto di Boutades e ha in breve elencato le motivazioni razionali che spingono l'uomo a uccidere poco prima discusse, con sistematicità davvero aristotelica, insieme all'ex allievo. Doody scoraggia il suo giovane protagonista che legge ciò che il maestro ha scritto e incoraggia l'appassionato di rompicapi investigativi che legge il suo romanzo.
Diedi un'occhiata alla tavoletta incerata. C'erano sopra poche parole così disposte:
Creta
tavola
sangue sulle pianelle
Collera Paura Avidità- Non molto - dissi, deluso. - Ho tenuto intere conferenze con note altrettanto scarne. Il filo d'Arianna. Dopo tutto, un rètore è un vero figlio del fondatore d'Atene. Si muove in un labirinto, indicandoci la strada finché non giungiamo faccia a faccia con la verità [Doody 1999, 64-65].
L'equazione 'retore = Teseo' è assai opportuna, non solo e non tanto perché il romanzo è ambientato ad Atene, ma soprattutto perché, alle origini, la figura del detective che lavora sull'indizio (clue) è etimologicamente legata al 'gomitolo' (clew) e al mito di Arianna. Questa accezione che identifica l'investigatore con Teseo che esce dal labirinto (delle indagini) grazie al filo di lana dell'amata è ben attestata sia nelle prime detective stories anglosassoni della metà dell'800 sia nella pratica investigativa dei primi veri detective in carne e ossa, la cui istituzione da parte della polizia londinese risale al 1842 [Summerscale 2010, v; 77-78]. Nelle parole di Aristotele, il retore, quale egli si definisce, diventa l'antesignano del detective: gli stessi metodi conducono fuori dal groviglio del mistero, sbrogliano la matassa delle ipotesi, riannodano i fili spezzati delle piste sbagliate, allontanano dai meandri senza uscita per portare finalmente al bandolo, alla certezza e alla verità.
Come è prevedibile, sono (anche) altri gli indizi decisivi, frammenti di cultura materiale con i quali l'autrice si diverte a depistare il lettore. Nel corso del terzo incontro tra Stefanos e Aristotele, poco dopo la prima prodikasia, Doody aggiunge un tratto eccentrico al detective di Stagira. Il maestro non fa che parlare di ceramica e di vasi dipinti, mostrando quelli in suo possesso e distinguendo minuziosamente tra diversi tipi di argilla impiegata, quella rossa attica e quella gialla corinzia. La pazienza di Stefanos è messa alla prova. L'irritazione produce un piccolo incidente, liberatorio sia sul piano dei rapporti interpersonali con il maestro sia sul piano dei progressi del plot: inavvertitamente il giovane lascia cadere a terra la coppa dalla quale sta bevendo il vino offertogli da Aristotele e ne è mortificato. La rassicurazione di Aristotele - «Non preoccuparti d'una simile inezia. Pitia ed io ne rompiamo anche noi. Quando cominciamo a sentirci annoiati ce le tiriamo addosso per tenerci alto lo spirito» [Doody 1999, 118] - e il suo gesto noncurante di gettare un frammento della coppa andata in frantumi nel fuoco, oltre a togliere Stefanos dall'imbarazzo, ricorda al giovane un dettaglio dimenticato, ovvero il frammento di coccio rinvenuto nel giardino della vittima con una lettera o un marchio a forma di croce.
