Storicamente. Laboratorio di storia

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Andrea Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico

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Il La Shoah e la cultura visuale, Andrea Minuz affronta il rapporto tra la Shoah e le immagini che si sono fatte carico di rappresentarla. E lo fa attingendo in modo personale a tre ambiti disciplinari: trauma Studies, storiografia sull’Olocausto, New Historicism. Il volume si sviluppa in cinque capitoli. Il primo è dedicato alle questioni di metodo e a una ricostruzione del passaggio dalla semi-invisibilità di Auschwitz negli anni Cinquanta (periodo di rimozione collettiva della barbarie nazista) alla sua onnipresenza nello spazio pubblico, con una particolare attenzione al ruolo del cinema in questo processo. Nel secondo capitolo è indagato il rapporto tra le immagini dei campi e la loro riappropriazione mediale da parte di vari attori sociali (artisti, intellettuali, registi ecc.), sullo sfondo del concetto di post-storia elaborato da Marianne Hirsch. Il terzo capitolo si occupa dell’americanizzazione dell’Olocausto mettendo in evidenza vari fenomeni cultuali: dai curricula di Holocaust Studies ai fattori retorico-linguistici legati alla tradizione spettacolare hollywoodiana (il genere dominante del melodramma con la sua capacità patogena e di  gestire l’immedesimazione spettatoriale) e socio-politici (processi di rivendicazione etnica, cultura della vittimizzazione, politiche pro-Israele). Nel quarto capitolo viene studiato il dibattito sulla rappresentabilità/irrapresentabilità dell’Olocausto che, nella sua forma più esemplare, ha visto contrapporsi in Francia Claude Claude Lanzmann e Georges Didi Huberman.  È qui verificata l’ipotesi teorica neo-storicista che stabilisce la rappresentabilità di un oggetto (nel nostro caso la Shoah) attraverso pratiche di negazione e demarcazione. Il quinto capitolo contiene un’analisi socio culturale  e testuale di Shindler’s List. Chiude il volume un’appendice sul progetto per il museo della Shoah di Roma.
Ecco le ragioni principali che rendono già da ora La Shoah e la cultura visuale un testo di riferimento nel campo degli studi sull’immagine e la memoria dell’Olocausto. In primo luogo il libro prende posizione sulla retorica dell’irrappresentabile della Shoah in modo più critico e coraggioso rispetto ad altri lavori italiani precedenti. In secondo luogo ci invita a considerare l’ossessione memoriale che la Shoah alimenta come un tipo di energia sociale difficilmente compatibile con le lamentazioni apocalittiche dei cantori della fine della Ragione Storica. Quando lo spazio pubblico è costantemente attraversato da segni e simboli del ricordo, diventa legittimo affermare che film come Shindler’s List rappresentano quanto meno “un ricambio radicale rispetto al disincanto postmoderno nei confronti della Storia” (p. 34). In terzo luogo il libro contiene un invito a considerare con meno scontato consenso le pratiche istituzionali della celebrazione e la canonica pedagogia del ricordo. Le commemorazioni spesso sostituiscono con protocolli sociali automatici il ben più difficile compito di interrogare la costruzione mediale dei ricordi. Minuz cita Paolo Jedlowski quando afferma che “non è mostrando cento film su Auschwitz che il ricordo acquista e mantiene la sua forza”: è piuttosto analizzando come il cinema (anche la fiction spettacolare) assieme alle esposizioni museali della Storia, “definiscano un orizzonte decisivo per pensare l’intreccio di pratiche narrative e pratiche della memoria” (p. 46). È in questo senso che l’autore offre uno contributo metodologico notevole studiando parallelamente alcuni film e le architetture memoriali, Shindler’s List e i musei contemporanei della Shoah, come dispositivi di esperienza molto simili nel proporre una simulazione narrativa del passato, dove a contare è l’idea di allestimento e messa in scena. Entrambi i dispositivi infatti rielaborano le nostre conoscenze del passato in chiave storica nonché affettiva. Ed entrambi evidenziano il lavoro di un’istanza narrativa in cui, sul modello del paradigma indiziario proposto da Carlo Ginzburg,  “un ruolo determinante è svolto dalla convocazione di “tracce”” (p. 49).
Infine va sottolineato il touch pragmatista che percorre il libro. In breve: conta poco l’essenza (dicibile o indicibile) della Shoah se non siamo in grado di descrivere l’uso di quelle immagini, le pratiche sociali in cui entrano e si ridefiniscono. L’ipotesi di fondo del volume è che l’ universo di discorso sulla Shoah sia attraversato da una frattura: da un lato una memoria centripeta che si fonda sul grande racconto della irrappresentabilità costitutiva dell’evento, dall’altro una cultura dell’Olocausto che si fonda su una movimento centrifugo e sul grande racconto della universalizzante lezione morale dell’evento stesso. I testi filmici occupano un segmento dello spazio pubblico diviso tra queste due istanze. Non ha senso studiarli in se stessi, ma neppure basta richiamarsi a un generico contesto. Bisogna inserirli all’interno di una serie culturale, in cui “si iscrivono tutto un insieme di pratiche commemorative, identitarie, politiche e pedagogiche” (p.45.): “Questa rete di scambi e di relazioni che si viene a costituire tra i mondi dell’immaginario e le pratiche dell’archivio, è l’ambito su cui dovremo continuare a lavorare e a interrogarci, parallelamente agli sviluppi della ricerca storica sui documenti” (p.79)