Eldorado nel pantano. Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia (Il Mulino, 2008) è la seconda monografia che Massimo Livi Bacci dedica alla conquista e all’evangelizzazione delle Americhe, temi che l’insigne demografo aveva già affrontato nel suo Conquista. La distruzione degli indios americani (Il Mulino, 2005). In questo “dittico americano”, forte dello sguardo libero e curioso dell’outsider ma anche di un’erudizione e di una profondità critica degne del miglior specialista, Livi Bacci si lascia guidare dalle voci delle cronache coloniali per indagare i processi di conquista ed evangelizzazione facendo luce, per quanto possibile, sui loro riflessi demografici, cioè su uno degli aspetti più oscuri e discussi della tragedia coloniale.
Se il collasso demografico delle popolazioni americane all’indomani della Conquista è infatti un fenomeno innegabile, la sua reale entità e le sue cause sono state oggetto di una discussione che
travalica ampiamente i limiti della pura ricerca demografica per investire aspetti di grande rilievo storico e antropologico. In Conquista, infatti, Livi Bacci ha illustrato come
l’irrimediabile incompletezza dei dati quantitativi, soprattutto in merito alla popolazione americana nel momento del contatto con il Vecchio Mondo, abbia dato luogo a stime straordinariamente
contrastanti da parte dei diversi specialisti. Nella seconda metà del XX secolo si è imposta una tendenza “rialzista”, esemplificata dai lavori di Dobyns[1], che ha ipotizzato per il momento del contatto una popolazione continentale superiore ai cento milioni di abitanti, ridotta nel giro di un secolo a circa un decimo del valore
originario. Una simile ipotesi, se probabilmente spinta dal desiderio di sottolineare la portata catastrofica della Conquista, ha però avuto una rilevante conseguenza dal punto di vista
dell’identificazione delle cause specifiche del calo demografico: la scomparsa di nove decimi della popolazione nel giro di cent’anni, infatti, non può essere spiegata se non attribuendo un ruolo
assolutamente primario all’impatto di malattie come il vaiolo, il tifo e il morbillo che avrebbero fatto strage di indigeni immunologicamente impotenti di fronte al dilagare delle epidemie. Questa
spiegazione monocausale ha condotto quindi a una sorta di “determinismo epidemiologico”, il cui sempre attuale vigore è ben esemplificato dal recente successo di Armi, acciaio e malattie
di Jared Diamond (Einaudi, 2006), che descrivendo il collasso come un qualcosa di inevitabile e in ultima analisi indipendente dal volere degli attori della Conquista, porta paradossalmente a una
svalutazione del ruolo che tali attori ebbero nella costruzione di una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità.
La sapiente analisi dei pochi dati quantitativi esistenti, ha portato invece Livi Bacci a fornire stime demografiche ben più ragionevoli: ipotizzando una popolazione continentale di circa 30
milioni di individui allo scadere del XV secolo, la sua successiva riduzione di circa un terzo nel giro di un secolo diviene ben più plausibile, comparabile ad esempio a quella che in Europa fece
seguito alla peste del 1348. Ma l’intento di Livi Bacci è soprattutto quello di indagare le cause di quello che rimane comunque un vero collasso demografico: è infatti attraverso la lettura dei
resoconti di testimoni oculari come missionari e conquistatori secondo i quali le cause di tipo politico, economico e sociale ebbero un peso almeno pari a quelle di tipo epidemiologico che Livi
Bacci ha ricostruito un quadro nel quale le guerre, il lavoro coatto in miniere e piantagioni, la dissoluzione delle forme di organizzazione sociale e dei sistemi insediativi mediante le
reducciones contribuirono a creare una situazione di disgregazione sociale nella quale l’effetto delle epidemie fu enormemente incrementato: nelle parole di Livi Bacci, “la dislocazione
sociale smembrò le comunità e attenuò le reti di solidarietà e le capacità di difesa di fronte a calamità, penurie, attacchi esterni” (p. 30). La rilevanza di tali concause di tipo
economico-sociale dette peraltro luogo a situazioni molto diverse, riassunte da Livi Bacci in cinque o sei modelli esemplari che spaziano dal caso antillano, dove l’estinzione delle locali
popolazioni Taino fu in gran parte anteriore alla prima epidemia di vaiolo e principalmente dovuta alla “mortifera fame dell’oro” e al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero, a
quello delle coste messicane dove le epidemie ebbero certamente un ruolo primario. In posizione “intermedia” stanno i due casi più complessi, quelli del Messico centrale e del mondo andino, dove i
conquistatori incontrarono società altamente strutturate e dove gli effetti congiunti dello sfruttamento coloniale e delle epidemie (in proporzioni assai diverse nei due casi) dettero luogo alla
“tragica nascita” di società meticcie. Tra i diversi casi analizzati da Livi Bacci spicca poi quello delle reducciones gesuitiche del Paraguay dove l’esperienza missionaria uscì vincente
grazie all’introduzione di un modello di vita cooperativo e solidale (nonché della pratica della monogamia) che favorì la crescita demografica delle popolazioni indigene nonostante le
epidemie.
