Introduzione
Dal 2004 al 2009 la cattedrale di Reggio Emilia (fig. 1) è stata oggetto di una lunga fase di lavori che ha riguardato il recupero funzionale e conservativo degli alzati e contemporaneamente è stata interessata da una estesa campagna di scavi archeologici sul sagrato e all’interno, in particolare all’altezza della prima campata da ovest e in cripta. Ne è scaturita una mole consistente di dati che è in massima parte confluita in un volume a più mani [Cantino Wataghin et al. 2014] con il quale si è cercato di dare conto in modo problematico di alcune questioni emerse dai sorprendenti elementi venuti alla luce. Un numero consistente di studiosi è intervenuto su molteplici aspetti connessi ad epoche anche molto lontane, dalle strutture romane con relativi mosaici ritrovate in cripta [Curina 2014a; Cantino Wataghin 2014], alla struttura circolare (fig. 2) emersa sotto il pavimento della navata centrale [Calzona 2014; Curina 2014b; ora anche Cantino Wataghin 2017"], all’architettura e all’apparato decorativo di epoca medievale [Milanesi 2014; Lomartire 2014] e moderna [Mussini 2014], al patrimonio scultoreo e figurativo del XVI-XVIII secolo [Mazza 2014]. Nell’ultimo lustro sono stati anche pubblicati importanti volumi che hanno svolto, seppure su percorsi paralleli, un ruolo altrettanto importante: una storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla [Costi, Giovannelli 2012a; Costi, Giovannelli 2012b] con cui si è cercato di fare il punto della situazione in materia di storia ecclesiastica ed ecclesiologica, e alcuni volumi che raccolgono gli atti di convegni tenutisi a Reggio Emilia [Orselli 2009; Paolini 2012; Ruini 2014] o contributi con i quali si è dato conto quasi in tempo reale delle scoperte e dei lavori in cattedrale [Grassi, Severi 2007; 2009; 2012]. Infine, benché noti da tempo, non possono essere sottaciuti gli importanti e consistenti brani di mosaico pavimentale medievale conservati ai Musei Civici di Reggio Emilia, in buona parte provenienti dalla cattedrale, la cui qualità e il cui stile non omogenei obbligano a pensare a datazioni diverse per i singoli nuclei. Anche in questo caso, dobbiamo rimandare agli studi più recenti per la loro disamina. [1]
Poiché in questa sede sarebbe inutile ripercorrere tutte le fasi della cattedrale reggiana, e sarebbe ugualmente pleonastico dare conto della bibliografia specifica relativa al complesso vescovile di Reggio Emilia, il riferimento ancora una volta corre obbligatoriamente ai saggi e al puntuale resoconto storiografico del volume del 2014 [Morisco 2014]. Mi concentrerò piuttosto sulla fabbrica del duomo limitatamente alla fase medievale, e in particolare quella romanica, fase importante perché coincide di fatto, come vedremo, con l’impianto planivolumetrico attuale, tenuto conto delle numerose addizioni o modifiche che tra poco individueremo. In tempi recentissimi, peraltro, sono stati pubblicati contributi volti a offrire un quadro di sintesi dell’architettura romanica italiana [Tosco 2016] e in particolare del Settentrione [Lomartire 2016; Vergnolle, Tosco 2016] utili per una contestualizzazione storicamente e storiograficamente aggiornata; ad essi dobbiamo rimandare per l’Emilia Romagna in generale [Calzona, Milanesi 2016] e per i rapporti architettura/committenza canusina [Piva 2011; Mancassola 2016].
La struttura della cattedrale
Va detto che chiunque si sia avviato allo studio del duomo reggiano è incappato in un enorme e per ora inesorabile ostacolo: contrariamente ad alcune delle cattedrali di epoca romanica geograficamente e cronologicamente più vicine, penso per esempio a Modena, a Cremona, a Piacenza, a Ferrara, a Verona, a Pisa, a Bergamo, nessuna tipologia di fonte scritta consente il benché minimo appoggio documentario. Persino la cattedrale di Parma [Luchterhandt 2009; 2016], che pure non ha conservato atti di fondazione o materiali analoghi, ha tuttavia alcuni appigli su cui fare, per quanto cautamente, leva, vuoi la consacrazione di papa Pasquale II in viaggio al nord Italia nel 1106 ricordata da Donizone nel De principibus Canusinis, vuoi le notizie, seppur trecentesche, relative al terremoto del 1117. Per Reggio Emilia non conosciamo al momento nulla di paragonabile e pertanto solo la analisi stilistica delle parti medievali ancora esistenti in alzato e dell’apparato scultoreo e musivo consentono di formulare alcune ipotesi. La difficoltà maggiore nella lettura del corpo di fabbrica della cattedrale di Reggio Emilia deriva dalle continue superfetazioni che nel corso dei secoli si sono susseguite, diciamo fino al XVIII secolo.