Questo frammento iscritto, che Aristotele vorrebbe vedere, rimane nascosto a lungo sia per il filosofo sia per il lettore. Stefanos non ricorda dove lo ha nascosto, quando lo ritrova nelle stanze della madre lo intasca e lo dimentica ancora una volta. Solo al quarto incontro con il maestro dopo la seconda prodikasia il frammento di coccio, l'indizio epigrafico che Doody sfrutta abilmente contro il suo stesso lettore poco accorto, ricompare. Aristotele lo esamina, giudica che sia stato rotto poco prima del momento in cui è stato rinvenuto, valuta l'argilla rossa di cui è fatto stimandolo un buon pezzo di ceramica attica, identifica il segno iscritto non come un marchio di vasaio, ma come una porzione di lettera di una vera e propria iscrizione vascolare. Stefanos, invitato dal maestro, osserva di nuovo il segno che in precedenza aveva guardato solo distrattamente e, attraverso di lui, Doody offre un chiaro esempio di esame documentale, per quanto disorientante:
Guardai sopra la sua spalla oziosamente. Sulle prime non vidi nulla che non avessi visto prima. E poi vidi una lettera in quel segno, che aveva l'aria di far parte di una parola scritta, con le sue linee nitide e sicure; non un semplice marchio messo lì isolatamente. E la lettera era ovviamente la "fi" (Φ), che sovente viene tracciata in forma di croce […]. È l'iniziale di Filemone [Doody 1999, 170].
Stefanos legge una lettera phi, dichiarando al lettore che di solito questo segno viene inciso a forma di croce. Il tipografo addirittura riproduce sulla pagina due possibili fogge di quella piccola croce con le linee lievemente incurvate caratteristiche del tratto a pennello che la vernice nera produce sull'argilla. L'inganno di Doody: si può sapere non quale forma abbia il segno che compare sul coccio, ma solo che per Stefanos quel segno è l'iniziale fortemente incriminante del nome di suo cugino Filemone. Il giovane rimane ovviamente senza parole di fronte ad Aristotele che, parimenti, ma per ben diversa motivazione, tace e intasca il frammento.
È solo dopo la terza prodikasia e molte avventure intercorse che il frammento ricompare. Nel mezzo stanno la scoperta, in una delle uscite al Pireo di Stefanos travestito da bifolco, dell'esistenza di una moglie segreta e legittima di Filemone, Melissa, e di un possibile movente per il cugino, considerati i falliti tentativi di seduzione di Boutades nei confronti della bella Melissa e il suo successivo proposito di adottarne l'intero nucleo familiare; l'incontro tra Stefanos e Filemone nei pressi della fattoria di proprietà fuori di Atene e la fuga dell'esule verso la Macedonia. Stefanos è di nuovo da Aristotele, vorrebbe non rivelargli troppo circa le ultime notizie perché, per quanto incriminanti nei confronti di Filemone che dopo tutto era ad Atene il giorno del delitto, esse non hanno intaccato la sua fiducia nel cugino. Doody sottolinea l'interesse del detective per gli indizi materiali, in particolare per le tavolette in possesso di Melissa nelle quali sono registrate le intenzioni di Boutades. Stefanos dichiara apertamente al maestro che non gli consegnerebbe quelle tavolette neppure se fossero in suo possesso, ritenendo di avergli già dato fin troppo consegnandogli il frammento di coccio con sopra il nome di Filemone.
- Il nome di Filemone? - Aristotele sembrava realmente sbalordito.
- Bé… con una "fi"…
- Cosa? Sciocco che sei, non è una "fi". Hai la testa troppo piena di Filemone. Non vedi che è … ma lasciamo andare. Quello che ci occorre sono gli scritti in possesso di Melissa [Doody 1999, 296].
Aristotele furbescamente non ci rivela l'interpretazione del segno. Doody, moltiplicando il disorientamento, conferma implicitamente al lettore ciò che forse egli aveva già intuito, e cioè che un segno a croce può essere solo un chi (Χ).
