Annacarla Valeriano, “Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista”, Roma, Donzelli, 2017, 220 pp.
Valeriano, dopo il premiato Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (Donzelli 2014), con il volume Malacarne torna sull’analisi della realtà manicomiale italiana, di nuovo a partire dalle carte del manicomio di Sant’Antonio Abate di Teramo – “uno dei più grandi e importanti dell’Italia centro-meridionale” (p. 10) – ma spostando questa volta l’attenzione dal periodo del “grande internamento manicomiale” – “compreso tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, nel corso del quale nuovi manicomi sono stati edificati su tutto il territorio nazionale” (p. IX) – al meno esplorato ventennio fascista e, soprattutto, concentrando gli sforzi sull’internamento femminile.
Il libro si compone di cinque capitoli, anticipati da una breve Introduzione e seguiti da una Postfazione (Eredità e trasformazioni) e un’Appendice (Scrivere la follia). L’obiettivo è esplicitato sin dalle prime pagine del volume e consiste non solo nel “restituire un volto, una storia e una voce a donne che tra le mura del manicomio sembrano non averne mai avute” ma soprattutto nel “raccontare in che modo la nostra società – scrive l’a. – ha saputo impiegare, nel corso degli anni, l’esclusione per farne un contenitore in cui depositare le proprie paure, le proprie insicurezze, i propri pregiudizi innescati dal contatto con l’«altro», la propria incapacità di affrontare le questioni legate alla gestione di elementi diversi che sembrano minacciare equilibri e valori” (pp. X-XI). Su queste premesse l’a. dà avvio (cap. 1) a una lunga osservazione della letteratura scientifica ottocentesca (Mantegazza, Lombroso, Ferrero, Möebius, Tonnini, ma anche Comte, Alfani e Weininger) che, impegnata nell’analisi delle “diverse manifestazioni della sessualità per indagare l’essenza interiore della natura femminile e isolare quelle devianze morali che […] potevano aprire la strada alla patologia mentale”, si rivela portatrice dei nodi teorici che saranno alla base delle successive concezioni culturali di epoca fascista: lo studio dell’uomo e della sua psiche a partire dall’analisi del suo corpo – eco di pericolosi smottamenti verso una dottrina delle differenze basata su credenze e pregiudizi – e la considerazione della sfera riproduttiva femminile come “luogo in cui ha preso forma, nel tempo, un’identità sessuale imbrigliata dalle aspettative sociali che hanno sempre delimitato i compiti della donna nell’accudimento del marito, dei figli e nell’appagamento dei bisogni altrui, a detrimento delle autonomie individuali” (pp. 25-26). L’a., quindi, si addentra verso il cuore nell’analisi (cap. 2) e, dopo alcuni cenni alla nazionalizzazione delle donne operata dal fascismo, lascia la parola a Pende e alle sue osservazioni circa la “donna-madre”, remissiva e instancabile proiezione del “desiderio patriarcale” e la “donna-crisi”, irrequieta e isterica destinataria dell’internamento psichiatrico che il regime riusciva a mettere in pratica grazie all’entourage immediato dei soggetti (familiari e medici condotti) che, agevolati dalla stretta normativa (Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza 1926 prima e Codice Rocco 1930 poi), si liberavano in questo modo degli elementi più scomodi o scandalosi (pp. 46-48). La funzione di controllo e repressione esercitata dal manicomio a difesa della società sfocia rapidamente nella funzione di difesa della razza, attraverso l’eugenetica – la cui storia in Italia è rapidamente tratteggiata in queste pagine –, che “si affiancava al sapere medico tradizionale nell’opera di bonifica sociale, aggiornando la psichiatria alle trasformazioni intervenute in seguito al conflitto mondiale” (cap. 3). In questa prospettiva (cap. 4) la psichiatria aveva il dovere di avviare un’azione di “profilassi nazionale” per individuare e neutralizzare le “nature inferiori”, nel caso delle donne rappresentate non solo dalle anomale fisiche e mentali ma anche dalle “succubi di uno sfacelo del senso morale”; lo studio seguita, poi, con una indagine delle terapie messe in campo per questa opera di “bonifica femminile” (malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock) che, agendo sulle basi somatiche al fine di attenuare definitivamente i disturbi, erano sì eredità del recente passato ma ora anche inserite nel rinnovato dibattito interno alla classe medica sempre meno incline al pessimismo terapeutico e sempre più orientato alla considerazione di una prospettiva di curabilità dei disturbi psichici. Le internate, racconta l’a. (cap. 5), scontavano l’incapacità di essere donne secondo un modello culturale, “la colpa di avere dei desideri, di voler resistere al di là dei ruoli tradizionali loro assegnati, di non essere capaci di sopportare il peso della miseria” e il disagio mentale era il solo modo per comunicare la loro presenza in una comunità che le voleva invisibili. Si tratta di isteriche, termine con cui i “medici fascisti” condensarono “tutti i caratteri più eversivi della devianza” guaribile attraverso l’isolamento e una “saggia cura persuasiva” (p. 133), di “violate” sottoposte ad “osservazione giudiziaria” (Codice Rocco 519, 2-3) per verificarne lo stato psico-fisico comunque difettoso e di vittime della guerra colte da stupore, malinconia e stati confusionali che la classe medica seguitò ad attribuire a predisposizioni e difetti familiari. L’Appendice, infine, restituisce le lettere di 36 ricoverate rinvenute all’interno dei loro fascicoli personali, che l’a. correda della diagnosi riportata in calce sulla cartella clinica e dei dati anagrafici delle autrici, per mostrare “il bisogno di affermare sé stesse, di dimostrare che, pur vivendo in un contesto che aveva azzerato ogni margine di autonomia, si era ancora in grado di essere persone dotate di capacità di pensiero” (p. 163).
Il volume si accoda al lungo e prezioso elenco di studi dedicati alla realtà manicomiale italiana attraverso l’uso prevalente delle cartelle cliniche di un solo nosocomio, e così facendo penalizza, a mio avviso, il potenziale che emerge nel lavoro svolto: trovo cioè una forzatura tra l’analisi storica, puntuale e documentata (generoso il ricorso alla bibliografia sul tema, il rinvio alla letteratura del tempo e lo spoglio curioso di moltissime riviste specialistiche), che occupa l’inizio di ciascun paragrafo e la proposizione di brani di cartelle cliniche di internate nel manicomio di Teramo posta a corredo del paragrafo e conferma dell’analisi via via discussa. L’a., come peraltro annuncia il titolo, mostra di andare ben oltre la lettura dei casi singoli e locali offrendo una vera e propria analisi, in un’ottica di genere, dell’istituzione manicomiale in Italia dall’Unità al fascismo e a dimostrazione di questo sta proprio il fatto che i capitoli meglio riusciti (per es. cap. III par. 2 e 3), a mio avviso, evitano di disperdersi nella citazione di molti casi locali e isolati. Il ricorso a fonti di molteplice natura, poi, e in particolare alla letteratura scientifica, ha il merito di suggerire la possibilità di ulteriori approfondimenti, qui già individuati, che potrebbero aiutare a cogliere meglio le molteplici contraddizioni del fascismo anche in tema di istituzione e cura psichiatrica; in particolare, a mio avviso, merita una riflessione accurata il rapporto tra sapere medico psichiatrico e avvento del fascismo, dunque un più approfondito studio sui profili e le categorie protagonisti proprio di questo periodo storico.