Per tale motivo, al fine di rendere apprezzabile e comprensibile la lettura, è quindi forse utile compiere il primo passo procedendo per sottrazione degli elementi avulsi dalla fabbrica di epoca romanica: ecco dunque che tutte le cappelle laterali risultano essere di epoca moderna, così come l’allungamento e l’allargamento della zona presbiteriale effettuati a partire dal XV secolo. Inoltre, l’intera attuale prima campata da ovest, coinvolgendo anche le navate laterali, è tardo duecentesca e non è quindi contestuale alla fase architettonica al centro di questo intervento. Si tenga conto poi che il sistema di copertura attuale è di tarda epoca moderna a sua volta in sostituzione di un sistema di copertura quattrocentesco di cui rimangono evidenti tracce nel cleristorio e sopra la prima campata della navatella settentrionale. Infine, la cripta che vediamo oggi è l’esito di numerosi ingrandimenti e rimodulazioni in rapporto alle trasformazioni della zona presbiteriale e alla soppressione e apertura di nuovi accessi tanto che solo i recenti scavi hanno consentito di formulare una restituzione più fedele della cripta tardomedievale. Naturalmente, occorre tenere presente la facies tardo-moderna interna, talmente onnicomprensiva e mimetizzante che Arthur Kingsley Porter, aveva concluso che ci sono «notable remains of fresco decoration, but is otherwise entirely without archeological interest» [Porter 1915-1917, III, 307]. Lo studioso americano si riferiva ai grandi brani a fresco di proporzioni monumentali ora conservati nel Museo Diocesano che fino alla metà circa del secolo scorso arricchivano il frontone della facciata dell’edificio. Come anticipato, l’analisi filologica unita, in questo caso, ad alcuni appigli documentari, consente di datare al pieno secolo XIII la facciata e la torre che la sovrasta, in coerenza strutturale con l’allungamento di una campata della fabbrica della cattedrale romanica: in sostanza, prima della costruzione dell’attuale fronte, espungendo ovviamente in tal modo anche le sculture di Bartolomeo Spani di inizio Cinquecento, dobbiamo immaginare una facciata di epoca romanica arretrata di una campata verso est. Si è giunti concordemente a questa soluzione in ragione dei dati forniti dagli scavi all’interno e all’esterno dell’edificio per cui si rimanda necessariamente nello specifico al volume del 2014. Da questi scavi è altresì emersa una delle soluzioni più originali presenti nel panorama architettonico medievale padano. Si tratta di una struttura circolare in planimetria, probabilmente cilindrica o pseudo-cilindrica in alzato, posta sulla fronte occidentale anteriormente al rifacimento duecentesco dunque in aggetto rispetto al filo della facciata. Tale struttura, munita di due scale a chiocciola laterali, è la risultante, a livello di fondazione, di due corpi di fabbrica adiacenti sull’asse est-ovest in modo che l’abside della chiesa che si sviluppava sull’attuale sagrato, di epoca paleocristiana o alto-medievale, è stata riutilizzata come parte di una probabile torre circolare occidentale di un edificio della seconda metà del X secolo su cui si imposterà successivamente la fabbrica romanica.
Concentrandoci ora sugli alzati, le prime difficoltà si incontrano osservando i paramenti murari del cleristorio meridionale e della testata occidentale del transetto relativo (fig. 5). Si notano infatti grandi aperture inserite in rottura in setti murari già interessati da precedenti interventi connessi all’inserimento delle volte di XV secolo. Ciò significa che il paramento laterizio di epoca medievale si limita, all’esterno, agli spazi tra gli estradossi delle tamponature degli archi e alle superfici più vicine alla linea di gronda del tetto, in corrispondenza della teoria di archetti ciechi. Decisamente meglio conservato è il paramento della testata sud del transetto meridionale adiacente al contiguo Broletto, su cui si possono notare grandi specchiature individuate da sottili lesene desinenti in modo regolare in una fila di archetti ciechi che segue fedelmente il profilo della falda del tetto.
Il cleristorio e il transetto settentrionale (fig. 6), osservabili direttamente da una finestra al piano alto del Palazzo Vescovile, offrono una problematica lettura a causa di ancor più numerosi addossamenti e rifacimenti. Siamo in grado di osservare dall’esterno direttamente solo il setto occidentale dell’incrocio tra cleristorio nord e la fronte occidentale del relativo transetto. Dati decisamente importanti si ricavano invece da una perlustrazione diretta dei sottotetti, cui si accede dal lato meridionale, dal piano sopraelevato del Broletto.
