Jenny Ponzo, “La narrativa di argomento risorgimentale (1948-2011)”, Roma, Aracne, 2015, 2 voll., 785 pp.
Il primo dei due volumi in cui si suddivide l’opera, frutto della rielaborazione di una tesi di dottorato italo-svizzera, può risultare utile alla ricerca storica. Se infatti il problema della memoria risorgimentale nell’Italia repubblicana è stato appena abbozzato, e può contare in sede storiografica soprattutto sugli interventi di Massimo Baioni, d’altra parte il Centocinquantenario dell’Unità ha avuto tra gli altri il risultato di ricomprendere la letteratura, accanto alla storiografia, tra i media che hanno tenuto vivo il ricordo dell’esperienza risorgimentale ma che hanno anche denunciato i suoi limiti e le sue contraddizioni. Sorprende infatti non ritrovare nella bibliografia di Ponzo (che si appoggia su letteratura teorica soprattutto francese per proporre le sue categorie di “ideologia” e “utopia”, alla base dell’analisi del corpus romanzesco) le riflessioni spese nel 2011 da Giuseppe Lupo a proposito del nesso tra “anti-storia” e “anti-Risorgimento” nella narrativa italiana degli ultimi trent’anni.
Per il resto, Ponzo prende in esame, in un approccio strutturalista critico, oltre trenta narrazioni sulle sessanta censite, muovendosi quindi nell’ambito di un “campionario” vasto e per più versi esauriente. Anche molte delle sue conclusioni richiamano le riflessioni di Lupo: l’esistenza di un “anticanone siciliano”, lo scetticismo verso l’egemonia borghese del processo unitario, la delusione verso premesse palingenetiche non assolte, l’esistenza di molta parte di popolo tagliata fuori dalla consapevolezza degli eventi in corso.
Dal Gotta ex fascista che fece propria tempestivamente la rilettura edulcorata del Risorgimento imposta ai libri di testo dell’epoca del centrismo ai siciliani (Tomasi e Sciascia, ma anche Andrea Camilleri e Vincenzo Consolo), ad altri romanzieri che hanno messo su carta una gamma di posizioni che andavano dalla demolizione radicale (Alianello) alla critica ragionata e selettiva, per la quale forse sarebbe valsa la pena di indagare meglio le fonti (gramsciane?) extra-narrative.
Ponzo pone al centro della sua analisi i personaggi, protagonisti e minori, dei romanzi presi in esame. Ne deriva una galleria indubbiamente vasta, ma a ben vedere anche alquanto ripetitiva: dai non-soggetti (masse, analfabeti, donne, contadini…) ai funzionari, dai rivoluzionari agli spirituali, dagli individualisti ai campanilisti, l’interesse egoistico e pratico sembra aver giocato un ruolo assai maggiore di quello effettivamente riservato al disinteressato patriottismo (che la studiosa coniuga con idee più generali di giustizia e uguaglianza). I rivoluzionari veri sono pochi e soprattutto sono destinati alla sconfitta; gli altri, dai legittimisti ai briganti, pensano al proprio tornaconto e alla fine sopravvivono a tutti i cambi di potere. Una visione che possiamo tranquillamente definire “disincantata” e “antieroica” del Risorgimento, dunque, che oltretutto si accompagna in tutti gli autori esaminati a una requisitoria contro la “conquista piemontese” del Sud (senza che ciò, va detto, si coniughi necessariamente con l’apologia della purezza meridionale). Nel romanzo italiano, che si occupa di Risorgimento attorno al Centenario e al Centocinquantenario ma anche nel periodo di Tangentopoli, ci sono sia delegittimazione che critica, ma molto raramente (Alianello a parte) si può parlare di un fiancheggiamento della vulgata revisionista lanciata negli stessi torni di tempo da nostalgici dei Borboni e fautori anti-conciliari del temporalismo papale.
La letteratura, si potrebbe dire, ha preso atto della diserzione da quelli che erano stati decantati come i valori più positivi del nazionalismo ottocentesco, e ha rinvenuto nel Risorgimento i tratti deludenti di un mito negativo di fondazione della comunità statale italiana. Da qui un continuo pensiero al Novecento, che si tratti di ingiustizie sociali, di conservatorismo politico, di patti con le mafie o di terrorismo rosso. Si dirà che anche i cantori del revisionismo antirisorgimentale tirano delle lunghe campate per far cominciare dal “complotto sabaudo-massonico” tutti i mali dell’Italia contemporanea; ma la differenza è che i romanzieri non rimpiangono la realtà preesistente e, tranne che in pochissimi casi, condannano moralmente tanto i “conquistatori” quanto i “briganti”.
Non rimane altro che constatare, a pochi anni dalle celebrazioni anniversarie, che lo sguardo gettato dai romanzieri più brillanti sul processo risorgimentale è pieno di amarezza. Rimane tuttavia fondamentale, come ha già fatto Giuseppe Lupo, distinguere tra critica e delegittimazione. Non tutto in questo panorama così in chiaroscuro è propriamente Antirisorgimento. Toccherà agli storici inserire la narrativa in un quadro più ampio della cultura e della società di epoca repubblicana, per investigare quando, come, grazie a chi e con quali risultati la “tradizione risorgimentale” già in piena crisi attorno al 1961 si sia venuta trasformando tra anni Settanta e anni Duemila in luogo polemico e anticamera della crisi del sentimento di appartenenza denunciato da tanti dalla fine del XX secolo.