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Vittorio Cappelli, "La Belle Époque italiana di Rio de Janeiro. Volti e storie dell’emigrazione meridionale nella modernità carioca"

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Vittorio Cappelli, “La Belle Époque italiana di Rio de Janeiro. Volti e storie dell’emigrazione meridionale nella modernità carioca”, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, 186 pp.

L’ultimo lavoro di Vittorio Cappelli è dedicato allo studio dell’emigrazione italiana a Rio de Janeiro al tempo della Belle Époque tropical; di fatto – come tradisce già il titolo – periodo assai propizio per gli immigrati italiani nella capitale carioca. Il testo è diviso in due parti principali: una prima (capp. 1-2) di “contestualizzazione”, l’altra, «più corposa» (capp. 3-5), dedicata all’analisi dei «tratti peculiari di questa esperienza migratoria» (159). Una terza breve sezione (capp. 5-6) fa il punto sulla stampa italiana di Rio de Janeiro e tira le fila del discorso.

In apertura l’autore percorre le vicende della migrazione italiana verso il Brasile a partire dai primi anni dell’Ottocento, attraverso una scrupolosa analisi dei rapporti tra Regno delle Due Sicilie e Brasile. In questo contesto emerge con forza la figura della principessa Teresa Cristina di Borbone, imperatrice del Brasile dal 1843 alla proclamazione della prima repubblica (1889). Poliglotta, amante del canto, del teatro e della danza – che promuove nella capitale carioca richiamando decine di «artisti italiani» – (17), appassionata di archeologia – fino a «chiedere al fratello Ferdinando oggetti di Pompei ed Ercolano in cambio di oggetti d’arte indigena brasiliana […], operazione culturale […] che avrà come risultato la formazione a Rio de Janeiro della maggiore collezione archeologica classica esistente in America Latina» (14-15) –, Teresa Cristina è la principale artefice a Rio della italianizzazione delle arti come «contraltare alla francofilia coltivata dalle élites brasiliane» (16), al punto tale che la sua attività può essere considerata il punto d’inizio dell’emigrazione di massa italiana in Brasile (23).

Nonostante, infatti, la netta prevalenza di migranti portoghesi (si veda la scrupolosa ricostruzione delle statistiche migratorie delle pp. 26 e ss.), la presenza italiana nello stato di Rio de Janeiro ha conosciuto un andamento altalenante ma costante e a tratti consistente – nella sola capitale da 1.738 che erano nel 1872, gli immigrati italiani raggiungono nel 1888 le 25.557 unità (25) –, giocando persino un ruolo decisivo per il paese. La Rio della Belle Époque «non è più la città coloniale della prima metà dell’Ottocento, e neppure la capitale orgogliosa e in crescita dell’impero di D. Pedro II (1841-1889), ma la più grande e ribollente capitale, moderna e complicatissima, del Brasile repubblicano, modellata principalmente dalla riforma urbana d’inizio Novecento» che «ha sganciato la città dal modello coloniale lusitano, sostituito dall’urbanistica francese, esemplificata e rappresentata da quella Parigi ch’era stata sventrata e rimodellata, con i suoi grandi boulevards, da Haussmann, in seguito alla rivoluzione del 1848» (28); e gli immigrati italiani di questa trasformazione urbana e “civilizzatrice” sono stati gli artefici: in primis Antonio Jannuzzi, «l’italiano che ha costruito mezza Rio» (129) e Pasquale Segreto «il ministro del divertimento» (133).

Il primo, originario di Fuscaldo – piccolo paese appollaiato «lungo la costa tirrenica cosentina» (59) – emigra a Rio nel 1874, dando il via a una catena migratoria familiare e collettiva diretta in America Latina e probabilmente in fuga dalla «crisi che la modernità cominciava a infliggere alla secolare tradizione degli scalpellini fuscaldesi». Seguito poco dopo dal fratello Giovanni, tra 1881 e 1884 dai fratelli minori Camillo e Francesco, e infine (1892) dal più giovane Michelangelo, Antonio già nel 1875 fonda la Sociedade Antonio Jannuzzi & Irmão, «per lavori edilizi, rilievi e misurazioni di terreni» (65), che nel giro di pochissimi anni diventa la protagonista della rapida trasformazione urbanistica di Rio progettata dal suo «sindaco-ingegnere», Pereira Passos. Tra le costruzioni più rappresentative di questo successo l’autore ricorda il Mohino Fluminense, «un imponente complesso industriale per la molitura del grano e di altri cereali», la Igreja Metodista costruita nel 1886 – «la prima chiesa non cattolica di Rio, costruita in uno stile fino ad allora riservato alle sole chiese cattoliche» (72) –, le lussuose residenze come il Palácio do Barão do Rio Negro, dal 1903 residenza estiva dei presidenti della Repubblica, e infine decine di edifici che si affacciano sulle nuove arterie cittadine (Avenida Central, poi Avenida Rio Branco, e Avenida Beira Mar). Un successo professionale ed economico che permetterà ad Antonio di entrare nel Clube de Engenharia (1883), timbro del suo trionfo e della sua ascesa sociale, e quindi di dedicarsi, a partire dal 1889, a un progetto che gli stava molto a cuore: la “costruzione di case igieniche per operai e proletari”. Partendo da una visione storico-politica ben precisa, che considerava il governo responsabile dello stato psico-fisico delle classe lavoratrici (89), e nonostante l’intenso impegno intellettuale ed economico profuso, il progetto fallì. Si tratta della prima débâcle degli Jannuzzi, alla quale si aggiungeranno negli anni il fallimento di un’impresa in Amazzonia, gravata dal tradimento di uno dei più stretti collaboratori, e nel 1917 la morte di 43 operai in seguito al crollo di una costruzione in corso d’opera. Il colpo di coda della parabola professionale e imprenditoriale è ancora dedicato alle case popolari: la Antonio Jannuzzi & Comp.– nuovo nome della ditta – deve ormai arrendersi alla crescente «favelizzazione della sempre più popolosa capitale del Brasile» (116) e a una situazione culturale profondamente mutata, nella quale «il desiderio della modernità comincia a coniugarsi con la ricerca di una dimensione “nazionale”» nel segno di «un incipiente brasilianismo» (118-119) che subordina le influenza europee.

Coprotagonista del volume è Pasquale Segreto, dal 1883 al 1920 «interprete-protagonista dell’inedita mobilità sociale e culturale che investe la capitale». Con le sue attività – «dalle case da gioco al teatro di varietà, dal cinema alla distribuzione di giornali e al giornalismo, passando disinvoltamente per o jogo do bicho» – egli non fece altro che rispondere al «delirio francofilo che dilagava tra Otto e Novecento» nella capitale carioca, regalando «al pubblico l’illusione di annusare l’atmosfera della belle époque parisienne» (148-149).

La sezione finale abbandona il registro precedente, per tracciare alcune considerazioni che rivelano, di fatto, il merito di questo libro: gettar luce sulla migrazione italiana a Rio de Janeiro – argomento «ingiustificabilmente trascurato dalla storiografia» (159) –, attraverso un approccio comparativo rispetto alle migrazioni italiane in Brasile e un apparato bibliografico così ricco da rendere questo testo un prezioso strumento per chiunque voglia inoltrarsi un po’ più in profondità nell’analisi dell’emigrazione italiana in Sud America.