La puntuale analisi di Livi Bacci non si configura quindi come una semplice rivalutazione della Leyenda Negra, ma piuttosto come una considerazione del contesto sociale e della sua
capacità di reazione allo shock biologico causato dalle malattie. La distanza dal “determinismo epidemiologico” non potrebbe essere maggiore: “La catastrofe non fu un destino obbligato, ma l’esito
dell’interazione tra fattori naturali e comportamenti umani e sociali il cui risultato non era determinato in partenza.” (p. 241). In questo senso, sebbene Livi Bacci non ne faccia mai esplicita
menzione, è evidente come il quadro tracciato in Conquista costituisca un eccellente esempio di una situazione di “violenza strutturale” e di “sofferenza sociale”, concetti di grande
attualità nell’antropologia medica che ben si prestano anche all’analisi storica di casi come quello dell’America coloniale[2].
Probabilmente stimolato dal caso paraguayano affrontato in Conquista, in Eldorado nel pantano Livi Bacci si dedica all’analisi della conquista e dell’evangelizzazione degli Llanos
de Mojos, l’enorme regione pantanosa della Bolivia orientale prima identificata con l’Eldorado o il Paititi e poi teatro di un’importante impresa evangelizzatrice da parte dei Gesuiti. La lettura
delle cronache coloniali, spesso poco note, permette a Livi Bacci di narrare una storia epica e affascinante che ci mostra come negli Llanos de Mojos la “fame dell’oro”, alimentata dai miti
dell’Eldorado e di Paititi, portò all’organizzazione di avventurose spedizioni di esplorazione e conquista lanciate all’inseguimento di un miraggio sempre sfuggente e destinate ad affondare in un
pantano povero d’oro e di altre risorse. La fine dei sogni di conquista lasciò poi spazio all’azione dei Gesuiti che vi impiantarono una vasta rete di missioni, seconda per importanza solo a quella
del Paraguay. È proprio all’esperienza gesuitica che Livi Bacci dedica la sua maggior attenzione, mettendo ancora una volta ordine tra dati demografici limitati e frammentari e contribuendo in modo
sostanziale alla comprensione di quella che fu una delle più affascinanti imprese di evangelizzazione dell’America latina nonché alla comprensione delle possibili dinamiche demografiche dei diversi
gruppi indigeni degli Llanos.
Anche in questo caso, il testo di Livi Bacci fornisce, pur senza farne esplicita menzione, una messe di spunti utili a riflessioni antropologiche. Nella sua appassionata lettura delle cronache dei
conquistadores che si avventurarono nelle terre basse dell’Amazzonia e della Bolivia orientale, intuiamo come l’Eldorado fungesse da vera e propria categoria concettuale che, rendendo noto
l’ignoto, lo rendeva comprensibile e conquistabile: l’Eldorado incarnava insomma il sogno di un’America ricca e disponibile, di un’immensa cornucopia destinata a soddisfare la “fame” europea di
oro, argento e spezie. Anche gli indigeni americani vennero quindi “letti” alla luce di concetti desunti dal bagaglio culturale europeo, ed ecco allora che le selve americane si popolarono di
Amazzoni e di Cannibali. Come ha recentemente messo in luce Carlos Jáuregui nel suo eccellente Canibalia. Canibalismo, calibanismo, antropofagia cultural y consumo en América Latina
(2005), coloro che si opponevano allo sfrenato consumo europeo delle risorse americane vennero paradossalmente accusati proprio di appetiti sfrenati, fossero essi di carattere sessuale (Amazzoni) o
alimentare (Cannibali).