Percorrendo le scale moderne di accesso al sottotetto, realizzate in aderenza tra lo spigolo della testata orientale e quella meridionale del transetto antico e il tamburo di contenimento della cupola che sormonta la Cappella Rangona realizzata sul fianco meridionale del presbiterio, si notano alcune riseghe verticali e orizzontali che devono essere messe in relazione alle grandi specchiature che descrivono i setti murari medievali del transetto meridionale visibile dall’esterno. Ne ricaviamo dunque che i perimetrali esterni del transetto medievale sono rintracciabili con sufficiente precisione verso ovest e sud (visibili dall’esterno) ma anche verso est benché celati dai sottotetti delle strutture aggiunte. A questo si somma un altro elemento importante, osservabile a livello del piano di calpestio del sottotetto del transetto meridionale. Mi riferisco alla teoria di archetti pensili (fig. 7) in precario stato di conservazione, ma ancora leggibili nella loro fattura di epoca romanica, che risultano in asse con il setto murario orientale del transetto. Tenuto conto che l’altezza di questi archetti indica ovviamente anche l’altezza della gronda della fabbrica medievale, possiamo confermare non solo che la volumetria dell’attuale transetto, benché fortemente interessato da superfetazioni che lo hanno quasi raddoppiato nello spazio, corrisponda al transetto medievale, ma anche che l’altezza attuale dell’edificio possa indicare con buona approssimazione l’altezza della chiesa romanica perlomeno nel settore presbiteriale.
Dal sottotetto del transetto meridionale attraversiamo il sottotetto del presbiterio in aderenza alla parte esterna del tiburio che insiste sull’incrocio, e giungiamo nel sottotetto del transetto settentrionale: qui non siamo in grado, a causa dei massicci rifacimenti, di individuare con precisione brani risalenti alla fabbrica romanica. Individuiamo tuttavia alcuni elementi di epoca tardo medievale (un capitello e alcuni archetti molto pronunciati diversi dagli archetti ciechi del sottotetto meridionale) che aprono alla possibilità di verificare la presenza di un grande cantiere di aggiornamento in coerenza con le parti di XIII secolo del settore occidentale cui abbiamo fatto cenno poco fa. Abbiamo conferma di tale cantiere duecentesco anche analizzando il paramento murario del sottotetto della navata maggiore per quasi tutta la sua lunghezza. In questa zona infatti si può osservare un setto continuo realizzato con le stesse archeggiature che abbiamo visto nel sottotetto del transetto settentrionale (fig. 8), archeggiature che ad una attenta analisi risultano soltanto addossate al perimetrale. Si tenga conto inoltre che una delle mensole che regge le archeggiature in questo stesso settore è stata inserita nella tamponatura di una precedente apertura (fig. 9), con tutta probabilità, una monofora del sistema precedente alla realizzazione delle archeggiature. Questo comporta che il cleristorio e il setto con le archeggiature non siano contestuali e che quindi uno preceda l’altro. Dal momento, evidentemente, che le archeggiature necessitano di un muro su cui venire addossate, dobbiamo concludere che i settori più elevati del cleristorio della navata centrale della cattedrale di Reggio Emilia sono composti da due strati differenti, di cui quello più esterno deve essere il più antico. Le archeggiature trovano confronto con analoghe soluzioni dell’attuale torre di facciata databile al XIII secolo, obbligando così a ritenere che la chiesa non avesse alcun tipo di copertura a volta nel Duecento perché tali soluzioni furono pensate per essere viste dall’interno della chiesa. Ancora in questa zona è possibile osservare peraltro la presenza di un grande arco traverso che unisce i due cleristori sopra la navata centrale all’altezza della campata mediana (tra la terza e la quarta nello specifico), secondo modelli già presenti in epoca ottoniana o proto salica [Vescovi 2012, 262-266]: l’esempio più noto e meglio conservato in Italia è quello della basilica di Santa Maria Maggiore a Lomello (PV), databile al secondo quarto del secolo XI [Schiavi 2010; De Marchi, Palazzo 2014], emergenza nella quale peraltro trova riscontro anche l’apertura ritrovata nei sottotetti della cattedrale di Reggio Emilia situata, in funzione di alleggerimento, nell’estradosso meridionale di ciò che rimane dell’arco traverso.
La prova che tale arco traverso appartenga alla fase precedente all’aggiunta delle grandi archeggiature sui cleristori interni della navata maggiore è data dalla loro interruzione in corrispondenza dell’attacco dell’arco stesso e confermata al contempo dalla decorazione pittorica, decorazione pittorica su dominanti bianco e rossa che è una cifra caratteristica dell’intero cantiere tardomedievale del XIII secolo dal momento che la si ritrova qui, nella torre/tiburio di facciata e qua e là sui muri interni delle navate e della cripta liberati dalle superfetazioni moderne [Autenrieth 2012; Lomartire 2014].
