Premessa
Per gli studiosi di cinema, la Prima Guerra Mondiale è un nodo decisivo: oltre a coincidere cronologicamente con l'avvio dell'affermazione di un cinema fondato sul racconto lineare, è stata anche l'evento che ha contribuito ad accreditare il cinema come fenomeno culturale ed efficace mezzo di comunicazione di massa. La Grande Guerra, inoltre, ha catalizzato forme di genere, routine produttive, pratiche istituzionali, nuovi assetti dell'industria. Primo evento di portata globale a essere veicolato sistematicamente attraverso le immagini in movimento, la guerra ha causato rivolgimenti nei sistemi di percezione e di approvvigionamento delle immagini, inaugurando
un nuovo ‘sistema d’armi’ formato dalla combinazione di un veicolo da combattimento e di una macchina da presa, sistematizzazione del classico ‘camera-car’ che sfocerà, dopo la seconda guerra mondiale, in una strategia della visione globale, grazie ai satelliti-spia, ai ‘Drone’ e altri missili-video (Virilio 1996, 9-10).
In termini ancora più comprensivi, come ha argomentato Giaime Alonge, è sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale, nonché in rapporto alle rappresentazioni che ne sono state date, che è possibile interrogare la relazione complicata e necessaria tra cinema e modernità (Alonge 2001).
Nel 2010 il curatore del numero speciale di «Film History» dedicato rapporto tra cinema e Prima Guerra Mondiale scrive che, nella sola biblioteca universitaria di Toronto, i volumi dedicati al tema riempiono circa duecento metri lineari di scaffali (Bottomore 2010, 363). In cinque anni, complici anche le iniziative speciali per il centenario del conflitto, tale numero è senza dubbio cresciuto ed è impensabile poter rendere conto di questa produzione nella sua totalità. Inoltre, l'abbondanza di lavori esaustivi, e facilmente reperibili, ha fatto sì che molti di essi siano utilizzabili dagli studiosi anche come documentati repertori bibliografici [1]. L'obiettivo di questo articolo è allora quello, assai più modesto, di indagare il modo in cui il tema è stato integrato all'interno degli studi cinematografici, individuando quali sono state le linee di ricerca dominanti negli ultimi decenni.
Rappresentazione e prassi della guerra
Il cinema rappresenta la guerra, rendendola visibile ai contemporanei e ai posteri, e allo stesso tempo la trasforma in argomento propagandistico utilizzabile da governi e stati maggiori. Per trovare una consapevolezza chiara di questa dicotomia, come ha notato Gian Piero Brunetta, è sufficiente allontanarsi di pochi mesi dalla fine del conflitto. Brunetta cita, in un testo edito in occasione di un convegno (Brunetta 1985), ampi brani del pamphlet Il teatro muto di Piero Antonio Gariazzo, che già nel 1919 scrive dei film realizzati nel corso della Prima guerra mondiale:
Il registrare su nastri sensibili il più grande fatto che la storia dovrà ricordare, questa esaltazione guerriera del mondo, questo universale desiderio di massacro e di rapina, ed il vestirlo coi colori di retoriche verità, ciascuno secondo i proprii interessi, fu una preoccupazione che nacque subito negli uomini del comando, con due scopi ben diversi: uno scopo di propaganda, e uno scopo di storia (Gariazzo 1919, 314-315).
Il corpus dei film documentari e di finzione, apparentemente votati all'entertainment o chiaramente di propaganda, è vastissimo e in larga parte è stato custodito per decenni nei musei o negli archivi delle istituzioni militari dei vari Paesi [2]. Pretendere di utilizzare quei film per ricostruire con esattezza la realtà fattuale della guerra, continua Brunetta, è piuttosto ingenuo, non solo per i meccanismi di censura e autocensura attivi all'epoca, ma perché solo una congrua distanza temporale dagli eventi autorizza il rifiuto della visione autoritaria della guerra (Brunetta 1985, 17). Tuttavia, continua lo storico, tale repertorio
diventa invece estremamente utile se lo interroghiamo in funzione del riconoscimento di meccanismi ideologici comuni, di presupporti e mentalità perfettamente speculari nella volontà dei vertici militari antagonisti, di strutture mentali soggiacenti del tutto identiche e miranti ad ottenere effetti simili al di là della diversità delle bandiere e delle motivazioni ideologiche (Brunetta 1985, 13-14).
