Io sono essenzialmente uno studioso di letteratura. Per varie vicissitudini mi è però capitato, ormai molti anni fa, di lavorare a una mostra sul razzismo fascista (si chiamava La menzogna della razza) e di iniziare ad interrogarmi sullo sterminio e poi di dare una mano ad un Istituto della Resistenza, quello Provinciale di Bologna, a costruire un corso simile e diverso, rispetto a quello che avete seguito, sul problema della rappresentazione della Shoah.
Mi è stato chiesto allora, e mi viene chiesto anche oggi, di parlare del rapporto, se è possibile individuare un rapporto, tra la scrittura poetica e questa serie di eventi che mi prenderò la libertà di non discriminare al loro interno tra momenti diversi, come ha invece fatto molto bene Frediano Sessi distinguendo tra sterminio per lavoro, attraverso il campo di lavoro, e sterminio sistematico con le fucilazioni prima e con le camere a gas poi.
La prima cosa che mi sento in dovere di dire, quando affronto questo argomento, è cercare di spiegare il senso che può assumere per noi in quanto lettori, ma anche per chi di noi si occupa di divulgazione, di formazione e di insegnamento, che cosa può significare confrontarsi con la poesia che parla o che si misura con l'evento della Shoah. Perché effettivamente la poesia è, soprattutto in questi tempi, un genere letterario assai poco coltivato dai lettori: praticatissima da quasi tutti coloro che hanno una padronanza anche minima del linguaggio scritto, viene contemporaneamente del tutto trascurata sul versante della ricezione. Tutti vogliono "scrivere" la loro interiorità e spesso lo fanno affidandosi ai "versi", spesso ingenuissimi (ma è anche un'operazione in qualche modo necessaria per molti), mentre pochissimi hanno voglia di sottoporsi al difficile lavoro di decifrazione delle poesie altrui, specie quelle dei contemporanei.
Allora perché decidere di affrontare da lettori, e magari da insegnanti, questo genere letterario così, tutto sommato, poco amato e un po' astruso?
Non ho naturalmente risposte troppo chiare né precise: ho quella che è forse una sensazione o un'intuizione. Io credo che uno dei problemi più grandi che può vivere chi si trova a cercare di comunicare, di insegnare la Shoah ad un pubblico giovane (ma anche meno giovane) è quello non tanto di trasmettere la ricostruzione narrativa, storico-documentaria, testimoniale o storica degli eventi, né è tanto avere il sussidio dei media più raffinati (prima c'era qualche fotografia, adesso ci sono alcuni filmati, ci sono tantissimi film, ci sono documentari, ci sono Cd-Rom). Il problema non è infatti far vedere che questo è stato, il problema è far sentire la gravità di ciò che è avvenuto, far provare dei sentimenti di fronte alla narrazione di questi eventi.
Perché ci si trova di fronte a degli eventi così terrificanti che in qualche modo tendono a raschiare via in prima battuta nello spettatore la possibilità di una vera risposta emozionale ed etica. In prima battuta (l'ho sentito dire dai pedagogisti), soprattutto negli adolescenti, c'è il rifiuto di un orrore che è così forte da mettere in discussione la propria aspirazione alla vitalità, il proprio legittimo bisogno di felicità. Allora si crea quasi una barriera, uno scarto, una sordità, che è peraltro una reazione del tutto normale.
Io credo che, forse, attraverso alcune poesie sulla Shoah che non sono tanto testimonianza (spesso sono poesie scritte da personaggi che hanno avuto una relazione abbastanza labile, marginale con gli eventi della Shoah), si può provare a far sentire delle emozioni di fronte a questi eventi, delle emozioni profondissime consegnate ad un genere che cerca spesso di dare all'emotività una sua consistenza, una sua concrezione in figure, una sua capacità di "passare" e che spesso trasmette soprattutto questo: una sorta di cristallizzazione di emozioni, oppure di problemi morali sentiti individualmente.
Come giustamente diceva prima Frediano Sessi, c'è una dialettica del capire e del patire di fronte a questi eventi; naturalmente è impossibile provare, per fortuna, quello che è stato provato da chi è stato sottoposto a queste devastazioni, però è possibile cercare di recuperare una possibilità di sentire una particella anche minima di tutto questo e di coglierne la profonda insensatezza, e quindi ricavarne un senso, un senso che è la comprensione di quanto questi fatti potessero essere assurdi. Ricavare un senso da quegli eventi: questo è il primo problema. Alcune poesie quindi ci possono forse aiutare a sentire e a far sentire sentimenti e enigmi morali di fronte all'evento della Shoah.
