Sara Menzinger (ed.), “Cittadinanze medievali. Dinamiche di appartenenza a un corpo comunitario”, Roma, Viella, 2017, XIV-255 pp.
Sono numerosi gli studi che negli ultimi anni hanno consentito di decostruire l’immagine della cittadinanza medievale in Italia, mettendo in luce il carattere complesso e sfaccettato che essa assunse nell’età di mezzo. Il contenuto della civilitas – pensiamo solo agli oneri e ai privilegi fiscali, e all’esercizio attivo e passivo di diritti politici – non fu lo stesso nei vari centri urbani della penisola. Così come fu diverso tra città e città il concreto articolarsi e graduarsi della condizione di cittadino: davvero piena solo per alcuni individui (e sempre meno); parziale, limitata, per molti, e soprattutto per i soggetti più deboli. Furono numerose, e molto varie, anche le forme di accesso alla cittadinanza, le autorità chiamate a esprimersi in merito, le politiche – segnate da gradi diversi di apertura – nei confronti dei potenziali nuovi cives. E, naturalmente, tutto questo mutò nel tempo: basti pensare all’impatto che sulla natura della cittadinanza ebbe il fatto che la grande maggioranza dei comuni italiani perse tra XIV e XV secolo lo status di civitas sibi Princeps – vale a dire, di città politicamente indipendente – che era stato la norma fino a quel momento, almeno nel centro-nord della penisola.
Nei secoli del medioevo, insomma, non esistette alcun «concetto unitario di cittadinanza», ed è da questo assunto di base che prende le mosse il volume Cittadinanze medievali. Dinamiche di appartenenza a un corpo comunitario, curato da Sara Menzinger (citazione a p. VII). L’obiettivo dell’opera, frutto di una lunga attività preparatoria e di confronto tra gli autori dei vari saggi, non è tuttavia solo quello di aggiungere tasselli ulteriori all’immagine sfaccettata della civilitas ormai consolidata in sede storiografica. Come ricordato dalla curatrice in sede di introduzione, Cittadinanze medievali si pone l’intento di confrontare i modi dell’inclusione nella civilitas caratteristici delle città comunali italiane con le dinamiche di appartenenza proprie di corpi comunitari non urbani (la Chiesa nei saggi di Lauwers e Milani; il regno ostrogoto studiato da Luca Loschiavo; le comunità non cittadine meridionali presentate nel saggio di Sandro Carocci e Vito Loré) o di città d’ambito geografico differente rispetto a quello dell’Italia centro-settentrionale più usualmente studiato (i centri urbani della Francia meridionale nel contributo di Sara Menzinger; le città del Regno in quello di Carocci-Loré). Così, a emergere nel volume è qualcosa di ulteriore rispetto al discorso sulle (tante) cittadinanze medievali, vale a dire un’analisi più generale dell’appartenenza comunitaria che individua tre azioni cruciali attorno a cui articolarsi. Pagare. Decidere. Escludere. A ciascuno di questi tre poli è dedicata una sezione del lavoro.
Pagare. Una comunità trova senza dubbio nella necessità di far fronte a degli oneri collettivi uno dei fattori più potenti di coesione, ed è così che non sorprende verificare come proprio le pratiche fiscali assumano – in un arco cronologico lunghissimo – un ruolo centrale nella definizione dell’appartenenza dei singoli individui a corpi di qualsiasi tipo. Pagare l’imposta fondiaria significa, per i Goti di Teodorico, fare un passo decisivo verso una civilitas comune con la popolazione romana (Loschiavo). Sostenere gli oneri connessi alla costruzione e manutenzione di un concretissimo bene comune – le mura – è dovere di ogni cittadino nei comuni dell’Italia centro-settentrionale e della Francia meridionale (Menzinger). Il pagamento della decima a partire dall’XI secolo è teorizzato dalle stesse gerarchie ecclesiastiche come il segno più evidente di appartenenza alla cristianità («colui che non paga la decima non è cristiano», afferma papa Alessandro II), e di sottomissione all’autorità di una Chiesa che si vuole ora più nettamente distinta dai poteri laici (Lauwers). Così, non sorprende che specularmente la volontà di non pagare marchi in maniera chiarissima la posizione di chi pretende di non far parte di una determinata collettività, o che nelle gradazioni del pagamento si riflettano le gerarchie interne a una società. Succede per quei Goti che attraverso una diffusa resistenza all’imposizione fiscale manifestano la loro contrarietà al progetto regio di modificarne lo status, «non più guerrieri mercenari, operanti in territorio straniero in virtù di un contratto, bensì membri di un esercito regolare, formato da cittadini-soldati» (Loschiavo, p. 23). Ma succede anche per quei laici che non pagando la decima si pongono al di fuori della comunità cristiana (Lauwers); e per quegli ecclesiastici che reclamando di non essere tenuti neppure alle contribuzioni per le mura comunali marcano la differenza del loro status (Menzinger). Nei centri dell’Italia meridionale – dove ancora fino all’età federiciana l’immissione in una comunità coincide di regola per il nuovo venuto con la sottomissione, l’affidamento, a un membro della medesima comunità definito dominus – la situazione peculiare degli immigrati recenti, personalmente legati al civis a cui si erano raccomandati, può essere più o meno a lungo marcata da una condizione fiscale più gravosa di quella di chi invece apparteneva a pieno titolo alla comunità (Carocci-Lorè).