Mentre il contenuto delle tavolette di Melissa è presto recuperato da Aristotele, il mistero dell'iscrizione vascolare è svelato solo più avanti, quasi in conclusione del romanzo, al culmine di una serie di eventi drammatici che coinvolgono il protagonista. Stefanos viene aggredito nell'oscurità e ridotto in fin di vita. Al diciassettesimo giorno dall'agguato, quando ormai è fuori pericolo, ma finge di lottare tra la vita e la morte per non rischiare ulteriormente con il suo ignoto aggressore, Doody gli conduce a casa, facendolo spostare straordinariamente dal Liceo, il suo medico, Aristotele. Poiché il maestro ha nel frattempo ideato il modo di vincere la causa ma manca di una ultima importante conferma, con l'aiuto del convalescente si reca di notte al cimitero del Ceramico, presso la stele di Boutades che il nipote Polignoto ha con ogni magnificenza fatto erigere qualche tempo prima. Divelta la stele, in un clima cupo e teso da scavo archeologico clandestino che prelude al colpo di scena, emergono dalla terra smossa i frammenti di un vaso di ceramica rossa dipinta. Ricomposti, formano una bella scena raffigurante Dioniso, un suonatore di flauto e un coro di satiri, con l'iscrizione del proprietario del vaso composta da Doody secondo la ben nota tipologia epigrafica dell'oggetto parlante: «Appartengo a Boutades» [Doody 1999, 359; Guarducci 19952, 456-495, partic., ad es., 483]. Manca un frammento, che corrisponde alla parte inferiore del beta iniziale del nome del proprietario/vittima, il frammento rinvenuto da Stefanos e a torto considerato da lui un phi (e dai lettori, che avevano prestato fede ai suoi occhi ed erano stati corretti da Aristotele, un chi). L'inganno di Doody è così duplice: per quanto paia aver rivelato la foggia del segno che compare sul coccio, l'autrice lo legge solo attraverso l'interpretazione due volte distorta di Stefanos (una croce; un phi), prima della rivelazione finale per bocca di Aristotele che illumina il giovane (un frammento di beta).
- Ora capisco - dissi tristemente. Non provavo alcun senso di trionfo, perché mi rendevo conto vagamente di ciò che tutto questo significava: avrei dovuto affrontare un terribile compito. E il senso dell'omicidio denunciato dai frammenti del vaso era orrendo. Non riuscivo a comprenderlo nemmeno adesso [Doody 1999, 359].
A pochi passi dalla risoluzione finale, l'acme di ogni buon giallo, la suspence è al sommo grado. In teoria il lettore ha in mano tutti gli elementi per arrivare, deduttivamente, alla conclusione. In pratica, Doody ha disseminato il percorso di alcuni indizi inutili o fuorvianti e nessun lettore si fermerà a questo punto a riflettere e a mettere insieme gli elementi. Piuttosto leggerà precipitosamente i capitoli finali. In modo alquanto teatrale, infatti, è solo in occasione del processo che l'autrice, attraverso i suoi personaggi, scopre lentamente e magistralmente le carte in tavola.
Stefanos, a tre giorni dal grande giorno, comincia a preparare la difesa con l'aiuto di Aristotele. Socraticamente, il maestro non gli confeziona un discorso già pronto (secondo la pratica ampiamente attestata nel V e IV secolo a.C. della logografia), ma cerca di far emergere dal suo assistito le argomentazioni migliori da presentare in tribunale, correggendone il contenuto, lo stile e finanche la mimica. Concluderò anch'io con il tribunale, lasciando nascosto, come si conviene, il finale del giallo con la sua rivelazione. Il tribunale competente per le cause di omicidio non è una delle sezioni del tribunale popolare ateniese (l'heliea), bensì uno dei quattro tribunali speciali esistenti ad Atene per il giudizio sui reati di sangue. Aristotele, quello vero, in un passo della Costituzione degli Ateniesi (57, 3), spiega:
I processi di omicidio e lesioni, se uno uccide o ferisce con premeditazione, hanno luogo nell'Areopago e così quelli per avvelenamento, se somministrando il veleno si è provocata la morte, e per incendio. Solo questi reati sono giudicati dall'Areopago [Santoni 1999, 127].