Naturalmente il secondo grande problema che ci si pone deriva dalle riserve che si hanno, solitamente, nei confronti del genere letterario "poesia" come un genere dove in qualche modo, proprio perché la parola si propone di per se stessa, si mette in scena, finisce per esporsi anche al rischio di apparire qualcosa di gratuito, come un mero arabesco decorativo. Molta parte della riflessione secondo-novecentesca nell'ambito dell'estetica ha ruotato intorno ad una famosa affermazione di Adorno che, proprio rifiutando questo carattere di arabesco gratuito della poesia, scrisse una frase famosa: «La critica della cultura si trova dinanzi all'ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». Non mi soffermerò sulla serie di complesse implicazioni filosofiche dell'affermazione di Adorno ma proverò a creare, per entrare dentro questo problema, un dialogo mancato.
Il poeta forse più importante che si sia mai confrontato con la Shoah, portando questo evento dentro la propria più profonda riflessione sul fare poesia, l'ebreo rumeno Paul Celan, è famoso anche per un episodio che lo vide protagonista di un breve incontro con il filosofo tedesco, che fu anche sostenitore del nazismo, Martin Heidegger. Un dialogo in cui - lo sappiamo dalle testimonianze dei contemporanei e da una poesia molto significativa che Celan scrisse dopo - Celan si aspettava di avere, da questo filosofo che tanto aveva riflettuto sulla lingua e sul problema del linguaggio, una parola sull'orrore dello sterminio e una parola sul perché avesse aderito al nazismo; ma questa parola non gli venne. È un argomento molto di moda; Günther Grass in un suo bellissimo romanzo recente, Il mio secolo, ha anche preso in giro la voga invalsa tra gli intellettuali di rievocare e interrogare criticamente questo incontro mancato tra Celan e Heidegger. Noi però non parleremo di questo celebre incontro mancato ma di un altro, poco noto -l'ho scoperto solo recentemente leggendo Sotto il tiro di presagi, la raccolta italiana delle poesie inedite di Celan- che è l' incontro mancato, forse molto più significativo, tra Celan e Adorno. Adorno scrisse questa frase famosa quando Celan aveva già pubblicato la sua poesia più celebre, forse perché la più comprensibile, sulla Shoah: Fuga di morte (Todesfuge). Nella Germania di quegli anni molti critici letterari e filosofi seguivano, o cercavano di sviluppare l'estetica di Adorno: uno di loro scrisse un articolo sulla barbarie dello scrivere poesie dopo Auschwitz, mettendo in discussione la legittimità da parte di Celan di avere scritto questa poesia in cui, in qualche modo (è difficile fare una valutazione seria a questo riguardo), alcuni frammenti fattuali, insieme a figure emblematiche degli eventi consumatisi nei campi di concentramento e di sterminio, vengono posti in una sorta di girandola evocativa, come in una fuga musicale, quindi dentro una struttura che sarebbe, tra virgolette, "bella". Ecco: a Celan fu contestata questa "bellezza". Ma in una sua poesia, che non è stata mai pubblicata e che quindi esce postuma, troviamo la risposta, e la non-risposta, del poeta a questa accusa. Teniamo presente che per tutta la durata della sua vita Celan tentò di stabilire, attraverso la sua scrittura, un dialogo con sua madre, che era stata annientata nella Shoah (la biografia ci potrebbe raccontare che, per un'incomprensione di cui non sappiamo poi molto, anche se Celan aveva approntato un rifugio segreto per far scampare sé e la sua famiglia alle retate naziste, i suoi genitori non vollero nascondersi, lui si nascose, si salvò e loro furono annientati, tutta la vita cercò in forme diverse, con percorsi diversissimi, attraverso la sua poesia, quasi di ripristinare un contatto). Di fronte a questa accusa di complicità con la barbarie per avere scritto le sue poesie su Auschwitz, Celan scrive così:
Madre, madre
Strappata dall'aria
Strappata dalla terra.
Giù
Su
trascinata.
Ai coltelli ti consegnano scrivendo,
con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con
il pennarello, sui tavoli di teck, anti-
restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire
di nuovo e giustamente,
da maestro tedesco,
un garbuglio, non
a - bisso ma
a - dorno
scrivendo,
i reci-divi,
consegnano
te
ai
coltelli.