Più tardi, anche i Gesuiti videro negli Llanos una potenziale cornucopia, ma ora ricca di anime: gli indigeni, una volta privati delle loro pratiche culturali più inaccettabili come la poligamia o
l’infanticidio, potevano essere adeguatamente convertiti e trasformati in buoni cristiani. Tale percezione dell’alterità indigena, spesso ripetutasi in diversi episodi dell’evangelizzazione
americana, può essere intesa come una manifestazione del mito del buon selvaggio e come un antecedente di un certo umanitarismo contemporaneo nel quale il concetto di “nuda vita”[3] pare una moderna trasformazione delle “nude anime” oggetto delle attenzioni dei missionari, che non a caso usarono spesso la metafora
dell’evangelizzazione come “medicina dell’anima”.
Ma è del tutto svanito il mito dell’Eldorado e del Paititi dopo l’abbandono delle missioni gesuitiche degli Llanos? Apparentemente no: oggi coloro che vi hanno trovato un nuovo Paititi sono proprio
gli archeologi che cercano di indagare le forme della sussistenza e dell’organizzazione sociale di quei gruppi indigeni apparentemente in balia di un ambiente naturale impossibile da dominare e che
quindi avrebbe costituito, secondo una tesi fortemente radicata negli studi delle terre basse neotropicali, una barriera insormontabile per lo sviluppo di società complesse. Una corrente di studi
nota come ecologia storica, iniziata con i lavori di William Denevan e oggi ben rappresentata da ricercatori come Clark L. Erickson[4],
ha dimostrato come in realtà l’ambiente degli Llanos sia in gran parte un ambiente “domesticato”, un prodotto della millenaria attività dei gruppi indigeni che lo abitarono e lo trasformarono per
soddisfare i loro bisogni economici. Se tale approccio abbatte definitivamente il mito del “paradiso incontaminato” che tanto affligge le foreste tropicali americane, in certi casi rischia forse di
sovrastimare alcuni indicatori di complessità e in particolare quello demografico, data l’estrema difficoltà di valutare l’esatta contemporaneità di insediamenti umani in un ambiente dove
spostamenti e ricostruzioni di abitazioni dovevano essere estremamente frequenti. È possibile quindi che in futuro alcune posizioni estreme saranno sottoposte a critiche e revisioni, ma certamente
questi studi di grande attualità, mostrando come quel pantano sia in realtà un enorme manufatto, hanno avuto il merito di sottoporre a severa critica gli indicatori solitamente usati per valutare
il grado di complessità sociale in contesti non occidentali e di aver scritto un nuovo capitolo dell’affascinante storia degli Llanos de Mojos, quella storia che Massimo Livi Bacci ci racconta in
modo tanto appassionante quanto rigoroso.
Note
[1] F. Dobyns Henry, Estimatine Aboriginal Populations. An Appraisal of Techniques with a New Hemispheric Estimate, «Current Anthropology», 7 (1966), 395-449.
[2] Si vedano ad esempio i saggi raccolti in «Antropologia», 8 (2006), Sofferenza sociale, a cura di Ivo Quaranta.
[3] Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; I. Quaranta, Introduzione cit., 5-15.
[4] Cfr. ad esempio C.L. Erickson, W. Balée, The Historical Ecology of a Complex Landscape in Bolivia, in W. Balée, C. L. Erickson (eds.), Time and Complexity in Historical Ecology. Studies in Neotropical Lowlands, New York, Columbia University Press, 2006, 187-233; C.L. Erickson, The Domesticated Landscapes of the Bolivian Amazon, ibidem, 235-278.