Nonostante alcuni tentativi di riconoscere tracce di cripte antiche, dagli scavi effettuati non si è in grado in realtà di affermare con certezza se fosse esistita una confessione anteriormente ai decenni a cavaliere del XII e XIII secolo. Tale possibile cronologia deriva in questo caso da un seppur labile appiglio documentario rappresentato dalla comparsa nei documenti a partire dal 1211 di una «Ecclesia Sancti Grisanthi de Domo», documento che è stato collegato al rilancio del culto dei santi cittadini avvenuto a fine XII-inizio XIII secolo, [2] e soprattutto alla presenza della prima cripta della cattedrale. A questa campagna di lavori della zona presbiteriale relativi al 1211 deve essere logicamente e cronologicamente connesso per via stilistica l’apparato scultoreo proveniente dalla recinzione presbiteriale ora diviso tra il Museo Diocesano di Reggio Emilia e istituzioni museali statunitensi [Vescovi 2008a] e a questa stessa fase devono appartenere anche i leoni stilofori di cultura antelamica ora in posizione spuria sul portale del perimetrale meridionale [Vescovi 2008b]. Oltre ai pezzi che compongono la recinzione presbiteriale databili alla fine del XII-inizio XIII secolo, negli ultimi decenni sono venuti alla luce anche altri brani che appartenevano all’arredo liturgico: la lastra con il Pantocratore e i simboli evangelici e una frammentaria Madonna con Bambino [Vescovi 2008c; Vescovi 2008d] le cui cronologie vanno portate almeno al secondo quarto del XIII secolo. In questa situazione complessa, per comprendere ciò che accade nel settore presbiteriale della cattedrale di Reggio Emilia occorre tenere presente un ultimo dato, di natura documentaria inconfutabile. All’anno 1223 (o 1228) le cronache reggiane registrano il crollo della torre, presumibilmente di facciata, che obbliga a intervenire seriamente sulla fabbrica [Milanesi 2014]. Alla fine del secolo XII dunque, in concomitanza con il rilancio del culto dei santi cittadini, si decide di realizzare una cripta (attestata appunto nel 1211), probabilmente solo in corrispondenza della navata centrale. A questa fase appartengono i leoni stilofori del fianco meridionale e le lastre con i santi della recinzione presbiteriale. Il crollo della torre poco più di dieci anni dopo, evidentemente non prevedibile, comporta l’apertura di un nuovo cantiere, questa volta di grandi dimensioni e non limitato al presbiterio che, durante i lunghi episcopati di Niccolò de’ Maltraversi (1211-1243) e Guglielmo da Fogliano (1243-1281), conduce a un generale aggiornamento che culminerà con l’allungamento di una campata per la realizzazione dell’attuale torre di facciata (documentata dal 1269) e relativi affreschi ancora in parte conservati, con l’inserimento delle archeggiature del settore più elevato della navata centrale ed infine con una decorazione pittorica omogenea su dominanti bianche e rosse dell’interno e con l’implementazione dell’arredo liturgico presbiteriale di cui si sono conservati la lastra con il Pantocratore e la frammentaria Madonna con Bambino cui aggiungere la lastra con i Re Magi [Vescovi 2008e] molto probabilmente collocata sulla nuova facciata duecentesca.
I lavori di restauro di questi ultimi anni hanno dunque avuto il grande merito di porre all’attenzione degli studiosi una serie di elementi su cui ragionare per ipotizzare una cronologia della fabbrica anteriore ai grandi lavori duecenteschi. Partiamo dai setti murari più antichi che abbiamo individuato nel sottotetto della navata maggiore e nei transetti e compariamoli con altre fabbriche padane. L’uso insistito di materiale di reimpiego frammentato e frammisto a materiale lapideo con alti letti di malta e stilature marcate trova confronto nella Valle del Po con i cleristori e con i setti murari meno restaurati della parte occidentale del Sant’Antonino di Piacenza [Segagni 2009], ascrivibile al primo quarto circa del secolo XI, oppure con le coeve cortine murarie della basilica di Santa Maria Maggiore di Lomello, e più significativamente con alcuni campanili ravennati del principio del secolo XI circa, o, in modo decisamente più puntuale, con le absidi di San Michele Arcangelo a Nonantola [Milanesi 2012; Gelichi 2013], edificio questo avvicinato già da Roberto Salvini al campanile dell’abbaziale di Pomposa che una ben nota epigrafe consente di datare con certezza al 1063 [Russo 2012].