Naturalmente vi ho letto da una traduzione italiana (l'ottima traduzione di Michele Ranchetti), che non può restituire che una parte delle ricchissime stratificazioni di significati raccolte in queste parole frantumate e contorte. Peraltro è difficile anche entrare nei giochi di parole che forse avete già colto: c'è n'è uno col nome di Theodor Wiesengrund Adorno, che nell'originale tedesco diventa ab - gründig e ab - wiesen ed è stato tradotto con a-bisso e a-dorno ma vorrebbe dire anche altro. Ma si riesce a cogliere abbastanza agevolmente il senso complessivo: secondo Celan, nel momento in cui, seguendo Adorno, si vieta la poesia in nome di una teoria particolarmente nobile ma molto astratta, molto costruita a tavolino dentro il recinto anche confortevole della riflessione filosofica da accademia, proprio attraverso questo interdetto, che è «protocollare», meccanico, inumano, viene reimpressa nel mondo la morte atroce di sua madre.
Questa poesia è forse una delle più straordinarie risposte al celebre interdetto di Adorno. È un peccato che quest'ultimo non abbia potuto conoscerla, però è certo che, come se nel tempo la sua evoluzione interiore avesse seguito i problemi denunciati dal grido poetico di Celan, Adorno cambiò idea. E' per questo che parlo di un dialogo a distanza che è interessante, importante, anche se nella realtà fattuale non ci fu. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, fu di fronte alla straordinaria potenza evocativa -non argomentativa, non dialogica, non narrativa- della scrittura di Celan che Adorno, nell'ultima parte della sua vita, si rese conto di avere sbagliato, di dover aggiustare il tiro. Intanto iniziò a riflettere sulla poesia di Celan: voleva dedicargli un saggio, vi sono degli importanti accenni a Celan tra i suoi appunti. Nella Dialettica negativa scrisse: «Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia». E poi scrisse ancora «L'arte che non è più affatto possibile se non riflessa, cioè presa se non come un problema, deve da sé rinunciare alla serenità. E la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti, il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un'arte serena».
Questo può servire, anche per poco, per aprirci ad un altro grande nucleo problematico che molta filosofia contemporanea ha interrogato e che anche la scrittura letteraria ha saputo interrogare a suo modo, esprimendone la drammaticità nel proprio tessuto verbale. Vale a dire il rapporto profondo che è intercorso nel Novecento tra gli orrori, i lati oscuri della nostra civiltà moderna, e l'espressione verbale, come luogo di manifestazione di quella che lo stesso Adorno chiamava «la vita offesa». E' difficile stabilire un atto di nascita della poesia moderna (come è difficile stabilire un atto di nascita di tutti quegli eventi che stanno alla scaturigine dei grandi processi storici), però è sicuro che un momento importante per la trasformazione delle modalità della scrittura letteraria, e poetica in particolare, fu la prima guerra mondiale. Allora, per la prima volta, a molta parte dei cittadini occidentali si manifestò l'enorme potenzialità distruttiva dell'uso industriale della tecnica, che rivelava la sua capacità di essere perversamente usata per la distruzione di massa di individui. Penso a tre grandi poeti del primo '900, di tre paesi diversi, e a queste lacerazioni profonde, questi choc che l'esperienza della guerra produsse nella psiche degli individui che si trovavano in quelle trincee e che hanno anche impresso delle significative lacerazioni nelle loro parole. Penso alla poesia del primo Ungaretti, per l'Italia, a quella di Georg Trakl per i paesi in lingua tedesca (ma è uno dei molti che potrei citare) e a quella di Guillaume Apollinaire per la Francia. Quindi, se non l'atto di nascita della poesia moderna (che tendenzialmente la critica e la storiografia letteraria collocano più indietro, nell'età del simbolismo), certo un momento importante fu proprio questa folgorante e dolorosa scoperta delle potenzialità distruttive insite in quella che fino allora si credeva essere la civiltà. E di fronte a quella, la scoperta che una delle manifestazioni maggiori della civiltà, la comunicazione linguistica, poteva entrare in crisi, in una crisi radicale, di fronte alla necessità di esprimere questa perdita di senso dell'esperienza. Un altro celebre filosofo, Walter Benjamin, ha scritto delle pagine molto importanti a questo proposito: di fronte alla vita in trincea viene radicalmente sovvertita l'esperienza dei singoli. La possibilità di esperire eventi nella loro successione temporale armonica, la ciclicità del giorno e della notte («le notti chiare erano tutte un'alba» ci ricorda Montale, segnalando il collasso di uno dei punti di riferimento più elementari nella nostra esperienza, l'alternarsi di luce e buio), la possibilità stessa di trasmettere l'esperienza individuale, tutto questo si disgrega. E tra tutte le forme letterarie è stata la parola poetica quella che più ha saputo mettere in scena questa crisi radicale, questo sfaldarsi dell'esperienza. Ora, proprio nella figura di Paul Celan si è dato al massimo grado il tentativo di portare nella parola questo problema d'una esperienza tragicamente, violentemente destituita di significato ad opera di un uso industriale di quelle tecniche che si credevano tra i frutti più alti della civiltà. Un problema quindi che già, in qualche modo, la poesia novecentesca aveva affrontato a proposito di un evento, la guerra mondiale, che è certo un processo differente ma che, badiamo bene, presenta anche delle inquietanti affinità, delle «somiglianze di famiglia», direbbe Wittgenstein, con quello che sarà la Shoah. Caratteristica inquietante dello sterminio degli Ebrei (ce lo ha mostrato il sociologo Zygmunt Bauman) è stata infatti la capacità di utilizzare i più raffinati strumenti della società contemporanea, la tecnologia industriale, le burocrazie e, sappiamo da ricerche recentissime abbastanza sconvolgenti, persino la tecnologia informatica, ai fini della distruzione sistematica di esseri umani.
