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Valerio Torreggiani, “Stato e culture corporative nel Regno Unito.”

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Valerio Torreggiani, Stato e culture corporative nel Regno Unito. Progetti per una rappresentanza degli interessi economici nella riflessione inglese della prima metà del XX secolo, Milano, Giuffrè, 2018, 282 pp.

In anni recenti il fenomeno corporativo è stato al centro di un rinnovato interesse da parte della storiografia, che ha dedicato particolare attenzione alla circolazione internazionale dei modelli culturali di segno corporativo, contribuendo a ridefinire le coordinate storiche e la dimensione transnazionale del fenomeno. L’attenzione è caduta in prevalenza sui casi nazionali in cui allo sforzo teorico di rifondare il nesso tra stato, società e individuo sono conseguiti esperimenti concreti di una riorganizzazione in senso corporativo della società. La Gran Bretagna, dove il messaggio corporativo non sembrava aver attecchito in profondità, era fin qui rimasta ai margini degli interessi degli storici, attenti tuttalpiù alla penetrazione inglese del discorso corporativo come riflesso dell’attenzione verso il fascismo italiano.

In questo senso lo studio di Valerio Torreggiani colma una lacuna, offrendo uno sguardo attento e documentato sulla fortuna del modello corporativo oltre la Manica. Il volume ricostruisce il dibattito teorico e le proposte programmatiche che hanno puntato a introdurre la questione corporativa nell’agenda politica inglese dei primi decenni del secolo. Come segnala l’autore, verificare l’esistenza di un pensiero corporativo nella patria di elezione del liberalismo rappresenta un obiettivo solo in apparenza ardito. Anche l’Inghilterra non sfugge infatti alle suggestioni di un progetto culturale che punta dichiaratamente a superare i limiti del discorso politico-giuridico liberale ottocentesco.

Torreggiani censisce con puntualità le posizioni di chi, nel nome di industrial planning, distributism, guildism e corporatism, avanza istanze teoriche o proposte politiche di stampo corporativo, finalizzate a una possibile riarticolazione dei rapporti tra sfera individuale e sfera sociale. Ne risulta un paesaggio multiforme e frammentato, che nasce e si sviluppa in sedi differenti (come le riviste New Age e The Eye-Witness, o il Balliol College di Oxford) e in forma spesso non organica, a riprova (una volta di più) dell’origine assai composita e non univocamente autoritaria della riflessione corporativa.

Accanto alle posizioni conservatrici di Thomas E. Hulme, che in un singolare amalgama di istanze intellettuali, filosofiche e religiose propone un superamento del modello individualistico di convivenza post-rivoluzionario, si segnalano le posizioni di Frederic W. Maitland e John N. Figgis, che in dialogo con il Genossenschaftsrecht di Gierke rivendicano la centralità della dimensione istituzionale dei corpi intermedi e del carattere reale dei gruppi sociali. Un ruolo di rilievo nella storia delle culture corporative nel Regno Unito è individuato dall’Autore nel New Age Circle, il gruppo di intellettuali, poeti e giornalisti cresciuto intorno alla rivista diretta da Alfred R. Orange e promotore, a partire da posizioni antiliberali, antiparlamentari e antisocialiste, di una riforma istituzionale capace di attribuire un potere politico diretto alle associazioni di produttori. Non mancano nei primi anni Dieci opzioni più apertamente reazionarie, come quella del basco Ramiro De Maetzu, o prospettive più sensibili alla rielaborazione del messaggio corporativo di origine cattolica, come quello avanzato dai fratelli Chesterton e da Hilaire Belloc sulla scia della dottrina cattolico-sociale dell’arcivescovo di Westminster Henry E. Manning.

Un ruolo di particolare rilievo nella diffusione della cultura corporativa è attribuito a G.D.H. Cole, l’economista e politologo di Oxford che muovendo da una critica al fabianismo e al socialismo di stato propone una riflessione sulla natura della democrazia aperta a nuovi strumenti di partecipazione popolare e di redistribuzione della ricchezza. Per rispondere alla crisi del modello dello stato liberale e all’incapacità del meccanismo democratico-parlamentare di rappresentare l’insieme delle istanze e degli interessi sociali, il gruppo attivo intorno a Cole avanza l’idea di una trasformazione delle relazioni produttive fondata su una possibile mediazione tra auto-governo industriale e sovranità statale. Il cosiddetto socialismo delle gilde si va affinando negli anni del primo conflitto mondiale, che rappresenta uno spartiacque anche per il pensiero economico-sociale inglese. Il dopoguerra porta con sé alcuni progetti di edificazione di una democrazia industriale da realizzare attraverso la decentralizzazione (geografica e funzionale) dei meccanismi decisionali. Ambizione riformista e sincretismo teoretico si mescolano in una proposta suggestiva, che risulta però incapace di definire gli strumenti concreti in grado di riempire i vuoti funzionali del liberalismo classico e di definire una valida alternativa alla proposta marxista.