Il principio soggiacente a questo uso dell'immagine e del racconto cinematografici come supporto dell'indagine storica è quello di visibile elaborato da Pierre Sorlin all'inizio degli anni Settanta e, più in generale, quello della relazione cinema/storia emersa dalla revisione metodologica condotta soprattutto in Francia nel corso degli anni Settanta; l'idea centrale è quella che le immagini cinematografiche – indipendentemente dalla loro densità estetica e dal loro statuto finzionale o documentario – siano sempre analizzabili come sintomi o indici della società che le ha prodotte e che, attraverso quelle, si è autorappresentata (Sorlin 1975, Ferro 1977).
Il cinema legato, per temi o clima storico, alla Grande Guerra è stato tradizionalmente ritenuto non solo infedele, ma soprattutto inefficace rispetto ai due grandi compiti di cui è stato investito, ossia «constituer l’école de l’héroïsme, porter témoignage sur le conflit» (Daniel 1971, 55). Negli ultimi anni, tuttavia, tale produzione è stata riesaminata nei suoi aspetti pragmatici e distributivi: più che il contenuto esplicito o latente dei film si è cercato quindi di indagare l'uso che di essi è stato fatto da parte di gruppi di interesse e istituzioni. Ad esempio, Richard Abel ha analizzato la distribuzione di una ventina di lungometraggi non-fiction dedicati agli eventi bellici e distribuiti nei cinema commerciali degli Stati Uniti dal 1914 al 1916, mostrando come metà di essi facessero proprio il punto di vista tedesco sulla guerra e ragionando quindi sul loro ruolo nel dibattito sulla neutralità che investì il Paese fino alla fine del 1916 (Abel 2010). Nello stesso, ricchissimo, numero speciale di «Film History» che contiene il citato articolo di Abel, Wouter Groot e Karel Dibbets prendono in esame il caso della distribuzione olandese di The Battle of the Somme di Malins e McDowell (1916), uno dei film più celebri del periodo e secondo alcuni (Chapman 2008, 40-45) il primo a essere percepito – almeno da parte britannica – come pienamente documentario e realistico, ottenendo per questo un enorme successo di pubblico. Gli autori mostrano come, anche in un territorio neutrale quale i Paesi Bassi, gli spettatori diventino bersaglio delle attività di propaganda delle nazioni belligeranti: tre diversi film sulla battaglia della Somme, realizzati da altrettante prospettive, vengono distribuiti nel Paese a partire dal 1916, con l'obiettivo di orientarne l'opinione pubblica (Dibbets, Groot 2010).
Con attenzione al caso italiano, Alessandro Faccioli ha ripercorso il modo in cui le immagini delle pellicole realizzate nel corso del conflitto hanno circolato nei decenni successivi, manipolate e appiattite dal punto di vista semantico, nei numerosi documentari di montaggio. L'autore, che ha dedicato al tema della relazione cinema/Grande Guerra parte cospicua della sua attività di ricerca (Faccioli, Scandola 2014), nota anche come negli anni del fascismo, quindi dell'uso programmatico della storia in chiave di propaganda:
la spinta decisiva alla produzione di alcuni di questi film derivi dal loro carattere benefico. Distribuzione e proiezione si danno anche in circuiti paralleli a quelli di prima e seconda visione, e in particolare nelle sedi delle associazioni militari, dei caduti, dei reduci, mutilati e feriti di guerra (Faccioli 2010, 50).