Allora Celan, più di tanti altri, si è misurato, ed ha messo in scena nella sua parola il problema dell'insensatezza degli eventi su cui si è trovato a meditare per tutta la vita. Lui, in un famoso discorso pronunciato di fronte al pubblico di un importante premio letterario, il premio Büchner, che gli era stato conferito in Germania, disse (poi pubblicò questo discorso): «Ogni poesia ha un suo luogo di orientamento, un suo meridiano, cioè un punto a partire dal quale stabilisce le coordinate del proprio esistere nel mondo». Lui non lo dice espressamente, ma è chiaro che il suo meridiano è stata l'esperienza tragica dell'annullamento dei genitori e quindi l'essere coinvolto nella costellazione di eventi della Shoah.
Possiamo a questo punto abbandonare i cieli della teoria, o le generalizzazioni, e provare a confrontarci direttamente con alcune delle sue poesie, quindi cercare anche altrove risposte diverse. Ma sempre assumendo a premessa che le risposte che dà la poesia sono delle risposte in cui, da una parte, viene messa in discussione la parola, il senso del parlare (una delle tante definizioni che possiamo dare della poesia del '900 potrebbe essere «l'atto di mettere in scena il parlare interrogandosi sul suo senso») e dall'altra sono contenute molte diverse soluzioni possibili, o compossibili, che ci restituiscono tante concrezioni morali, tanti profili o "stili" in cui vengono modulati l'eticità e il sentire. Proverò a leggervi la poesia più famosa di Celan, cui vi avevo accennato, Fuga di morte; naturalmente la leggerò rigorosamente in italiano:
Nero latte dell'alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza.
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura e lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell'aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell'aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
I tuoi capelli d'oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith.
Potremmo dire molte cose che hanno a che fare con le tecniche letterarie impiegate in questo scritto, potremmo dire che Celan fa proprie le proposte del surrealismo, potremmo dire che ci sono molti elementi espressionisti e però, forse, quello che più può premerci non è tanto ragionare su quella che è la lettura consueta (e che comunque è un momento necessario per la comprensione di questo testo), ma è ragionare su come Celan prende spezzoni di quelli che sappiamo essere frammenti minimi dell'esperienza concreta del campo di lavoro e dello sterminio, e assume questi spezzoni di realtà come materiale da costruzione per un percorso dentro questo orrore che mette in scena tutti i principali attori, l'orrore e la responsabilità dei carnefici.
Da una parte abbiamo, in primo luogo naturalmente, il tentativo di immedesimarsi nelle vittime, un immedesimarsi nelle vittime che però non è un'immedesimazione, come dire, "mimetica", non è il tentativo di raccontare cosa possono aver provato, ma è la resa in una figurazione verbale astratta di questa assurdità dolorosa. Ciò che è il fluido della vita, il latte, e insieme il colore luminoso del giorno, si trasfigura in questo ossimoro agghiacciante, diventa nero, diventa figura della morte, della notte, dell'estinzione. E' un tentativo di far sentire qualcosa che non si può immaginare, perchè è un assurdo, come appunto un ossimoro esperito nella realtà. E poi c'è il confronto con uno degli elementi più inquietanti della storia della Shoah: la cultura umanistica degli assassini. Questo anonimo carnefice da una parte compie un'operazione mostruoso-stregonesca: gioca con i serpenti, dall'altra scrive, e scrive lettere d'amore. Scrive lettere d'amore ad una figura che è letterario-umanistica per eccellenza: Margarete, una delle protagoniste del Faust di Goethe. I capelli d'oro sono insieme la possibilità del carnefice di provare sentimenti profondi, amorosi, positivi e contemporaneamente di essere legato ad una tradizione culturale di esaltazione dell'umano -perché il Faust di Goethe è uno dei più alti prodotti del grande umanesimo tedesco dell'800. La Margarete dai capelli d'oro viene contrapposta a una figura del Cantico dei Cantici, Sulamith, che è quindi insieme espressione della tradizione culturale ebraica ed emblema di un popolo, dentro a cui si materializza l'annichilimento. La poesia si chiude, dopo tutta questa fuga di frammenti di realtà che si inseguono nella loro contraddizione continua, sulla giustapposizione tragica di questa simbiosi ebraico-tedesca che è diventata un "umanesimo" che annulla, stermina: i capelli d'oro di Margarete sono posti accanto all'incenerimento di quelli di Sulamith, accanto alla distruzione totale riservata alle donne ebree. Io non credo si possa dire che questa è una poesia che punta a estetizzare l'orrore, credo quindi che avessero torto coloro che così accusavano Celan, innescando una crisi dentro di lui. Comunque lo stesso Celan, anche di fronte alla possibilità che questa poesia diventasse una sorta di ritornello autoassolutorio, una poesia da recitare ritualmente al pubblico non più per provocare scandalo ed indignazione ma per assolvere un compito, ne prese gradualmente distanza. La sua evoluzione letteraria successiva è infatti tutta posta all'insegna, invece, dell'esplorazione dell'insufficienza della parola.