Tenuto conto della difficoltà e delle relative necessarie cautele che devono accompagnare il raffronto formale tra elementi di decorazione architettonica, alla seconda metà del secolo XI in particolare conducono anche gli accostamenti che è possibile proporre per gli archetti ciechi esterni. A Reggio la difficoltà è doppia dal momento che esistono differenze formali tra gli archetti del cleristorio e quelli del transetto. La composizione degli archetti del cleristorio è più regolare (fig. 10), con peducci a mensola e piccoli laterizi curvi realizzati ad hoc in fornace; gli archetti del transetto mostrano maggior irregolarità compositiva, i peducci hanno la forma di una goccia e la curvatura non è data da laterizi sagomati per lo scopo, ma da piccoli frammenti posti di taglio. Se questi trovano confronto in area padana con il complesso chiesa-battistero di Velezzo Lomellina, con il cleristorio della cattedrale di Mantova, con il Sant’Antonino di Piacenza, i primi mostrano fortissima parentela con gli archetti del cleristorio di Santa Maria Maggiore a Bologna [Russo 1972-1973, 101-102] e col coronamento absidale della chiesa di San Michele Arcangelo e del campanile di Pomposa, anch’essi poc’anzi ricordati. La cronologia ai decenni centrali della seconda metà del secolo XI sembra poter essere confermata per Reggio Emilia anche da un altro elemento: mi riferisco ad alcuni pezzi che compongono la bifora sul perimetrale meridionale della cattedrale reggiana. Tale bifora – una strana soluzione di epoca imprecisabile, ma sicuramente post medievale, come dimostra l’originale monofora retrostante – è il risultato evidente di alcuni pezzi erratici ricomposti in una zona di complicatissimo accesso sopra la falda del tetto della campata minore. Ciò che a noi interessa segnalare è il capitello corinzieggiante che regge il pulvino decorato con motivi schematici fitomorfi e zoomorf (fig. 11)i. Il capitello, di dimensioni contenute, si presenta su due ordini, l’inferiore dei quali con otto steli resi in modo sintetico, collocati verticalmente in modo regolare sulla superficie e piccoli caulicoli di raccordo nella parte superiore. La medesima tipologia di capitello si ritrova in altri tre contesti, tutti e tre di area emiliana: il capitello con numero d’inventario 115 del Museo Civico di Modena [Branchi 1991]; due capitelli nonantolani, il primo collocato nella curva absidale dell’ex-abbaziale di San Silvestro, il secondo osservabile nelle foto di Lidia Bianchi che documentano i capitelli della cripta di San Michele Arcangelo prima della dispersione [Bianchi 1937]; infine, in una zona di complicato accesso, nella quadrifora meridionale del campanile pomposiano esistono due semicolonne sormontate da semicapitelli con il medesimo pattern del capitello della pseudo-bifora reggiana, di Modena e di Nonantola. La datazione dei brani plastici pomposiani è scivolata fino al VI/VII secolo nella convinzione che siano pezzi di reimpiego di epoca tardo-bizantina [Salmi 1966, 97-98; Novara 1999, 164-170]. Alla luce dei nuovi confronti è invece ragionevole ritenere che nella seconda metà del secolo XI una medesima cultura figurativa accomunava alcuni importanti cantieri diocesani e monastici dei settori settentrionali e centrali dell’arcidiocesi di Ravenna. Ci sono dunque sufficienti elementi per poter confermare una cronologia della fase romanica della cattedrale di Reggio Emilia al terzo quarto circa del secolo XI, una fase romanica che possiamo ricostruire ora piuttosto bene.
La fase romanica
Si trattava di un edificio a tre navate con transetto continuo alto desinente in un coro absidato, con copertura a capriate, con arco traverso mediano e un sistema di sostegni con scansione di tipo ottoniana o “dattilica” (due pilastri deboli e un pilastro forte, in sequenza). Non siamo ancora in grado di stabilire con certezza come fosse la fronte occidentale in alzato, sappiamo con sicurezza, come abbiamo anticipato, che era arretrata di una campata e che con tutta probabilità mostrava una struttura circolare sul modello delle chiese a doppio coro o absidi opposte oppure con Westbau circolare [Piva 2013; Calzona 2014]. A questo proposito, nonostante la consistente massa di dati raccolti, è ancora difficile propendere per una soluzione o l’altra, anche in relazione ai problematici rapporti tra la fase romanica e quella tardocarolingia. L’esistenza della cripta a est non è dimostrabile per l'XI secolo, si è invece certi per via archeologica di una struttura ipogea sottostante il corpo occidentale preposta con molta probabilità alle sepolture privilegiate. Infine, i setti murari del cleristorio sopra le arcate di passaggio tra nave maggiore e navi minori erano alleggerite da matronei, anzi, poiché non è dimostrata nessuna copertura delle navatelle e quindi nessun piano di calpestio, erano piuttosto caratterizzati da pseudo-matronei non calpestabili sul modello del San Ciriaco a Gernrode (960 circa), in Italia per la prima volta probabilmente realizzati sul cantiere della Ss. Trinità di Milano (poi San Sepolcro [Schiavi 2005]). Da quanto detto, emerge insomma l’esistenza a Reggio Emilia di una chiesa i cui modelli di riferimento possono essere rintracciati in area imperiale ottoniana e salica.