Che la Prima Guerra Mondiale abbia continuato a essere un tema delicato anche in epoca repubblicana lo dimostra un breve ma documentato saggio di Enrico Gaudenzi – coautore tra l'altro di una filmografia esaustiva sull'argomento (Gaudenzi, Sangiorgi 2014) – che ripercorre, con il supporto di materiali d'archivio, le difficoltà produttive e distributive incontrate in Italia da film come A Farewell to Arms di Charles Vidor (1957) e All Quiet on the Western Front di Lewis Milestone (1930), a causa dell'ostruzionismo delle agenzie governative deputate al controllo della produzione cinematografica, o dell'opposizione aperta delle associazioni di combattenti e reduci (Gaudenzi 2014, 162-167).
Cinema di guerra tra industria e cultura
Negli anni del primo conflitto mondiale il cinema attraversa, proprio in virtù degli eventi, una fase di ristrutturazione che investe tanto gli equilibri globali quanto le routine professionali, con ovvie ricadute sulle carriere individuali. Il primo fattore da tenere in conto è quello dei mutati equilibri nella geopolitica del cinema: inizia in quel periodo il predominio internazionale di Hollywood, a cui favore giocano l'allentamento della concorrenza europea e le relazioni solide con l'amministrazione Wilson (Slocum 2006, 4). Allo stesso tempo, in alcuni Paesi europei rimasti neutrali, come la Danimarca e i Paesi Bassi, si avviano ambiziosi piani di espansione della produzione di pellicole (Thorsen 2010) e dell'esercizio, con l'apertura di nuove sale cinematografiche (Velden, Thissen 2010).
Come tutte le industrie avanzate, anche il cinema intraprende poi una produzione specificamente di guerra. L'esito più rappresentativo e studiato di questa produzione è dato senza dubbio dai documentari e dai cinegiornali, quelli che in ambito angloamericano si chiamano newsreels, notiziari che solitamente precedevano la proiezione di un lungometraggio a soggetto. Questi, soprattutto per le cinematografie più sviluppate, rappresentano una produzione talmente esorbitante da avere richiesto in primo luogo uno sforzo di catalogazione. Ad esempio, Craig W. Campbell ha fornito un notevole spoglio di tutti i prodotti a tema bellico distribuiti negli Stati Uniti dal 1914 al 1920, inclusi quindi anche quelli stranieri (Campbell 1985). Per ogni film sono indicati titolo, distributore, lunghezza in rulli, origine produttiva, mese di distribuzione, nonché una brevissima sinossi. I film citati sono inoltre suddivisi sulla base del genere o formato di appartenenza: feature films, short films, other pertinent films, documentary films, newsreel and screen magazine, cartoons, liberty loan specials, “bolshevik films”. Un lavoro simile, ma basato sulla collezione dell'Imperial War Museum di Londra, è condotto in oltre 500 pagine in The First World War Archive (Smither 1994). Di impianto più storico e interpretativo è invece il testo di Laurent Véray sui cinegiornali francesi (Veray 1995), affrontati da tre prospettive: quella istituzionale (la creazione di un servizio di propaganda per immagini), quella linguistica (le forme di rappresentazione della guerra nel film di attualità) e, decisamente preziosa, quella pragmatica, che prende in esame la questione del pubblico, della programmazione di questi film e del loro impatto dal punto di vista culturale. Uno schema analogo, ma con attenzione minore alla questione della circolazione dei film, può essere ritrovato in un testo precedente sulla propaganda britannica (Reeves 1986).