Tutta la poesia di Celan è adesso oggetto di una sterminata produzione esegetica per certi versi davvero inquietante: le sue sono poesie quasi tutte difficilissime da comprendere e sembra che buona parte degli studiosi di letteratura ed estetica abbiano deciso che loro compito è cercare di capirle. In parte è un'operazione anche doverosa, forse è il tentativo di confrontarsi profondamente, dentro la letteratura, con l'evento della Shoah e di cercare, attraverso il percorso esemplare di Celan, di darne un'interpretazione non solo storica o filosofica ma anche, per così dire, etico-estetica. D'altra parte c'è anche un poco un gusto, forse, della decifrazione di enigmi che spesso coglie chi si occupa di letteratura, specie contemporanea; quindi è difficile da parte mia, adesso, suggerirvi un percorso generale. Io, prima di venire qui, sono andato a rileggermi un po' di letteratura critica sulla scrittura di Celan e davvero è difficile trovarvi dei critici concordi in qualcosa -se non sulla totale difficoltà dei testi che cercano di interpretrare. Però a me sembra che noi possiamo imparare qualcosa anche da qualche poesia che mette in scena la problematicità totale della parola: una di queste, una delle più chiare per noi (o forse una delle più chiare per me, ma posso anche sbagliarmi totalmente nell'interpretazione) è una poesia che si intitola Tübingen, gennaio. Celan (ce lo ha spiegato in modo molto intelligente un critico suo amico, che poi fece la stessa fine tragica che ha fatto lui: Peter Szondi, morto suicida) costruiva le sue poesie montando minimi tasselli di eventi, spesso esperienze personali, come a comporre dei collage di vita. Qui si confronta con la storia della follia di un altro grande poeta tedesco, Hölderlin, che passò l'ultima parte della sua vita in una torre, ospitato, accudito da una famiglia di falegnami, scrivendo delle poesie di delirio e farfugliando parole incomprensibili. Credo che Celan porti questo delirio come emblema o simbolo dell'insufficienza della parola di fronte a questi tempi, segnati dall'orrore della Shoah:
Alla cecità occhi
persuasi
Il loro - un
Enigma scaturisce
da purezza -, il loro
ricordo di
galleggianti hölderliniane torri in un
volo di gabbiani.
Visite di falegnami affogati con
Queste
Sommerse parole:
Venisse,
venisse un uomo,
venisse un uomo al mondo, oggi,
con la barba di luce dei
patriarchi dovrebbe
se di questo tempo
parlasse do-
vrebbe
solo balbettare e balbettare,
continua-, continua-
mentete.