Lo sperimentalismo maturato negli anni della guerra nel campo delle relazioni industriali e delle esperienze istituzionali non basta a guidare la società inglese verso un effettivo superamento dei capisaldi della moderna statualità. Le proposte di attivazione di un doppio canale della sovranità e della rappresentanza politica fondate sulla progressiva rivalutazione del ruolo delle associazioni e dei corpi intermedi fioriscono sul finire del conflitto, ma non riescono a fare breccia sul piano politico e istituzionale. Da questo punto di vista i contributi dello storico Alfred Zimmern e di Arthur Greenwood allo sviluppo di progetti corporativi all’interno della National Guilds League di Cole e nel Sub-Commtee on the Relations Between Employers and Employed rappresentano l’ennesimo tentativo (infruttuoso) di dare una veste istituzionale compiuta all’eterogeneo insieme di dottrine e orientamenti corporativi nati con l’obiettivo di costruire uno spazio politico di mezzo capace di risolvere le storture del modello capitalista evitando al contempo lo scivolamento nel collettivismo.

Tra anni Venti e Trenta i principi corporativi conoscono nel Regno Unito una declinazione conservatrice, in particolare per opera dei cosiddetti Young Tories di Harold Macmillan e Robert Boothby. Anche in questo caso la riflessione teoretica tenta uno sbocco istituzionale concreto, ma l’elaborazione di una proposta di legge in senso corporativo discussa dal parlamento britannico tra 1934 e 1935 con l’obiettivo di integrare le categorie economiche nel processo decisionale e di prevedere un nuovo assetto dei rapporti tra stato e industria non vanno a buon fine. Sorte analoga avranno le riflessioni dello scozzese Noel Skelton dedicate alla possibile alleanza tra capitale e lavoro, come pure i piani di Alfred Milner orientati a ristrutturare il modello delle relazioni produttive a vantaggio dell’autonomia del mondo industriale e degli organismi di categoria. Progressivamente la riflessione corporativa britannica conosce, come in molta parte d’Europa, una torsione autoritaria. Il fascismo di Mosley prende a modello il corporativismo italiano e rivendica l’opportunità di utilizzare le organizzazioni degli interessi economici come strumenti di controllo della dinamica economica e industriale da parte dello stato. Anche in questo caso si tratta di un programma privo di ricadute reali.

L’interesse del lavoro di Torreggiani va oltre i limiti della dimensione strettamente nazionale della questione corporativa. L’analisi del caso inglese, che del fenomeno generale rappresenta una variante peculiare, conferma l’opportunità di disarticolare e problematizzare il binomio fascismo-corporativismo, che per molto tempo ha offuscato «la rigogliosità dottrinale esistita negli spazi teorici esterni ai fascismi». Recuperando la centralità di formulazioni teoriche che «pur non definendosi corporative, ne condividevano presupposti, strumenti e obiettivi», il volume consente di mettere ulteriormente a fuoco il carattere polimorfico del corporativismo. A voler superare le aporie del liberalismo attraverso una rifondazione del sistema della rappresentanza e delle relazioni industriali, infatti, non furono solo le forze politiche di stampo autoritario. Come mostra plasticamente la ricerca, la riflessione corporativa matura in contesti politici e culturali di vario segno, rappresentando un terreno di confronto per culture politiche di diversa estrazione.

L’insistenza sul carattere composito e variegato del corporativismo britannico, con la messa in evidenza dei limiti e delle ambiguità concettuali, linguistiche e teoriche di quell’esperienza, rappresenta un particolare merito del volume, che fornisce elementi di grande utilità alla comprensione della dimensione transnazionale del fenomeno, senza peraltro che la vicenda inglese venga appiattita su quella dell’internazionalismo corporativo.