Nel suo nuovo libro, Partigia, Sergio Luzzatto si propone un compito difficile ma chiaro e circoscritto: «misurarsi con problemi generali di storia della guerra civile in Italia: il carattere politico o impolitico del ribellismo della prima ora, la qualità del rapporto tra formazioni partigiane e popolazioni locali, l’iniziale dipendenza dei ribelli dall’esperienza e dalle armi dei transfughi del Regio Esercito, la permeabilità delle bande all’infiltrazione di ladri o spie» (16). E lo fa a partire – anche se ci tornerà sopra insistentemente – da «una storia che somigliava piuttosto a una microstoria» (15). Ma non si limita a essa: da lì prende le mosse per ragionare, anche, del modo in cui la Resistenza ha raccontato e celebrato se stessa e i suoi eroi e le sue vittime; del retaggio che nell’immediato dopoguerra e nei più lunghi decenni successivi essa ha lasciato nella vita politica e civile italiana; nel modo in cui la giustizia ha fatto i conti con le violenze e gli obbrobri del fascismo, del razzismo, della guerra civile. Tocca, in sostanza, «questioni cruciali del Novecento italiano: il profilo politico e umano del personale collaborazionista, i meriti e i limiti della giustizia post-resistenziale, il ruolo degli Alleati e dei loro servizi segreti, l’impatto dell’amnistia promulgata da Palmiro Togliatti, la difficoltà di improntare ai valori dell’antifascismo la Repubblica «nata dalla Resistenza» (17).
In quest’ottica Primo Levi non è il protagonista del libro, come molti critici hanno voluto accusare, ma il «reagente etico», il punto di partenza – famoso, interessante, problematico, in parte ambiguo e reticente – per meglio ragionare sugli altri temi centrali, per coinvolgere in modo più deciso l’attenzione del lettore, per suggerire una serie di temi secondari (secondari per il libro, non perché lo siano davvero) come il rapporto tra la Resistenza e la Shoah, tra la Shoah e la memoria antifascista, tra l’eredità storica di Resistenza e Shoah e il loro possibile sovrapporsi ma anche confliggere.
Non è nemmeno, Partigia, un libro sulla violenza nella Resistenza, anche se questo tema è ovviamente cruciale. Proprio in quanto microstoria, il racconto cerca di suggerire il più ampio spettro di interrogativi e di problematica ma non pretende di divenire il simbolo, il riassunto, la sintesi delle possibili risposte a essi. Il ragionamento di Luzzatto continua a «limitarsi» a spiegare – a cercare di spiegare – la singola vicenda: lasciando che in essa convivano la possibilità che l’uccisione dei due giovani partigiani da parte dei loro compagni sia un «errore» dovuto all’abilità manipolatrice del nemico, frutto dell’impreparazione della lotta della prima ora, effetto di un rigorismo ideologico-militar-morale che anticipa la dicotomia amico/nemico, senza possibilità di ruoli intermedi, che segnerà gran parte delle vicende successive.
Come mai le critiche rivolte al libro non si sono incentrate sul tema – assai poco trattato in generale – della creazione del mito della Resistenza, non solo come costruzione di quella «vulgata antifascista» che tanto ha fatto sobbalzare i custodi della sacralità del racconto resistenziale ma anche come rimozione, silenzio, cancellazione o peggio manipolazione della realtà fattuale? O sulla giustizia dell’immediato dopoguerra, sui rapporti difficili e complessi tra la necessità di una pacificazione nazionale – questo era l’obiettivo, al di là dei suoi effetti e delle forme in cui si attuò, dell’amnistia Togliatti – e il bisogno di impedire che l’eredità del regime fascista e della stessa Repubblica sociale (fatta di istituzioni, valori, ideologie, persone, leggi) restasse troppo forte e durasse troppo a lungo impedendo alla neonata democrazia di rafforzarsi? Senza parlare, naturalmente, del contesto internazionale che cambia almeno tre-quattro volte nel giro del decennio 1938-48 e che costituisce un orizzonte da cui non si può prescindere sia che si affronti la storia della Resistenza attraverso una vicenda particolare o nel suo complesso.
Anche molti tra coloro che non hanno reagito accusando il libro di leso-Primo Levi o di lesa-Resistenza hanno voluto sottolineare la sua presunta ambiguità, confondendo forse con essa la problematicità cui l’autore cerca di dare risposte – spesso nette e precise – lasciando intendere, però, che le questioni in gioco sono troppo grandi per essere considerate definitivamente chiuse e assodate, sia sul terreno della ricostruzione e verifica dei fatti che su quello dell’interpretazione. Anche coloro che hanno guardato con interesse alla presenza forte, nel libro di Luzzatto, della letteratura – e non solo per l’ovvia centralità di Primo Levi – non hanno percepito che quella scelta non costituiva solo la possibilità di dare maggior forza alla narrazione, agli interrogativi sui valori, sulle esperienze individuali, sulle morali – o sulla «moralità» come ebbe magnificamente a riassumere Pavone nel suo insuperato Una guerra civile – presenti nei diversi attori che hanno riempito quegli anni. Il riferimento a Fenoglio, Meneghello, Pavese, Calvino, Rigoni Stern, è continuo e spesso indiretto perché proprio gli scrittori sono quelli che sono stati capaci di rendere problematica e non olografica la Resistenza, costruendone un’immagine e una narrazione vere, forti, affascinanti proprio mentre cresceva sul terreno della memoria storica pubblica quella «vulgata» da cui Luzzatto vuole giustamente prendere la distanza.