(«Pallaksch. Pallaksch»)
Le ultime due parole sono, come potete immaginare, una citazione delle parole farfugliate da Hölderlin, in cui forse si può riconoscere una storpiatura di Pallade, appellativo della dea Atena. La poesia ha un inizio molto difficile, in cui una figurazione ossessivamente ripetuta in Celan, gli occhi, sono difficilmente attribuibili ad un attore preciso: di chi sono questi «occhi persuasi» «alla cecità»? Sono di Celan che guarda, sono di Hölderlin, sono di un altro inconoscibile personaggio? Preludono però ad una affermazione: «Se venisse un uomo di enorme saggezza» (la saggezza qui viene rappresentata simbolicamente con l'immagine della tradizione mistico-ebraica: la barba di luce dei patriarchi), «se parlasse di questo tempo» (ed è ovvio che quando si dice «parlasse di questo tempo», vuol dire parlare di questo tempo segnato, ferito per sempre da questo evento irrevocabile della Shoah, questo evento che lo mette in discussione, che ne mette in discussione radicalmente la possibilità di pensare la civiltà in modo innocente) «dovrebbe solo balbettare». Dopo, la poesia (in tedesco si vede meglio), decide di sprofondare nel balbettio e chiudersi con la citazione di una parola senza senso. Naturalmente, è un problema di molta poesia novecentesca ed è il problema dei lettori di Celan, scegliere di mettere in scena nella parola poetica la sua impossibilità, o la sua enorme difficoltà a svolgere il suo compito, è in qualche modo sottrarsi alla funzione comunicativa del linguaggio, è prendere il linguaggio e adoperarlo come qualcosa che mette in scena la propria negazione: non più lingua ma un gesto, uno sfregio. E' come certa arte contemporanea, adesso anche, in parte, entrata in crisi, in cui non si crea un'opera ma si fa un'azione, si compie una performance, è qualche cosa che mette in discussione il codice, la possibilità di comunicare e quindi mette in discussione radicalmente la possibilità stessa di trasmettere alcunché, se non il proprio esistere nel paradosso, il proprio proporsi come paradosso.
Questa è stata la scelta di Celan. Un grande scrittore che ha passato la vita a fare i conti con la propria esperienza di anti-vita nel campo di concentramento e con i problemi morali posti dallo sterminio, Primo Levi, scrisse un saggio secondo il quale la poesia di Celan, in questo suo consegnarsi al balbettio, era in qualche modo uno sprofondare nel nulla, era un arrendersi alla morte, proprio a causa del suo rifiutarsi a qualsiasi tipo di comunicazione. Io credo che sia significativo, e quindi possa essere utile e interessante per noi, misurarci con questo rifiuto. Io sono rimasto molto colpito da quella poesia di Celan su Adorno, credo che per l'intellettuale che si confronta con questi problemi sul suo tavolino, che sia di tek, di mogano o di formica, è molto più facile elaborare brillanti soluzioni astratte che entrare concretamente in contatto con l'incommensurabile profondità di un dolore altrui e darne conto in modo non superficiale. Per questo ho molto rispetto per questa scelta di Celan che, secondo me, è una scelta di scrittura che ci interroga, che mette in discussione noi, la nostra possibilità stessa di capire.
Comunque non è detto che l'unica possibilità di scrittura poetica intorno alla Shoah sia la collazione dei precipitati verbali del dolore: con Primo Levi abbiamo, si può dire, una scelta diversa, anche coraggiosamente controcorrente, calcolando quello che era la poesia negli anni in cui Levi scriveva questa apologia del comunicare. Poi, peraltro, lo stesso Levi ne I sommersi e i salvati si è confrontato con l'impossibilità di dar conto verbalmente di una serie di esperienze estreme, come ad esempio quella della degradazione totale, dell'espulsione dall'umano di quei prigionieri che venivano chiamati dagli altri con l'appellativo di "musulmano". E a quel punto anche lui, pur nel suo difendere la necessità della comunicazione come forma di resistenza all'orrore, come tentativo continuo di comprendere, di ricavare un senso (fosse un senso morale o un senso di testimonianza, di trasmissibilità di qualcosa che deve essere ricordato perché non si ripeta), ha visto che esiste un'area cieca che in qualche modo sta al di fuori di questa possibilità del comunicare.