La guerra, inoltre, ha effetti profondi anche sulle routine che investono intere categorie professionali, come quella più coinvolta proprio nella produzione di attualità e cinegiornali: gli operatori. Priska Morrissey ha mostrato che proprio durante il conflitto, e in virtù della partecipazione a questo come normali combattenti e come operatori nella Section cinématographique de l'armée, i cameraman francesi escono dall'anonimato e iniziano a ottenere riconoscimento per il loro contributo anche nei crediti dei film (Morrissey 2010). In altri casi l'impatto è sui singoli. I verbali della polizia statunitense su Erich von Stroheim, sospettato di svolgere attività spionistiche e antipatriottiche durante la guerra, rivelano come il futuro regista di Foolish Wives (1922) e attore di Sunset Boulevard di Billy Wilder (1950) fosse impegnato ad alimentare, non è chiaro se con calcolo, millanteria o semplice incoscienza, l'immagine di avventuriero ambiguo e immorale, a cavallo tra la decadente Europa e il nuovo mondo, che costituirà negli anni appena successivi il nucleo della sua star persona (Porter 2010). Tali documenti, però, consentono anche di tracciare con relativa precisione una fase particolarmente nebulosa della già oscura biografia di Stroheim.
Giocano con la guerra, ma in un altro senso, anche i serial, variante cinematografica del feuilleton (racconti suddivisi in numerosi episodi distribuiti a intervalli regolari) che hanno avuto negli anni Dieci la propria epoca d'oro. Monica Dall'Asta, in uno studio sui serial interpretati da Pearl White e prodotti dalla succursale americana della Pathé, ha mostrato ad esempio che la relazione tra cinema e iconografia bellica è di puro exploitation, con il riutilizzo sistematico di immagini documentarie nel corpo dello spettacolo:
[In Pearl of the Army] il repertorio è tratto dal genere documentario in quegli anni tristemente più sviluppato, il documentario di guerra. Nei primi cinque episodi (dei dieci dell'edizione francese) non si perde occasione di mostrare grandi corazzate in porto, esercitazioni militari, manifestazioni patriottiche, parate, fabbriche d'armi al lavoro, insomma tutto ciò che ha a che fare con la guerra. Lo sfruttamento della guerra non è più solo sensazionalismo, è materiale. Serve a risparmiare (Dall'Asta 1993, 104).
Oltre a quelle aggressive ed iconoclastiche di Pearl of the Army, esistono ovviamente altre forme, non solo cinematografiche, di riutilizzo dell'immaginario bellico nella cultura popolare; è questo il tema di un volume in uscita per Palgrave Macmillan (Tholas-Disset, Ritzenhoff 2015). L'uso del cinema come mezzo di entertainment negli anni di guerra corre parallelo al suo graduale riconoscimento come fatto appartenente alla cultura seria ed elevata. In alcuni casi tale promozione avviene grazie al coinvolgimento attivo che l'industria del cinema ha in iniziative di sensibilizzazione lanciate dalle istituzioni, quali il programma di sottoscrizione Smileage, pensato per fornire ai militari americani forme di svago moralmente edificanti (Collins 2014). Altrove il cinema inizia invece a essere accreditato grazie alla creatività di singoli artisti particolarmente apprezzati. Secondo Micheal Hammond (2010), ad esempio, la capacità di Charlie Chaplin di integrare il tema grave della guerra in un film pienamente spettacolare come Shoulder Arms (1918, noto in Italia come Charlot soldato) è decisiva nel convincere sia il pubblico sia la critica inglese che non solo quel regista, ma un'intera forma espressiva, ha finalmente raggiunto la propria maturità: non l'unico, ma forse, nemmeno il meno importante tra i tanti coming of age che la Grande Guerra ha indotto o imposto in quegli anni.
Reference List
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- Virilio P. 1996 [1984], Guerra e cinema. Logistica della percezione, Torino: Lindau.
Note
1. Vedi: Isenberg 1981; Dibbets, Hogenkamp, 1995; Brunetta 1999; Alonge 2001; Véray 2008.
2. Negli ultimi anni grazie al progetto European Film Gateway 1914 della fondazione Europeana sono state digitalizzate circa 650 ore di materiale filmato e oltre 5.500 documenti non-film relativi al periodo 1914-1918.