L'Europa moderna di Paolo Viola è una sfida che in pochi hanno avuto sinora l'animo di affrontare. È un libro che nasce dall'esperienza d'insegnamento di una disciplina, la «storia moderna», che negli ultimi anni sembra esser divenuta una nuova "età di mezzo" dallo statuto incerto rispetto alle discipline sorelle, medievistica e contemporaneistica. È un libro calato ben dentro il suo tempo e i dibattiti attuali. La sfida sta proprio in questo: scrivere una nuova sintesi della storia moderna prendendo coscienza di una fine nota, diversa rispetto alla sensibilità di qualche decennio addietro: non le rivoluzioni politiche ed economiche settecentesche, ma ciò che l'autore definisce il «suicidio dell'identità europea» nella Prima Guerra mondiale. Una fine e una narrazione su cui si può discutere, ma che hanno il grande pregio di restituire ai secoli dell'età moderna un senso per il tempo presente in una prosa accessibile, quando non avvincente. È una sfida vinta.
Non è questa la sede per un esame dell'identità europea descritta da Viola. Basti dire che se nobiltà, Chiesa cristiana e città sono i suoi caratteri originali, l'identità europea moderna è plasmata da «armi» - capitalismo, Stato moderno, capacità culturale di confronto con la diversità - che si dispiegano nella competizione e nel conflitto: l'identità europea si forma nel pluralismo degli ordinamenti, delle confessioni e delle culture; nella conquista laica del tempo e dello spazio - il territorio controllato dallo Stato, ma anche le risorse e i mercati integrati progressivamente in quella che I. Wallerstein chiama economia-mondo capitalista. I significati di libertà e democrazia che si sviluppano con l'identità europea sono differenti da quelli che avevano designato, da una parte, privilegi e prerogative di aristocrazie e corpi istituzionali, dall'altra il governo di popolo nella polis greca: sistema di diritti e eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, la prima nasce dai conflitti di religione e dalle Rivoluzioni inglesi; la seconda include nella partecipazione politica coloro che anche nel percorso liberale britannico rimanevano esclusi, i coloni americani, ma soprattutto poveri e lavoratori - sviluppo che non può immaginarsi senza la Rivoluzione francese.
Interessa qui soprattutto sottolineare che attorno a questa «idea di età moderna» gli elementi di conoscenza fondamentale si integrano in una narrazione storica compiuta, che dispensa finalmente da capitoli storiografici chiusi, senza lasciare un senso di vuoto e imbarazzo interpretativo. Il lettore è liberato dalle partizioni secolari e da alcune tematiche classiche. Sotto la categoria della «scoperta della complessità» stanno le esplorazioni geografiche, la conquista delle Americhe, la frattura della cristianità e lo sviluppo delle forme originarie del capitalismo finanziario. Dalle Guerre d'Italia alla Guerra dei Trent'anni si delineano le condizioni dei «ritardi» della penisola italiana e del mondo tedesco nella costruzione dello Stato, il cui percorso passa fra gli anni '40 del Seicento e la Rivoluzione americana dalla competizione politica e economica fra il modello britannico, la variante repubblicana olandese, e quello assolutistico francese. Queste due grandi sequenze temporali, che sono insieme gran parte della vecchia idea di «storia moderna», vedono il dispiegarsi della «flessibilità delle armi europee»: l'espansione globale della potenza economica dalle città medievali alla Guerra dei Sette Anni; il pluralismo istituzionale, a partire dal dualismo Stato/Chiesa e dalla pletora di giurisdizioni concorrenti, che configura una produzione di ordinamenti giuridici plurali dal basso recepiti nella costruzione dello Stato centralizzato, «strumento raffinato e articolato» «di dominazione e di gestione della complessità»; lo sviluppo della «tolleranza», attraverso la separazione settecentesca di Stato e società, in dottrina politica liberale e democratica culminante in quel sogno di eguaglianza e fraternità che è stato, in passato, un punto d'arrivo e si rivela, oggi, l'inizio di un fallimento.
Rivoluzione e controrivoluzione coprono, infatti, insieme il terzo tempo della storia moderna: quella in cui alla rivoluzione della libertà e dell'eguaglianza sopravvive, e si esporta dalla Francia in tutta Europa, quella della «nazione». È il tempo della competizione tra liberali e democratici, in cui alla fine il verbo nazionalista è raccolto e esaltato, contro entrambi, dall'opzione reazionaria delle classi dirigenti più retrive: la loro è una risposta alla domanda d'identità in una società in rapida trasformazione, che si basa sul legame interclassista di sangue e terra e la preesistenza dello Stato rispetto al cittadino. Libertà e democrazia sono contemporaneamente portate avanti nel mondo anglosassone, in Gran Bretagna e Stati Uniti, dalle necessità pragmatiche di società già allora caratterizzate da un avanzato sviluppo capitalistico, nient'affatto esenti da esclusioni di ceto e di razza. Ma il nation building continentale, rispetto a cui il socialismo internazionalista figlio della stessa domanda di identità si rivelerà troppo debole, è il suicidio dell'identità plurale e pluralista europea nel razzismo e nella xenofobia imperialista.
Il discorso è incompleto, Viola ne è consapevole. La storia si scrive da una posizione, e la storia moderna da lui ripercorsa è quella che si può «ancora narrare dal punto di vista dei vincitori». L'altro versante si intravede quando il «successo senza eguali» della conquista europea del mondo alla complessità politica e sociale "moderna" trabocca nei genocidi, nella cancellazione delle culture e nello sfruttamento degli "altri" già prima dell'800, nel razzismo e nazionalismo che li alimenta dopo. La storia delle identità dei «(provvisoriamente) vinti» manca ancora all'appello. Ma sarebbe sfida meritevole. Anch'essa contribuirebbe a chiudere sugli scaffali di una cultura storica passata manuali «aggiornati» e «rivisti» più per rispondere al patto non scritto tra mercato editoriale e burocrazia ministeriale che alla ricerca di senso.