Decidere. Il cittadino pagatore non è, molto spesso, e con sempre maggiore frequenza, anche un cittadino decisore. Certo, «quella delle città comunali è una cittadinanza ‘antica’, in cui non si percepisce la distinzione tra partecipazione attiva nelle istituzioni e pieno godimento dei diritti di cittadinanza» (Tanzini, pp. 171-172). Tuttavia, decidere su questioni politicamente rilevanti nelle città italiane del Tre-Quattocento diviene sempre più volentieri un privilegio per gruppi ristretti di cives: cittadini più qualificati di altri, titolari di cittadinanza davvero “piena”, formalmente o informalmente distinta da quella dei più, che entra in rapporto dialettico con le istituzioni politiche della comunità. I «supercittadini» decidono; e proprio perché decidono sono tali.
Il modo in cui i consigli delle città italiane divengono specchio di questi «portatori di una civilitas superiore» (Vallerani, p. 143) è al centro dei saggi di Lorenzo Tanzini e Massimo Vallerani. In entrambi i casi, si può notare, un grande spazio è dedicato al ruolo della natura. All’insistenza con cui, attraverso il ricorso al sorteggio più che all’elezione, nelle città italiane i consigli sono presentati come “naturale” proiezione del corpo cittadino, così da de-politicizzare il momento della scelta (Tanzini). Alla frequenza con cui a partire dal tardo Duecento le cariche politiche maggiori sono riservate ai cittadini “naturali”, “originari”, insomma: tali per nascita (Vallerani). E tuttavia, è ben chiaro come dietro questa natura si nasconda la mano della politica: che interviene a correggere nella direzione desiderata i meccanismi di sorteggio; o che si riserva il diritto di decidere chi debba essere considerato originario, o di «fingere» l’originarietà di chi si intende cooptare.
Escludere. Non sono di certo portatrici di una “supercittadinanza” le donne, escluse dalla partecipazione attiva alla vita politica: ma non per questo, come ricorda il saggio di Julius Kirshner, ascrivibili tout-court alla dimensione di una non cittadinanza, di una non appartenenza al corpo comunitario. Essere donne nel medioevo non significa non essere cittadine; non godere della protezione dei tribunali urbani, della legge della città, dei diritti economici dei cives. Questo è invece il destino dei banditi – o almeno, dei banditi nella forma più piena – di cui da conto nel volume il saggio di Giuliano Milani. L’avvertenza è che escludere diventa in questo caso, prima ancora che un modo di punire, un tentativo di correggere, di normalizzare – per usare un lessico foucaultiano – pur in assenza del corpo del colpevole (i banditi sono sempre contumaci) e in presenza di una ancora scarsa capacità coercitiva dell’istituzione. A uscire indirettamente definita attraverso la pratica dell’esclusione è così anche l’immagine di un “buon” cittadino. Ciò di cui avverte l’ultimo saggio del volume, di Giacomo Todeschini, è che i confini di questa buona cittadinanza medievale sono – di nuovo – confini politici e non naturali. Confini oltre i quali non stanno gruppi assolutamente e “naturalmente” cattivi, ancorché come tali siano definiti dallo sguardo delle autorità che decifrano le intentiones dei singoli, ma individui la cui voluntas non si è conformata al bene comune (ovvero, a ciò che si è deciso essere tale).
Indice
- Sara Menzinger, Introduzione
- I. Appartenere al corpo comunitario
- Luca Loschiavo, Oltre la milizia: fisco e civilitas per i Goti di Teoderico
- Sandro Carocci e Vito Loré, Accedere alla comunità. Italia meridionale, XI-XIII secolo
- Michel Lauwers, Decima, appartenenza alla comunità e territorialità tra IX e XIII secolo
- Sara Menzinger, Mura e identità civica in Italia e in Francia meridionale (secc. XII-XIV)
- II. Spazi politici e livelli di partecipazione
- Massimo Vallerani, La cittadinanza pragmatica. Attribuzione e limitazione della civilitas nei comuni italiani fra XIII e XV secolo
- Lorenzo Tanzini, Il fantasma della rappresentanza: sorteggio e rotazione delle cariche nelle città comunali (secc. XIII-XIV)
- III. Esclusione e inclusione nel corpo comunitario
- Giuliano Milani, Rovesci della cittadinanza. Appunti per una storia comparata di bandi e scomuniche nel medioevo
- Julius Kirshner, Nascoste in bella vista: donne cittadine nell’Italia tardo-medievale
- Giacomo Todeschini, Intentio e dominium come caratteri di cittadinanza. Sulla complessità della rappresentazione dell’estraneo fra medioevo e modernità