Possiamo ancora parlare di ceti medi, classe operaia, e utilizzare queste categorie per spiegare il presente del lavoro? O tutte queste definizioni vanno riconsiderate alla luce degli avvenuti
mutamenti della struttura produttiva globale?
Il testo in cui si raccolgono i saggi di Sergio Bologna scritti dopo la pubblicazione de I lavoratori autonomi di seconda generazione, dal quale lo separano dieci anni ricchi di
cambiamenti, prova a fornirci un punto di vista sul lavoro di oggi.
La tematica cara a Bologna, già professore di storia, costretto a reinventarsi, dopo il 1983, lavoratore autonomo come consulente di logistica, è quella di ripensare la condizione lavorativa delle
migliaia di persone che la sociologia non riesce ad includere in nessuna delle categorie di traduzione delle statistiche al fine di evitare il continuo equivoco che rischia di “cancellare” milioni
di lavoratori, per la gran parte della conoscenza, su cui poggia la struttura economica globale dal boom della new economy.
Un’estrema frammentazione in migliaia di piccole ditte individuali e un investimento sulla rendita improduttiva, con conseguente deficit di innovazione, è il risultato più evidente della
rivoluzione che il capitale italiano ha attuato negli ultimi anni. Bologna si interroga sul lavoro ad alto contenuto intellettuale per provare a capire come questo, che un tempo era direttamente
ricollegabile agli impieghi dei ceti medi, veda improvvisamente venire meno tale relazione.
Nei saggi della prima parte l’autore è impegnato a smentire la concezione che considera come una ditta il singolo lavoratore costretto ad aprire una partita IVA e come posto a tempo indeterminato
quello di un assunto in un’impresa con meno di 15 dipendenti. Una ditta, infatti, si caratterizza da una netta distinzione tra funzione finanziaria, direttiva ed esecutiva; un lavoro dipendente
“sicuro” è protetto da diritti e welfare.
L’altra preoccupazione è quella di recuperare l’aspetto umano di tali cambiamenti: come incidono i nuovi rapporti sulla soggettività di chi ogni giorno lavora realmente (Bologna critica la
definizione di «lavoro immateriale», immateriali semmai sono i prodotti di tale lavoro)? Vengono citate le migliaia di testimonianze scritte, reperibili sul web, di lavoratori che “subiscono” le
nuove forme di lavoro: l’autore vi vede l’impotenza di questo «ceto medio senza futuro», a cui è negata la possibilità di conflitto tradizionale patrimonio della classe operaia e anche l’accesso ai
consumi propri di una classe media; ma allo stesso tempo scorge il desiderio di narrazione, condivisone e organizzazione attraverso questo raccontarsi.
Portando ad esempio il caso Fiat, Bologna ci fa notare come l’azienda torinese, che, nel 1980, dopo un decennio di altissima conflittualità, riuscì ad imporsi sui mercati mondiali per la dinamicità
che la caratterizzava, dopo un ventennio di tregua sociale sia in crisi per la mancanza di innovazione che solo il conflitto è in grado di stimolare.
La seconda parte è dedicata alla storia dell’operaismo, di cui Bologna fu tra i protagonisti. Il saggio su Danilo Montaldi ribadisce l’importanza del contributo che il sociologo cremonese seppe
dare alla “nuova sinistra”, in particolare per i suoi rapporti con diverse esperienze internazionali. L’autore riprende indirettamente le tematiche trattate nella prima parte: Montaldi,
reinterpretando il bisogno di storia, riuscì a pensare una ricerca sui comunismi più che sul comunismo, impostando un’inchiesta tra i militanti di base, depositari diretti della
conoscenza della storia come conoscenza delle lotte operaie e dei movimenti politici che le hanno accompagnate, anche se distanti dall’ufficialità del Movimento Operaio. Pur ricordando i rifiuti di
Montaldi ad aderire alle riviste di matrice operaista, Bologna gli attribuisce il merito di aver saputo impostare quella forma di inchiesta che ancora oggi rimane alla base per una ripresa di
parola da parte di tutti quei soggetti costretti all’invisibilità e all’isolamento tipici delle fasi di rapidi cambiamenti imposti dal capitale.
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