Naturalmente si tratta di una conclusione che può forse meravigliare dal momento che sappiamo che Reggio Emilia, con il vicino castello di Canossa costituiva il cuore dei territori canossiani. Ma da questo dato occorre ora ripartire per cercare di comprendere in che modo un edificio come quello che abbiamo descritto si inserisca nel rapporto vescovi/Canossa. Non abbiamo, come si è visto, una data precisa; dobbiamo limitarci a ipotizzare una forbice cronologica in cui muoversi, forbice che, cautamente, è opportuno tenere larga tra il 1060 e il 1080 circa.
È possibile verificare se in quei decenni vi fossero condizioni opportune per la ricostruzione di una cattedrale su modelli imperiali un secolo dopo la fabbrica ottoniana rintracciata negli scavi [Calzona 2014]? Posta in questa modo, la risposta a tale interrogativo appare quasi scontata perché basta scorrere l’elenco dei vescovi a cavallo della metà del secolo XI per accorgersi facilmente che la Chiesa di Reggio Emilia era intimamente connessa al sistema della Reichskirkche [Giovanelli 2012; Cenini 2012]. Sigefredo, Conone, Adalberone, Wolmaro e Gandolfo sono vescovi perfettamente inseriti nei quadri imperiali, addirittura Adalberone (vescovo tra il 1053/54-1063) prima di assurgere alla cattedra reggiana, fu preposto tra i canonici di Zurigo [Schwartz 1993, 196-197]. Se parallelamente consideriamo cosa accadde, anche in modo superficiale, sul versante della famiglia più potente e influente della diocesi, ovviamente quella dei Canossa, potremmo trovare un’altra apparente facile spiegazione per la scelta di un modello imperiale per la cattedrale reggiana: come noto, la seconda moglie di Bonifacio di Canossa fu Beatrice, donna profondamente inserita nei quadri imperiali [Lazzari 2012]. Figlia di Federico duca di Lorena e Matilde, figlia del duca di Svevia, la giovane Beatrice fu allevata alla corte di Corrado II, la cui consorte in terze nozze, Gisella, era sua zia in quanto sorella del padre. Di fatto dunque Beatrice di Lorena, la madre di Matilde di Canossa, era nipote dell’imperatore Corrado II e divenne cugina di primo grado con il figlio di questi Enrico, il futuro imperatore Enrico III. Quando fu celebrato il matrimonio di Bonifacio con Beatrice nel 1037/38 (concluso nel 1052 con la morte di Bonifacio), la famiglia dei Canossa entrò a pieno titolo nella grande vassallità imperiale europea. Se aggiungiamo che i primi Canossa provenivano dalla vassallità episcopale reggiana, già inserita a quel tempo – ma non poteva essere diversamente –, nel Reichskirchensystem, potremmo trovare tutte le condizioni socio-politiche ideali per spiegare la scelta del modello di immagine per la cattedrale di Reggio Emilia.
Beatrice e Matilde di Canossa e le immagini della cattedrale
Ma la storia non procede attraverso fatti, date od avvenimenti contrapposti o connessi secondo una equazione differenziale. Come la più aggiornata storiografia suggerisce, le dinamiche sono sempre più complesse e il rapporto episcopato reggiano/Canossa è una cartina di tornasole in questo senso.
