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John M. Najemy, “Storia di Firenze. 1200-1575”

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John M. Najemy, “Storia di Firenze. 1200-1575”, Torino, Einaudi, 2014, XVII-643 pp.

Il volume è la traduzione di A History of Florence. 1200-1575, uscito nel 2006. La spanna cronologica richiede qualche spiegazione, poiché è un buon indice sia dell’originalità dell’opera, sia del suo taglio interpretativo. La tradizione degli studi sulla storia di Firenze tra Medioevo ed Età Moderna si è fin qui sviluppata principalmente attorno a due (se non tre) temi: L’età comunale - con l’affermazione del movimento popolare attraverso le arti tra Due e Trecento - e l’età medicea - studiando perlopiù separatamente il Quattrocento e il Cinquecento. All’interno di questo secondo nucleo tematico, infatti, le modalità d’esercizio del potere dei Medici, la lunga cesura istituzionale inaugurata dalla repubblica savonaroliana (1494-1498) e le consolidate specializzazioni accademiche hanno imposto uno studio separato dei due secoli. Attraverso la sua Storia Najemy offre finalmente una visione unitaria, mettendo a frutto varie – e talvolta contrapposte – tradizioni e ipotesi storiografiche.

Sebbene Najemy offra ampi ed aggiornati squarci sulla storia economica, culturale, artistica e sulla vita quotidiana dei Fiorentini, la sua è soprattutto una storia politico-istituzionale organizzata cronologicamente, il cui “motore” è costituito dalla lotta per il potere tra un’élite proteiforme e un “popolo”, all’interno del quale si distinguono almeno due componenti. Con il termine élite Najemy intende il gruppo di volta in volta egemone nella società e nella politica fiorentina. Tale gruppo risulta assai variabile nella sua composizione: ai primi del Duecento è l’aristocrazia d’ascendenza consolare, poi diventa il vasto gruppo dei “magnati”, formato dai più influenti tra i lignaggi della vecchia aristocrazia e dai nuovi ricchi cooptati al vertice della società. Lo sviluppo di un’avanzatissima economia finanziaria e manifatturiera spingeva verso l’alto nuovi lignaggi, costringendo l’élite a un’oculata riorganizzazione dei propri ranghi, operata non solo con il controllo dell’accesso alle cariche pubbliche, ma anche attraverso l’impiego di mutevoli strategie ideologiche per ottenere il consenso delle classi inferiori. Nel “popolo” – composto da coloro che possiamo tautologicamente definire gli esclusi dall’élite – riconosciamo, accanto a una componente socialmente subalterna, impegnata in una lotta senza quartiere per l’accesso al governo del comune, anche un gruppo dall’atteggiamento più ambiguo, socialmente non troppo dissimile dall’élite e perciò disponibile alla collaborazione con essa.

Questa lettura, scopertamente socio-economica, funziona molto bene fino alla cesura rappresentata dal Tumulto dei Ciompi e dai quattro anni di governo popolare da essi inaugurato (1378-1382). Per una lunga fase che va dagli inizi del Trecento al 1382 l’élite scelse, infatti, di far proprio il linguaggio politico popolare, negoziando il proprio ritorno al potere dopo l’esclusione decretata dagli ordinamenti antimagnatizi di fine Duecento, attraverso l’accettazione del sistema partecipativo garantito dalle arti. Il Tumulto e la sua insistita rappresentazione come momento di crisi dell’élite furono le pietre fondanti di una nuova configurazione ideologica e politico-istituzionale. I vecchi istituti corporativi – quando rimasero formalmente in vigore – furono svuotati della loro autorità. All’ideologia della partecipazione in piccoli gruppi si sostituì quella del consenso di massa clientelare; ai vari “consigli” e alla rapida rotazione degli incarichi si sostituirono le “balìe” (commissioni via via sempre più stabili alle quali si demandava il giudizio sulle questioni politicamente più spinose) e i “parlamenti” (assemblee a larghissima partecipazione il cui consenso era facilmente ottenibile con la forza o con la corruzione). L’impiego in chiave propagandistica e clientelare dell’investimento privato nel lusso (edilizia, arti visive) fu anche una conseguenza della crisi delle istituzioni che – per tutta l’età comunale – avevano garantito una forte committenza pubblica.

Attraverso il passaggio dall’ideologia della partecipazione a quella del consenso l’élite (i membri della quale, in pieno revival umanistico dell’antico, amavano definirsi “ottimati”) si garantì qualche decennio di egemonia indiscussa (1382-1434), ma inaugurò un sistema di potere talmente instabile e concentrato da divenire facile preda di nuovi padroni. Furono le forti spese di uno stato territoriale in guerra quasi permanente a consegnare su un piatto d’argento Firenze al munifico Cosimo dei Medici. Il sistema di contribuzione fiscale più o meno volontaria (e largamente incentivata dal pagamento di notevoli interessi) mise nelle mani del più ricco banchiere fiorentino il debito pubblico della sua città. Da questo momento in poi l’ideologia del consenso fu piegata agli interessi dei Medici. La vigorosa economia fiorentina (per nulla in crisi, anche se inesorabilmente orientata alla concentrazione del capitale) continuava a proiettare nel pantheon cittadino sempre nuovi “popolani”, ma il canale per la promozione politica restò, per quasi tutto il Quattrocento, solo la prossimità alla famiglia Medici.

Il malcontento che covava tra gli ottimati esclusi dal favore mediceo riemergeva periodicamente (1458, 1466, 1471, 1478) e trovò, infine, un ammanto ideologico nella rivoluzione politico-morale promossa dal domenicano Girolamo Savonarola. Attraverso la cacciata dei Medici (1494) e la rifondazione di alcune istituzioni da comune popolare Savonarola ottenne un autentico allargamento del sostegno al nuovo regime. Tuttavia l’élite che aveva assecondato la rivolta antimedicea se ne servì strumentalmente solo per guadagnare quel consenso che il patronato mediceo le aveva fin lì sottratto. Tale consenso restò assai superficiale e il suo debole radicamento determinò sia la precoce fine di questa “seconda repubblica” (1494-1512) sia il fallimento di ogni altro tentativo repubblicano (1527-1530). La potenza dei Medici – ormai legata al Papato tramite due pontefici (Leone X e Clemente VII) – trovò il modo di riguadagnare il proprio posto in città sfruttando la diffidenza che gli ottimati continuavano a nutrire per ogni regime di stampo popolare.

I principi di casa Medici erano divenuti il punto di equilibrio tra due contendenti ormai stanchi e invecchiati: popolo ed élite. Quest’ultima subiva così l’ultima sua metamorfosi: dai milites dei primi del Duecento, ai magnati dell’età di Dante, agli ottimati dell’età di Cosimo e Lorenzo si passava infine a una «servile aristocrazia di corte» (559).