«Le idee relative al mare sono vaste e piacevoli […], ma non durevolmente, perché mancano di due qualità, la varietà, e l’esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana» (p. 21).
Citando il Leopardi dello Zibaldone, Frascani pone subito in evidenza la contraddizione su cui si impernia la sua analisi storica. Il mare è il racconto di una relazione complessa, a volte cercata e altre fuggita, ma certo a lungo negata: quella tra gli italiani e il proprio mare. Ripercorrendo a grandi balzi la storia del rapporto fra Italia e Mediterraneo, l’a. individua nella tarda età moderna l’inizio di una lunga fase che egli chiama di «vacuum marittimo», durante la quale gran parte della popolazione, inseguendo una vocazione urbana e agricola, si allontanò dalle coste vulnerabili e pericolose, «abbandonando i litorali all’impaludamento» (p. 10). Nondimeno un elemento costante sembra emergere: la distanza fra l’Italia interna e quella costiera non è mai data per definitiva e tutto il paese appare percorso da una tensione verso il mare, tensione irrisolta e di difficile soluzione, ma che impedì a chi scrisse e visse in Italia, nonché a chi la governò, di ignorare completamente l’acqua salata che lambiva le coste della penisola.
Se una storiografia sul ruolo del mare all’interno di vari contesti locali o di specifici settori dell’economia nazionale, come i trasporti marittimi e la pesca, non manca del tutto in Italia, la lacuna che l’a. si propone di colmare – a mio avviso efficacemente – è quella di uno studio che adotti una visione sintetica ma completa, comprendendo al suo interno i principali ambiti della vita politica, culturale, sociale ed economica che in tempi e modi diversi furono condizionati dalla presenza (o dall’assenza) del mare. Preceduto dal lavoro di Guarracino attorno al tema del Mediterraneo e delle sue civiltà (Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Milano, Bruno Mondadori, 2007), Il mare se ne distingue sotto diversi profili, ma principalmente per la restrizione dell’ambito geografico e dell’arco temporale (l’Italia dell’800 e ’900) e per il conseguente approfondimento sul ruolo che il concetto e l’immagine del Mediterraneo hanno giocato nella cultura non di un’antica civiltà, ma di una nazione modernamente intesa e in via di formazione.
Ed è proprio fra le pieghe del processo di nation building che affiorano alcuni dei nodi più interessanti dell’articolato rapporto fra le comunità costiere e l’interno, nodi che sembrano in parte percorrere trasversalmente l’intero periodo considerato. Sebbene sul fronte della politica estera le aule del Parlamento non si sottraessero a una seria considerazione del ruolo commerciale e militare della flotta italiana nello scacchiere europeo, inficiato comunque da disastrosi fallimenti e da angusti margini di manovra, fu nelle stesse aule che maturò l’abitudine, significativamente ampliatasi durante il fascismo, di destinare le isole alla popolazione carceraria. Versando in una condizione di subordinazione al continente, le isole divennero quindi emblema di una lontananza coatta dalla vita della nazione e il mare stesso divenne strumento di esclusione, inaugurando così una fase di “militarizzazione” e di omologazione della popolazione marittima.
Ciò nonostante un progressivo cammino di convergenza di queste due Italie pareva essere già in atto. Partendo dai mari fantastici di Salgari e di Collodi, passando attraverso l’opera divulgativa del T.C.I. e della Lega Navale, una certa Italia cominciava a pensare al Mediterraneo come a un Mare nostrum, che se da una parte appariva un’idea astratta e fiabesca, dall’altra si avvicinava concretamente, configurando la spiaggia sempre più come luogo di svago e di riposo. Tra i numerosi strumenti utili a questo nuovo avvicinamento, l’a. sembra dare particolare valore all’opera di bonifica, all’incremento dell’escursionismo e al generale potenziamento della rete di trasporto pubblico, grazie a cui gli italiani videro ridursi le distanze interne e i costi per affrontarle. Mentre però da un lato la retorica mussoliniana del ritorno agli antichi fasti ben si attagliava al racconto di un Mare nostrum,dall’altro esso pareva utile soprattutto a sviare da un’incapacità di penetrazione economica nelle aree forti dell’Europa centrale e in quelle dello stesso Mediterraneo.
Il «brusco risveglio» del secondo dopoguerra – quando si percepì nettamente di vivere su un mare «non più nostro» (p. 167) – non impedì alla fase fordista dell’industria siderurgica e meccanica di trovare ancora impulso nelle costruzioni navali, né all’Italia balneare del boom di riconquistare le coste della penisola, sempre più deturpate da un’incontrollata espansione edilizia. Accompagnata quindi da un fecondo filone cinematografico e musicale, si può dire che ogni parte della popolazione si sia oggi riavvicinata al mare. Ciò che traspare dalle pagine di Frascani, tuttavia, è che le traiettorie su cui questo processo di riappropriazione dello spazio marittimo si è incanalato hanno finito per condurre a una non completa soluzione delle vecchie contraddizioni (le culture marinare hanno forse fatto spazio a un più prosaico culto della villeggiatura), lasciando ancora intatta, sotto nuove vesti, quella distanza del mare dalla «nostra vita quotidiana» che Leopardi aveva individuato nel 1821.