André-Bernard Ergo, “L’État Indépendant du Congo 1885 – 1908. D’autres vérités”, Paris, L’Harmattan, 2013, 170 pp.
Il volume si propone di offrire una rilettura critica del libro di Hochschild King Leopold's Ghost: A Story of Greed, Terror, and Heroism in Colonial Africa (Boston: Houghton Mifflin Company, 1998; Rizzoli, 2011). L’argomento trattato da entrambi gli autori, ovvero lo Stato Libero del Congo - amministrato da re Leopoldo II come una proprietà personale - a cavallo tra Ottocento e Novecento, sembra essere sentito come una questione personale da Ergo, quantomeno vedendone il livore che traspare dalle pagine.
Livore che si manifesta già nelle prime sezioni, rispettivamente Avant-propos (introduzione) e Cher monsieur Hochschild. Soprattutto la seconda, a partire dal sarcasmo del titolo, rende ben chiaro al lettore quale sia la tesi di fondo che percorre l’intero volume: “Gli spettri del Congo” non è altro, secondo l'autore, che la riproposizione di una colossale fandonia, un ricettacolo di accuse gratuite che l’autore elargisce a piene mani contro i pionieri belgi («eroici»), la Force Publique (la polizia coloniale) e Re Leopoldo. Infatti, proseguendo nella lettura, l’autore dona forma e corpo alla teoria secondo cui lo scandalo red rubber sia stata una montatura creata ad arte dalla Gran Bretagna per tentare di impossessarsi dell’unica colonia belga in Africa. I capitoli in cui prende in esame i personaggi più significativi di questa storia - che fecero venire alla luce le reali condizioni degli africani asserviti – sono una spirale crescente di dietrologie e tentativi di screditarli agli occhi del lettore.
Prendiamo ad esempio il caso di Roger Casement, console britannico in Congo all’epoca dei fatti: l’accusa contro di lui è di aver creduto, senza nutrire dubbi, alla testimonianza di un intero villaggio riguardo alla mutilazione di un giovane da parte di una guardia privata di una compagnia concessionaria della gomma. I testimoni, continua l’autore, non si sarebbero poi presentati per confermare il racconto di fronte alla giustizia belga, che avrebbe poi scagionato la guardia perché in realtà la mutilazione sarebbe stata provocata dal morso di un cinghiale (35). Tutta la vicenda, secondo la “prova” portata dall’autore, sarebbe un tentativo degli indigeni di sottrarsi alla raccolta della gomma, data la loro notoria “ripugnanza” (36) verso il lavoro. Tale “prova”, non classificata e di difficile reperimento, è una breve ordinanza di non luogo a procedere contro la guardia, pubblicata sulla rivista di promozione e propaganda pro-coloniale “Mouvement geographique” nel 1904, la cui attendibilità è ben lontana dall’essere dimostrata.
Proseguendo, ci si imbatte in una rapida disamina di Edmund Morel, ovvero di colui che avrebbe portato a conoscenza del mondo attraverso conferenze, libri e interventi giornalistici (fondò un giornale, il West African Mail, esclusivamente dedicato a questa causa) il trattamento disumano riservato agli africani dai colonizzatori in Congo. Morel è descritto come il personaggio centrale di tutta la macchinazione (78-81), in grado – con la sua fama – di occultare e far passare in secondo piano importanti testimonianze di missionari che avrebbero smentito le sue accuse. Missionari che però vengono attaccati proprio nel capitolo precedente, definiti anzi «i più accaniti detrattori» (67) del lavoro fatto dai belgi in colonia. Proprio i missionari avrebbero poi fornito a Morel delle fotografie delle mutilazioni, che però Ergo bolla come probabilmente false. Da dove viene questa accusa? Nessuna prova di una falsificazione viene portata a riscontro, se si esclude ovviamente la possibilità potenziale che la falsificazione stessa possa essere avvenuta, possibilità elevata ad evidenza incontrovertibile dall’autore. Eppure, egli applica lo stesso meccanismo appena criticato, inserendo nel testo delle foto (45-52) di scuole professionali, campi coltivati, fabbriche, persino una biblioteca, il tutto senza fornire alcuna prova della loro veridicità. Sulla base di quanto scritto nel capitolo precedente, si sarebbe perfettamente legittimati a ritenerle dei falsi, appartenenti ad una fase diversa o, addirittura, ad un’altra colonia e poi spacciate come scattate nello Stato Libero del Congo.
Nell’epilogo (significativamente intitolato La vérité, 154), infine, sono riportate frasi di vari giornalisti, soprattutto statunitensi, risalenti agli anni ’50 del Novecento. Tutte elogiano lo sviluppo e il progresso portati dai coloni belgi nel Congo, soprattutto riguardo il miglioramento della situazione delle popolazioni indigene. Dello Stato Libero del Congo non si fa più alcuna menzione. Complessivamente, il volume non offre alcun arricchimento al dibattito storiografico sull’argomento (come invece auspicato dall’autore nella premessa) ma, al contrario rischia di rappresentarne una regressione a causa della sua totale mancanza di rigore scientifico. Nessuna prova, nell’intero volume, viene portata a sostegno delle argomentazioni sul complotto britannico contro il Belgio e re Leopoldo, nessuna evidenza che in realtà le condizioni dei lavoratori della gomma all’epoca fossero diverse da quelle descritte altrove, nulla. Supposizioni, congetture e fantasiose ricostruzioni non supportate neanche da una parvenza di bibliografia (totalmente assente) assurgono al rango di prova, generando solo un fastidioso rumore di fondo intorno ad un argomento che meriterebbe ben altra trattazione. Tutto questo ha un nome ben preciso, ovvero negazionismo. Quel negazionismo perennemente scacciato dalla porta che tenta continuamente di rientrare dalla finestra con il pretesto della libertà di espressione, e che tanta audience riesce a trovare oggi soprattutto nelle nicchie del web.