Io credo che anche mettere a confronto, l'una di fianco all'altra, le esperienze diverse, parallele, di Celan e di Levi, possa essere molto utile e significativo per noi. E credo che, da un punto di vista orientato sul nesso tra letteratura ed etica, la poesia più nota di Primo Levi (la "sua" Fuga di morte), quella che è stata collocata in apertura di Se questo è un uomo, sia una delle poesie più importanti del novecento letterario italiano. E' una poesia importantissima perché sceglie di ricavare un senso di fronte a questo orrore e sceglie di confrontarsi con un genere "teoretico" squalificatissimo. Un genere che è stato sistematicamente messo tra parentesi o attaccato frontalmente da tanto pensiero di matrice nichilista (che ha avuto molta fortuna a partire dagli anni '70 e ne ha ancora adesso), cioè con il genere della riflessione morale e dell'istituzione razionale di imperativi etici:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per la via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Di fronte alla difficoltà di fondare degli imperativi morali, specie dopo le riflessioni imprescindibili di Nietszche, questa poesia ci insegna molto. Essa parte dalla considerazione di un orrore, dalla necessità di metterci di fronte, nella nostra tutto sommato tranquilla quotidianità, con un orrore che mette in discussione totalmente le nostre nozioni minime: l'idea di umanità e la possibilità di individuare un soggetto. Di fronte a questo orrore ci impone una forma di memoria che è fondata sulla necessità di non chiudere gli occhi, di non rimuovere questo male assoluto o estremo: un'ovvietà? Non tanto, visto quanti in realtà lo hanno fatto (e continuano a farlo dinanzi ad altri mali, magari minori, ma non certo trascurabili). Naturalmente, nell'atto di scrivere questa poesia, che è una sorta di preghiera o ingiunzionee profetica laica (Rita Levi Montalcini disse una volta in una intervista che lei leggeva continuamente i libri di Primo Levi perché erano per lei una sorta di grande breviaro laico o di Bibbia senza religione, una serie di scritti da cui ricavare degli insegnamenti morali), non è che Primo Levi non sentisse i problemi che sentivano i poeti primo-novecenteschi o Celan o tanti altri di fronte alla perdita di significatività del discorso logico-razionale. Ma lui, per cercare di ridare nitore e forza a questa parola che si è appannata, decide di recuperare la tradizione letteraria più antica: la Bibbia, certi classici latini e greci, quindi recupera le radici profonde dell'umanesimo occidentale. Quell'umanesimo che era stato radicalmente messo in discussione dalla Shoah, che Celan mette in scena problematicamente nei capelli d'oro di Margarete, ma che si rende di nuovo possibile come risposta a questo orrore. Perché l'idea di uomo come di un vivente che ha il diritto di non essere così profondamente degradato e offeso ritrova forza e senso proprio dopo questo orrore; ecco quindi che si recupera e ripensa, nel linguaggio, anche la possibilità di elaborare un valore che deve essere comunicabile, trasmissibile.
Naturalmente ci sarebbero tante altre cose da dire, partendo non tanto dalle mie riflessioni quanto dalle parole di questi poeti, ma mi piacerebbe concludere ragionando sui versi, forse meno conosciuti, di un grande poeta italiano che si è confrontato in questo caso, credo, quasi totalmente dall'esterno, con il problema morale della Shoah in due poesie notevolissime, che si chiamano una La pietà ingiusta e l'altra Nel vero anno zero (ma leggerò solamente la prima). Con Vittorio Sereni entriamo dunque veramente nello spazio del dopo. Sono poesie scritte intorno agli anni '60, ma in qualche modo si pongono dei problemi che sono gli stessi che ci poniamo noi oggi, sia nelle discussioni quotidiane sia nel dibattito con certa propaganda giornalistica sulla necessità di chiudere la partita una volta per tutte (penso al libro di Sergio Romano, per esempio) o di smetterla d'insistere unilateralmente su questo orrore e vedere anche altre facce della medaglia. Vittorio Sereni ha una scritura molto diversa sia da quella di Celan che da quella di Levi, non sceglie la via delle rarefazioni verbali però non sceglie neanche quella di una argomentazione logico-comunicativa piana. Costruisce piuttosto delle strisce discorsive che sono quasi il montaggio cinematografico di momenti di esperienze sue e delle sue riflessioni, che si allacciano in un continuo interscambio tra evento, esplorazione del senso morale di questo evento e messa in scena della sua percezione. Visioni quasi liriche le sue, ma significative perché rimettono in discussione tutto quello che è stato detto e mostrato fino a questo momento. Questa poesia è ambientata in una sorta di trattativa di affari: il poeta narrante deve siglare un accordo commerciale in territorio francese, forse in Belgio, con un personaggio che è stato un ufficiale dell'esercito tedesco, e ascolta le esortazioni a dimenticare, a non pensarci troppo, pronunciate dai suoi interlocutori, probabilmente dei colleghi. Lui si trova di fronte a questa figura che lo inquieta, che diventa in qualche modo il simbolo, l'incarnazione di quello che è stato l'esercito tedesco che ha sistematicamente reso possibile lo sterminio e che contemporaneamente era fatto da uomini qualunque, da giovani reclute che hanno, in certe zone, patito terribili esperienze di prigionia, che, anche loro, come dire, chiamano una compassione. La poesia si confronta con questa impossibile giustapposizione di dolori che non è giusto comparare, né tantomeno mettere sullo stesso piano. Leggiamo La pietà ingiusta:
Mi prendono da parte, mi catechizzano:
il faut
faire attention, vous savez.
Et surtout si l'affaire
doit marcher jusqu'au bout,
ne causez pas de ces choses bien passées.
Il paraît qu'il en fut un, un SS
qu'il a été même dans l'armée
quoique pas allemand.
