Nel proporre il primo studio complessivo sull'«ephemeral best seller» di Thomas Edwards, uscito in tre parti durante il 1646, Ann Hughes non è rimasta intrappolata nel dibattito sulla sua attendibilità come fonte, che un quindicennio fa contrappose soprattutto John C. Davis a Christopher Hill. L'esame delle notizie fornite da Gangraena sull'«eresia popolare» nella Rivoluzione inglese, pur intrapreso, porta a una conclusione prevedibile: il libro del pastore presbiteriano va valutato nel suo contesto di produzione e, confrontato, ove sia possibile, con resoconti indipendenti, si rivela una lettura di parte, ma non «fantastica», della realtà.
Su questo si innesta, però, l'interesse essenziale di Hughes. Il problema è il ruolo e l'impatto politico del testo di Edwards, specchio pur distorto del configurarsi degli schieramenti politici tra il 1644 e il 1646 e al medesimo tempo 'ingrediente' fondamentale in quel processo. Tale prospettiva è perseguita da diverse angolazioni analitiche, dalla storia politica alla storia del libro a quella della lettura, alle suggestioni degli studi letterari. Molteplici contesti vengono coerentemente portati in luce: la tradizione eresiografica, i luoghi della stampa e quelli della socialità politica e religiosa, il quadro metropolitano londinese e quello delle contee. Dall''evento editoriale' del 1646, Gangraena appunto, ci si muove perciò verso una storia culturale tout court della Rivoluzione inglese.
Gangraena si distingue dalle tradizionali opere antiereticali per uno scarso interesse per la classificazione tassonomica e genealogica. È, invece, opera sempre caoticamente in farsi, che segue dappresso l'attualità del venefico contagio religioso e sociale. Hughes sottolinea in Edwards il costante sforzo di avvalorare il proprio resoconto dei fatti producendo prove intelligibili al lettore, in termini di autorevolezza e trasparenza di testimoni e testimonianze molto simili a quelli evidenziati da Steven Shapin e Adrian Johns nella "costruzione della verità" scientifica. L'esame della sua produzione e del fiume di repliche e contro-repliche da parte di chi viene indicato al pubblico come «eretico» o «libertino», mostra d'altra parte l'intenso scambio tra comunicazione stampata, manoscritta e orale. Senza rinunciare al posto dei «principi», si evitano in questo modo le etichette autoreferenziali e si esalta la natura dinamica della politica. Gangraena, in effetti, risulta avere un ruolo fondamentale nella polarizzazione politica, che alla metà degli anni '40 vede allontanarsi le posizioni di presbiteriani e indipendenti.
Portavoce di una rete di chierici e laici, Edwards propose con la sua esposizione pubblica dell'eresia un programma politico poco attento a un progetto positivo, ma volto alla mobilitazione frontale contro chi minava il conformismo di un'indivisibile Chiesa nazionale. La strategia ebbe successo nell'imporre tra il 1645 e il 1647 un'identità intransigente al movimento presbiteriano, aggregandovi anche attivisti nelle contee: esso assunse un atteggiamento aggressivo, che si espresse nella pressione diretta sul Parlamento e in ripetute campagne di petizioni e di stampa contro bestemmia, errore ed eresia. Fu, però, successo paradossale, perché provocò il coagularsi di una «comunità settaria», ferma nella difesa della libertà di coscienza e della tolleranza, in cui si trovarono respinti anche gli indipendenti e il New Model Army: la sua marcia su Londra nell'estate del 1647 rese impossibile per molti anni l'instaurazione di una Chiesa nazionale.
Ai presbiteriani viene così restituita la loro parte nella lotta per la Rivoluzione, per cosa dovesse essere. Rappresentarono un'istanza di trasformazione «morale, sociale e culturale», che adottando, con l'investimento nel dibattito pubblico, metodi «radicali» diede luogo al movimento popolare londinese forse numericamente più significativo. In tal modo, Hughes riprende e qualifica i risultati degli studi di David Zaret che hanno dimostrato come la «sfera pubblica democratica» abbia nella Rivoluzione inglese le origini pragmatiche e non nobili dello scontro partigiano e interessato.
L'invito fin qui perfettamente condivisibile a rivedere l'irriflessa attribuzione della patente di «conservatorismo» ai presbiteriani inglesi va però in corto circuito sul piano dei «principi» quando se ne enfatizza il «radicalismo». I chierici come Edwards intervennero nel dibattito pubblico con gli argomenti dell'intolleranza, della repressione della differenza, del rogo di libri e degli «eretici». Essi si adattarono alla «sfera pubblica», contribuendovi di fatto, ma per occuparla e disciplinarla: i loro alleati, come i librai John Bellamy e Ralph Smith, che giustamente Hughes inserisce tra i protagonisti della Londra presbiteriana, non smisero di sostenere a ogni occasione il ritorno alla censura preventiva. Sarebbe uno sbaglio porre sullo stesso piano quest'ultima e la censura ex post, in ragione della pericolosità verso lo Stato, sostenuta da Milton o da Walwyn. Mentre i presbiteriani difendevano nel dibattito pubblico una verità immutabile che lo trascendeva, i sostenitori della libertà di coscienza e della tolleranza giunsero a dislocarne il formarsi all'interno del dibattito stesso, rendendo, come correttamente ricorda proprio Hughes a proposito di Saltmarsh e Walwyn, la questione dell'errore «irrilevante». Da qui scaturì l'affermazione livellatrice della «sovranità popolare».
Concentrandosi sull'«iniziativa» del movimento presbiteriano, Hughes pare sottovalutare quella degli avversari, l'«identità» dei quali dipende troppo dall'immagine che esso ne diede. Il discrimine fra «radicali» e «conservatori», e tra le rispettive rappresentazioni e autorappresentazioni, è sempre utile a non perdere la bussola. Edwards sostenne nella «sfera pubblica» della Rivoluzione inglese le ragioni della Ginevra di Calvino e Beza, quando da quel mondo di «guerre di religione» Londra stava faticosamente uscendo.