Monica Cioli, “Anche noi macchine! Avanguardie artistiche e politica europea (1900-1930)”, Roma, Carocci, 2018, 250 pp.
Il libro di Monica Cioli ricostruisce trasformazioni ed esiti della crisi di modernità a cavallo tra Ottocento e Novecento attraverso la lente dell’arte, intesa non come «mero fatto estetico ma come vero e proprio fenomeno politico». La tesi forte del libro è che il modernismo non costituisce esclusivamente un movimento interno all’ambito artistico, ma un processo lento e graduale di complessivo ripensamento dell’individuo, della società e dello Stato che parte, attraversa e risuona nella produzione artistica. Quest’ultima produce infatti visioni e discorsi che raccolgono e danno voce a tensioni, aspirazioni e conflitti cui le vecchie forme della modernità non riescono più a rispondere. Il volume considera tre paesi – Italia, Francia e Germania – ma parte significativamente dall’Inghilterra, che per la sua distinctivity svolge una funzione di guida e di anticipazione di tendenze che si aprono in tutto il continente. In primo luogo, alla base di queste tendenze comuni troviamo la crisi del laissez faire e dei valori liberali. Contemporaneamente, proprio da questa crisi emerge un’ansia di rifondazione e di rinnovamento che oppone alla bancarotta della scienza le grandi scoperte nel campo della fisica, della biologia, della psicanalisi e che mette al centro la macchina. Essa impone, come afferma il futurismo italiano, di «non guardarsi alle spalle», di rispondere alla crisi con una profonda trasformazione di tutta la vita, raccogliendo la «velocità» come dono inestimabile della tecnica. Mentre i futuristi proclamano, dal «promontorio estremo dei secoli», un tempo e un uomo nuovo, il Bauhaus teorizza non solo l’opera d’arte totale ma la costruzione dell’individuo come macchina, capace di sopraffarne il demone, ovvero di dominare la tecnica allo scopo di trasformare l’uomo-massa in uomo individuale e totale al tempo stesso. L’arte diventa, in modo simile al diritto amministrativo che guadagna sempre più spazio e potere, una modalità di produzione dell’ordine, pur mantenendo una forte carica rivoluzionaria, tesa alla trasformazione della vita e dell’organizzazione sociale e infine all’invenzione di uno standard che risponda tanto alla biologia quanto ai bisogni sociali. Standardizzare l’esistenza diventa un modo per dare senso alla sempre crescente predominanza delle masse e per rispondere alla crisi dell’individualismo. La mediazione e la tensione tra macchina-industria e uomo biologico sono le forme in cui si manifesta l’essenza del modernismo: ricerca ossessiva dell’ordine e spettro del disordine, spiritualismo e «passione per il reale», ovvero predilezione per l’azione e l’invenzione di uno spazio collettivo produttivo di una nuova civiltà. Questa tensione modernista è ciò che consente all’avanguardia, altro concetto chiave del volume, di operare sia come pars destruens, sia come pars costruens, e di fornire alla politica non una eco ma una fonte di idee e discorsi.
L’armonizzazione tra uomo e macchina non è infatti l’unica risposta messa in campo dall’arte. Il purismo francese, il De Stijl, la science fiction, l’Angoscia delle macchine di Ruggero Vasari e la Metropolis di Fritz Lang rappresentano secondo Cioli movimenti che introducono elementi diversi di articolazione del nesso uomo-macchina e di ripensamento della società. Cioli è attenta a cogliere affinità e tendenze nelle differenze, per mostrare come il modernismo si realizzi nei termini di una tensione irriducibile tra utopia e distopia e tra ordine e spinta rivoluzionaria.
Il primo conflitto mondiale e la Rivoluzione d’ottobre con l’enorme paura e le infinite aspettative che le accompagnano rappresentano per l’artista l’occasione per assumere un ruolo la cui importanza politica e ideologica è senza precedenti. Nel dopoguerra, infatti, la macchina come ordine diventa un paradigma internazionale e trasversale. Il dibattito sulla razionalizzazione che Cioli ricostruisce con attenzione mostra come nel neoplasticismo olandese, nella scuola tedesca del Bauhaus, nel purismo di Amédée Ozenfant e Le Corbusier, in Fernand Léger, nel futurismo italiano e infine nel costruttivismo russo il mito della macchina non solo raccoglie e declina il modello industriale di Taylor e Ford, ma ne rende possibile il successo. D’altra parte le avanguardie artistiche non fanno solo questo ma, oltre i confini della fabbrica e della produzione, immaginano e costruiscono «forme di vita» che hanno una potente ricaduta sul ripensamento della politica europea nel primo Novecento.
Il quadro vivido e ricchissimo descritto dall’a., partendo dalla macchina come concetto politico oltre che fenomeno storico, riesce a dimostrare che il modernismo non è solo un movimento estetico e artistico, l’invenzione di nuove forme e immaginari, ma che esso mette in gioco una nuova temporalità e spazialità della politica che ambisce al ripensamento dell’individuo e all’invenzione di una nuova civiltà.