Ecco in cosa erano
forza e calma sospette
l'abnegazione nel lavoro, la
cura del particolare, la serietà
a ogni costo, fino in fondo.
Intorno c'è aria di niente, mani
sulla tavola, armi (chi le avesse)
al guardaroba: solo adesso
si comincia a capire - e l'affare un pretesto
il pranzo un trucco, una messinscena
benché non esistano dubbi sulle portate
benché non ci siano orripilanti cataste sulla tavola né sotto
- ma in cucina, chi può dirlo?,
ah le dotte manipolazioni di cui furono capaci,
matasse, matassine innocue, oro a scaglie
da coprirne un deserto di sale, nubi d'anime
esalanti-esulanti da camini
con la piena dolcezza degli stormi d'autunno
altre anche meno visibili spazzate da una raffica in un'ora di notte -
è una questione d'occhi fermi sul cammello che passa
e ripassa per la cruna in piena libertà
e con tocchi di porpora una città
d'inverno, una città di cenere si propaga
dentro una lente di mitezza.
Solo adesso si comincia a capire.
Il senso è abbastanza chiaro. Di fronte a questa figura vengono evocati per dettagli esemplari gli orrori dello sterminio, le nuvole di incinerati, addirittura il riuso dei corpi come materiali, come fornitori di materia prima per tessuti o il riuso dell'oro ecc., e con questi la totale distruzione della morale: quella frase evangelica del cammello che passa per la cruna è segno di un totale spregio di ogni minimo confine morale. La poesia continua così:
Incredibile -dirò più tardi- le visioni
immotivate che si hanno a volte
(e pazienza per queste
ma esserne coinvolti al di là del giudizio
fino al tenero, fino all'indebita pietà.):
Non è un commento di quanto è detto sopra, è un commento di quello che sta per arrivare, la pietà ingiusta per gli sconfitti nazisti:
le giubbe sbottonate della disfatta, un elmo
ruzzolante tra i crateri, sugli argini maciullati
facce su facce lungo un canale a ridosso di un muro
un reparto in sfacelo che si sbraca, se ne fotte
della resa con dignità, ma su tutte
quella faccia d'infortunio, di gioventù in malora
con la sua vampa di dispetto bocciato
di espulso dal futuro
nell'ora già densa della campagna
verso l'estate che verrà.
Sereni ha come un moto di pietà verso questi giovani mandati al massacro, che però, con il loro combattere, hanno reso possibile quell'altro orrore e, in qualche modo, vive dentro di sé la contraddizione di queste doppie pietà, una pietà di fronte a questo orrore incommensurabile, una pietà umana verso queste altre figure. Qui si avvicina la conclusione della poesia:
Tra poco sparecchieranno, porteranno
le cartelle per la firma. Si firmerà.
Si firmerà la pace barattandola con la nostra pietà -
e lui rimesso in sesto, risarcito di vent'anni d'amaro
bene potus et pransus arbitro dell'affare.
Il momento della resa dei conti, della parificazione, della risoluzione, dell'annullamento tra vittime e carnefici, si conclude come un affare, ma qualche cosa emerge, un qualcosa di altro, quasi una visione inquietante:
Non si vede più niente. Se non - per un incauto
pensiero, per quel momento di pietà - quella mano
quel mozzicone di mano sulla parete.
Ci conta ci pesa ci divide. Firma.
E tutti quanti come niente - come la notte
ci dimentica.
L'orrore della Shoah trascende anche la forzosa conciliazione dei posteri che lo ignorano: rimane, anche al di là di coloro che, magari per un istante, hanno voluto dimenticarlo. In questo senso, forse, di una memoria di giustizia che cancella chi non le è fedele, va letto il «ci dimentica» finale. Il «mozzicone di mano» sul muro evoca insieme, ad aumentare la gravità di «quel momento di pietà» provato per i carnefici, la sua inaccettabilità di fronte ad un severo giudizio etico, sia le mani fantasmatiche degli ebrei uccisi che la misteriosa mano angelica o divina che nella Bibbia, nel libro di Daniele, traccia sul muro le parole Mene Tekel Peres: ti ho contato, ti ho pesato, ti ho diviso. I morti giudicano i vivi: la pietà provata per chi ha reso possibile l'orrore della Shoah si rivela, appunto, una pietà ingiusta. I morti giudicano i vivi che credevano di poterli cancellare per sempre. Una mano di un incinerato, quello spezzone spettrale di un ucciso decide dell'assurdità di questa pietà e della necesità di tenere aperti, sempre, certi conti.
Parole chiave:
Shoah poesie - Letteratura - sec. XX - Poesie sulla Shoah
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