Basti pensare ai polittici delle malefatte riferiti a Bonifacio a danno della Chiesa reggiana, o alla interpretazione storiografica secondo la quale nell’XI secolo in area reggiana la città afferiva generalmente al vescovo e il contado afferiva ai Canossa, in particolare proprio negli anni di Bonifacio [Rinaldi 2001]. Tale schema è perfetto in un quadro totalmente sgombro da qualsivoglia attrito e contrasto. Ma le prevaricazioni di Bonifacio sono reali e documentate, pertanto quel quadro idilliaco nel quale si è inteso talvolta, ottimisticamente, dividere le aree di influenza dei vescovi reggiani e dei Canossa non ha mai funzionato [Cantarella 2012]. Quando muore Bonifacio, essendo i figli o morti o ancora troppo giovani – Matilde aveva solo sei anni – la gestione dell’immenso patrimonio canusino passa in toto nelle mani della moglie Beatrice, la quale, sulla scorta dei documenti che ci sono pervenuti sembra manifestare un certo disinteresse per la città di Reggio Emilia e per il suo episcopio perché focalizzata maggiormente sui territori toscani e dunque su Pisa. Dopo il 1052 si è conservato solo un documento e si tratta peraltro di una piccola donazione a San Prospero (nel 1072); non è certo possibile sulla scorta di questo dato collegare il modello ottoniano-salico della cattedrale di Reggio Emilia a eventuali intrusioni di Beatrice nelle dinamiche di committenza vescovile, dinamiche che viaggiano su vie indipendenti per la maggior parte dei casi e appaiono connesse soltanto alle specifiche esperienze e culture dei singoli protagonisti [Tosco 2011]. Il disinteresse di Beatrice per la città di Reggio Emilia è solo apparentemente banale e si palesa in modo ancora più emblematico semplicemente considerando che quando la madre di Matilde muore nel 1076 si decide che venga seppellita a Pisa, lontano dalle sue terre natie lorenesi, lontano dai due mariti (Bonifacio sepolto a Mantova, Goffredo il Barbuto, sposato in seconde nozze nel 1054, morto e sepolto a Verdun nel 1069) e lontano anche dal castello di Canossa e dalla cattedrale cui faceva riferimento. Non potremo mai sapere se la scelta di essere seppellita nel complesso della cattedrale pisana fosse dettata da motivi esclusivamente di opportunità politica oppure anche da motivi legati al prestigio di un edificio che era non solo nuovo (fu fondato nel 1063) ma anche innovativo e rivoluzionario nel panorama del romanico europeo. Rimane il fatto che Beatrice, confermando quanto fece il primo marito Bonifacio e i suoi avi prima di lui, e come farà del resto sua figlia Matilde [Badini 2012], non ebbe rapporti idilliaci con la città di Reggio Emilia. D’altra parte, nel poema celebrativo della famiglia dei Canossa, a fronte per esempio delle notizie fornite sulla consacrazione della cattedrale di Parma, Donizone non fa nessun cenno per quella reggiana, anzi, in uno di quei rarissimi casi in cui si nomina la città l’accezione è o neutra o negativa (per esempio il ruolo di assistenza nei confronti di Corrado dopo la battaglia di Coviolo). Arrischiamoci a dire che se i Canossa avessero avuto un ruolo determinante nella costruzione della cattedrale reggiana, Donizone avrebbe avuto buon gioco, forse, nel ricordarlo. Proviamo invece a considerare un elemento finora passato sottotraccia che può forse rivelarsi utile per comprendere il quadro storico in cui collocare l’avvio e lo sviluppo del cantiere della cattedrale. Alla luce dei confronti che abbiamo proposto, se per la cattedrale possiamo ipotizzare un cantiere avviato nel terzo quarto del secolo XI, i vescovati di Adalberone (1053-1060), Volmaro (1062-1065) e Gandolfo (1065-1085) appaiono momenti possibili di committenza di un edificio basato su modelli cari alla Chiesa imperiale [Vescovi 2012]. Esiste però un altro personaggio, legato, anzi legatissimo alla Chiesa imperiale e che svolse un ruolo da protagonista assoluto nella seconda metà del secolo XI. L’arcivescovo Guiberto, noto soprattutto come Guiberto da Ravenna, in carica dal 1073 fino alla morte nel 1100, era al secolo Guiberto da Correggio, ovvero uno dei massimi esponenti delle grandi famiglie dell’area parmigiano-reggiana, imparentata peraltro con la famiglia dei Canossa. Guiberto è ricordato solitamente a partire dalla sinodo “enriciana” convocata a Bressanone nel 1080 durante la quale fu eletto (anti)papa e assunse il nome di Clemente III in opposizione dapprima a Gregorio VII, ma poi anche a Vittore III, Urbano II e Pasquale II. Un recente convegno romano [Longo, Yawn 2013] ne ha indagato i molteplici aspetti ma anche in tale occasione il ruolo di arcivescovo e ancora prima di cancelliere imperiale a partire dal 1058, è passato quasi totalmente sotto silenzio. Credo invece che il suo ruolo di metropolita della sede ravennate a partire dal 1073, non sia stato senza conseguenze, almeno indirette, nella sua area metropolitica, specialmente durante i suoi primi anni di reggenza e negli anni di più duro scontro con la parte riformata romana, anni coincidenti, come ormai la critica più aggiornata riconosce, solo con il pontificato di Gregorio VII fino all’esilio salernitano [Cantarella 2005]. Il ruolo di Guiberto è peraltro strettamente connesso a quello del suo predecessore Enrico, sulla cattedra arcivescovile ravennate fino al 1072, dopo aver ricevuto il pallio da Leone IX nel 1053 [Frison 1993; Zimmermann 2003]. La vita degli arcivescovi ravennati non doveva essere semplice: Enrico, che ebbe buoni rapporti con Pier Damiani e appoggiò apertamente Cadalo – l’(anti)papa parmigiano Onorio II –, fu scomunicato da Alessandro II ma ebbe anche seri attriti con la corte imperiale. Lo stesso Guiberto, come arcivescovo, cioè dal 1073 al 1080, dovette adottare una strategia accorta e attenta, da abile equilibrista politico, perché saliva sulla cattedra di una sede colpita da interdetto. Può dimostrarlo in controluce il tentativo iniziale di instaurare con lo stesso Gregorio VII un rapporto di reciproca collaborazione nelle faccende ecclesiastiche locali.