A proposito del punto nevralgico della microstoria – l’uccisione di Oppezzo e Zabaldano, i due giovani accusati non si sa di preciso di cosa ma probabilmente di «scorribande» individuali con qualche angheria ai contadini del luogo – a Luzzatto non importa scoprire l’autore materiale di quella esecuzione con «metodo sovietico» (e a tutti coloro che si sono offesi o sentiti disturbati per questa definizione chiederei di andare a leggersi la storia ormai più che acclarata della fossa di Katyn, che a lungo venne attribuita – anche in molta vulgata nostrana – ai nazisti pur essendo chiaro e riscontrabile fin dalla sua scoperta che gli autori ne erano i sovietici); ma piuttosto «ragionare della severità di una punizione che i partigiani del Col de Joux dovettero decretare con ogni scrupolo di coscienza, ma che le fonti storiche disponibili autorizzano a ritenere smisurata rispetto all’entità delle colpe di cui Oppezzo e Zabaldano potevano essersi macchiati» (90). Qui, proprio nell’impossibilità di raggiungere attraverso le testimonianze – comprese quelle di Levi – una qualche risposta significativa o almeno parziale all’interrogativo proposto, Luzzatto ricorre alla letteratura, al Calvino dei Sentieri dei nidi di ragno riassumendo la vicenda del falchetto Babeuf e della sua uccisione da parte del suo padrone.
Un altro tema su cui stranamente i critici di Luzzatto non si sono soffermati – e di cui non si sono nemmeno incuriositi, cosa ancor più grave per chi, come storico, ha l’obbligo di «comprendere» prima di poter emettere qualsiasi giudizio – è quello relativo all’inserimento dei due giovani uccisi nell’albo d’oro dei martiri della Resistenza valdostana. Su tre nomi presenti per il 1943, quando la Resistenza come si sa è ancora agli inizi, ben due sono «eroi» uccisi dai loro compagni, i giovani Oppezzo e Zabaldano. Luzzatto ha scritto che la «necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e più variamente gravi, ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia, mentre fin dagli anni cinquanta ha fornito materia alla narrativa resistenziale» (86), spiegando quindi con chiarezza uno dei motivi del suo costante richiamo alla letteratura ma risultando forse troppo ottimista sulla storiografia, per gran parte della quale quel tabù continua a esistere e a rappresentare un ostacolo ad affrontare in modo storiograficamente corretto il tema della violenza interpartigiana.
Legato a questo tema, e ripreso in modo serio e civile da alcune letture critiche dell’opera di Luzzatto, vi è quello del rapporto tra divulgazione e ricerca, tra quest’ultima e la narrazione pubblica che della Resistenza è stata ed è fatta (ormai in forme spesso antagoniste e schematicamente manichee), tra l’impegno degli storici nell’accertamento e interpretazione del passato e il loro ruolo nell’aiutare a costruire o contrastare o disinteressarsi della discussione pubblica sui temi di loro interesse professionale ma spesso anche civile e politico.
Gli storici della Resistenza e dell’antifascismo sono in genere stati eccessivamente critici (nel senso di non riuscire a vederne gli aspetti e i contributi positivi) dell’apporto storiografico di Renzo De Felice, facendo però in genere riferimento alla sua produzione pamphlettistica e divulgativa, quella più dichiaratamente militante: e accusando quella di mancanza di rigore storiografico – come in effetti era – ma guardandosi bene da provare a produrre narrazioni alternative sia sul versante storiografico (a quando una nuova grande storia del fascismo?) sia su quello divulgativo o pamphlettistico. Su questo terreno è invece intervenuto pesantemente Giampaolo Pansa, dimentico dei suoi giovanili trascorsi storiografici e capace, almeno in un ambito culturale che è quello per usare la terminologia politica del centro-destra, di dare le risposte, le informazioni, i giudizi capaci di essere coerenti con le proprie convinzioni politiche e pregiudizi ideologici.
Una narrazione di quest’ultimo tipo era stata fatta anche dalla sinistra, per influenzare quell’ambito politico di centro-sinistra su cui si voleva esercitare la propria egemonia: era quella la «vulgata resistenziale» che fin dal 1968 gli storici più giovani avevano cercato di mettere in discussione pur restando rinchiusi nell’ambito della ricerca e lasciando che sul versante divulgativo prevalessero i cascami alla Proletari senza rivoluzione di Del Carria quando non l’esegesi del gappismo per bocca dei comunicati delle Brigate Rosse.
Solo una storia della storiografia e delle vulgate divulgative potrà ricostruire le difficoltà e la complessità di questo percorso. Non può più essere accettabile, tuttavia, evitare di misurarsi con la semplificazione e riduzione che ogni narrazione divulgativa comporta e al tempo stesso pretendere, dall’alto delle pubblicazioni scientifiche, di poter criticare o distruggere qualsiasi tentativo in questo senso. L’opera di Luzzatto non è un’opera divulgativa, è un’opera di grande spessore – metodologico e documentario – scientifico; ma l’autore ha voluto narrarla con un andamento godibile e comprensibile anche ai non addetti ai lavori e può quindi rientrare, sia pure in modo parziale, nella pubblicistica divulgativa. Più che muovere un processo alle intenzioni dell’autore sarebbe il caso di rendere omaggio a questa sua capacità, al coraggio che ha avuto di rischiare, alla possibilità che ci ha offerto di guardare in modo più diretto e chiaro a temi e problemi che una piccola parte della storiografia sulla Resistenza ha certamente affrontato ma senza questa capacità d’impatto e di suscitare curiosità e riflessione.