Il tribunale per la causa intentata da Polignoto contro Filemone che Stefanos dovrà, in quanto parente maschio più prossimo, esperire e nella quale dovrà difendere in prima persona il cugino, è l'Areopago, una veneranda istituzione ateniese composta da ex arconti che detenevano la carica di Areopagiti a vita [Rhodes 1981, 641-642; Wallace 1989, 94-121; Stroud 1993; Ostwald 1993; Hansen 2003, 419-429]. Attraverso l'Aristotele fittizio, Doody dà una rappresentazione assai austera della corte giudicante, composta per lo più da individui della stessa classe sociale della vittima Boutades e al contempo desiderosi di appurare la verità giudicando secondo giustizia. E là, sul colle di Ares, si compie la giustizia, secondo un rito processuale descritto con fedeltà e vividezza nelle sue fasi caratterizzanti, dai sacrifici propiziatorî ai giuramenti solenni delle due parti in causa, ai discorsi alterni delle parti cominciando dall'accusatore [Wallace 1989, 121-127].
In conclusione del romanzo, con i ringraziamenti ad Aristotele da parte dell'ormai assolto Stefanos, Doody parla attraverso il maestro, confermando la sua duplice passione per l'antichità storica e l'investigazione romanzesca e dando un senso al lavoro deduttivo dello storico di ogni epoca:
- Lasciamo perdere la gratitudine! - replicò Aristotele ammiccando. - È l'enigma che conta. Ne ero affascinato. Niente sarebbe bastato a tenermi lontano. È un'ottima cosa risalire alle fonti, esaminare i fatti [Doody 1999, 421].
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Note
[1]Doody 1996; trad. it Doody 2009.
[2]Parodiando il romanzo del II secolo d.C. e insieme prendendo di mira la storiografia a lui contemporanea, Luciano così conclude il proemio della sua Storia Vera, I, 4: «Scrivo dunque cose che non ho mai visto, che mai mi capitarono, né appresi da altri, che oltretutto non esistono assolutamente, né sono in alcun modo possibili. E perciò i lettori non mi devono assolutamente credere».
[3] Cf. l'intervista ufficiale all'autrice [http://www.nd.edu/~mdoody/], consultata il 4.1.2012.
[4] Uscì del resto una prima volta in versione italiana ridotta sul finire degli anni '70 proprio nella collana dei Gialli Mondadori.
[5] L'assedio e la distruzione di Tebe da parte dei soldati di Alessandro sono datate al 335 a.C. In modo incongruente Doody fa dire alla schiava di Melissa che l'avvenimento è accaduto otto anni prima quando Melissa era dodicenne [Doody 1999, 175] e non, come ci si aspetterebbe, tre anni prima.
[6] A parte la discrepanza di tipo cronologico connessa con gli eventi di Tebe, si potrebbe annoverare tra le imprecisioni storiche l'invocazione a Nettuno da parte di un marinaio udita da Stefanos in una taverna del Cantaro [Doody 1999, 106].
[7] Legge di Draconte: IG I3, 104 (cf. Dem., C. Mac., or. 43, 57); sulla δίκη φόνου e l'ἀπαγωγή: MacDowell 1963; Hansen 1976; Gagarin 1979; Hansen 1981; Gagarin 2007; Mirhady 2008; Westbrook 2008.
[8] Secondo una parte della dottrina, tuttavia, l'esistenza di una γραφὴ τραύματος ἐκ προνοίας proverebbe anche quella di una γραφὴ φόνου [Hansen 1976 e 1981].
[9] Sulla ricca collezione libraria di Aristotele, passata a Teofrasto, il suo successore alla guida del Liceo, e da costui lasciata in eredità a Neleo di Scepsi, cf. Diog. Laer. V, 52; Strabo 13, 1, 54 e Canfora 1989, 447-451.
[10] Queste competenze di Aristotele ritornano in quasi tutti i nove romanzi della serie; in Doody 2004, in particolare, le nozioni botaniche del filosofo riguardo ai veleni rimanderanno alle analoghe conoscenze di Holmes su oppio e belladonna.