Torniamo alla cattedrale di Reggio Emilia. Nei decenni centrali della seconda metà del secolo XI abbiamo visto quanto poco fossero interessate Beatrice e Matilde al capoluogo della diocesi del loro castello di famiglia; abbiamo altresì visto quali erano i vescovi, tedeschi o comunque perfettamente inseriti nella Reichskirche. Infine, in linea con la tradizione ravennate dall’epoca ottoniana in poi, tanto l’arcivescovo Guiberto, quanto il predecessore Enrico furono esponenti della Chiesa dell’Impero. Da questo quadro emerge che il progetto di un edificio che tradisce modelli d’immagine ottoniano-protosalici è dunque ben comprensibile. Tuttavia credo che la riflessione vada portata un poco più oltre, anche alla luce di una tendenza di studi che sta avendo in Spagna e in Francia una certa risonanza [Franzé 2015]. Mi riferisco all’annoso problema delle scelte d’immagine connesse alla questione della cosiddetta Riforma gregoriana, secondo il quale gli esponenti della Chiesa e dell’Impero, tra la seconda metà del secolo XI e i primi decenni del secolo successivo, non si sono affrontati solo sui campi di battaglia o a colpi di libellistica retoricamente costruita, ma anche attraverso le immagini, come forma di propaganda e contropropaganda visiva. [3] Ma alla luce di questo paradigma, come spiegare la cattedrale di Reggio Emilia? Tra XI e XII secolo non furono presuli “imperiali” Eriberto (1085-1094) e Bonseniore (1098-1118) – per non citare lo stesso Anselmo da Lucca – che furono invece vicinissimi a Matilde e al papato romano negli anni immediatamente successivi, ragionevolmente, alla costruzione della cattedrale romanica che abbiamo cercato di delineare in questa sede. Se davvero la cattedrale era il segno del partito imperiale e dei vescovi scismatici che avevano giurato fedeltà ai due (anti)papi “emiliani” Onorio II e Clemente III, perché Eriberto o Bonseniore non sono intervenuti modificando o ricostruendo la cattedrale come d’altra parte era avvenuto a Modena e a Cremona? Eriberto, innanzitutto, visse per lo più a Canossa, protetto da Matilde, segno evidente della scarsa fiducia che riponeva nei suoi fedeli reggiani e soprattutto, forse, del clero cittadino; inoltre, al di là delle ambigue vicende che lo vedono coinvolto a Roma nel 1111 [Cantarella 2012, 540-541], nemmeno Bonseniore godeva di un rapporto felicissimo con la città [Lucioni 2011, 150-153]. Ma, al di là di questo, è ancora possibile porre la questione in questi termini, dopo le aperture recenti sul rapporto Modena/Nonantola al principio del secolo XII [Calzona 2011] o dopo le riflessioni sugli affreschi della chiesa inferiore di San Clemente a Roma [Wickham 2013, 408-417; D’Onofrio 2016, 35-41], il cui committente fu probabilmente proprio Clemente III (anti)papa, ovvero Guiberto da Correggio? Se si avrà conferma che gli affreschi di San Clemente, per decenni considerati un opera di grande importanza per individuare l’immagine della Riforma [Toubert 1990; Romano 2006], sono legati alla committenza di Guiberto da Correggio (anti)papa imperiale, credo che il problema delle scelte di immagine nella Valle del Po tra XI e XII secolo debba necessariamente essere rimesso in discussione attraverso nuovi parametri.
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2. Cfr. Saccani 1929, 103; Golinelli 1980, 149-151; Golinelli 2009, 138; Mussini 1969; Monducci, Nironi 1984, 43.
3. Cfr. Quintavalle 1964; Quintavalle 1991; Quintavalle 2006; Toubert 1990, anche per la bibliografia.