Nell’ultimo anno numerosi studi sono stati dedicati a Giotto e alla sua produzione, a partire dal volume di Serena Romano, La O di Giotto (Milano, 2008) che ricostruisce in modo convincente la formazione e la maturità dell’artista, per proseguire con il catalogo della mostra romana, a cura di Alessandro Tomei (Giotto e il Trecento, Roma, Complesso del Vittoriano, catalogo Skira, Milano 2009).
Più nello specifico, il bel volume recentemente pubblicato da Chiara Frugoni per i tipi di Einaudi, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella degli Scrovegni, splendidamente illustrato, si aggiunge al panorama di studi sugli affreschi della cappella padovana proponendo una nuova interpretazione del ciclo commissionato da Enrico Scrovegni all’artista toscano. L’idea tradizionale, ripetuta di recente anche in un volume statunitense (A. Derbes - M. Sandona, The usurer's heart: Giotto, Enrico Scrovegni, and the Arena Chapel in Padua, University Park, Pennsylvania, Pennsylvania State University Press, 2008), è nota: Enrico Scrovegni, usuraio e figlio di un usuraio, commissionò e pagò gli affreschi della cappella annessa al suo fastoso palazzo per fare ammenda della sua vita scellerata passata ad accumular denaro.
L’ipotesi da cui parte Chiara Frugoni è invece opposta e colpisce come siano sufficienti poche operazioni critiche per dimostrarla: la verifica di testi noti, ma mai pubblicati integralmente, come il testamento dello Scrovegni; il controllo di alcune date; uno sguardo attento a dettagli iconografici. Secondo l’ipotesi della studiosa, Enrico Scrovegni, ricchissimo e orgoglioso di esserlo, sceglie la cappella e i suoi affreschi come maestosa autorappresentazione e celebrazione del suo potere e della sua ricchezza, prezioso dono alla comunità padovana, a cui proporsi, forse, quale nuovo signore. L’analisi procede serrata, a partire da alcuni dati storici e cronologici: viene smontata la teoria secondo la quale Enrico considerava la cappella come un’espiazione per il peccato di usura del padre e che il giudizio di Dante aveva rivestito un ruolo nella decisione del ricco patrono. A questo scopo basta notare che il canto dell’Inferno fu composto sicuramente alcuni dopo l’esecuzione degli affreschi, in un contesto politico – con Dante amico di Cangrande della Scala, nemico della guelfa Padova – di partigiano odio verso il committente degli affreschi.
Interessante è la serrata analisi iconografica delle scene del ciclo, con una profonda riflessione su ogni singolo dettaglio, da quelli apparentemente più insignificanti – come la balia che stringe il naso alla vergine appena nata, per farle emettere il primo vagito – che denotano la profonda attenzione del pittore al dato reale, a quelli più densi di significato, come il tentativo ben riuscito di occultare qualsiasi raffigurazione del denaro, per allontanare il più possibile il collegamento con l’attività finanziaria del committente. È così che dalla teoria delle virtù e dei vizi, nello zoccolo inferiore, alla perfetta portata dello sguardo dello spettatore, scompare l’avarizia, e la carità trova il suo opposto nell’invidia, mentre Giuda, l’impius mercator per eccellenza, è raffigurato nell’inferno punito per simonia. Certo è che Enrico non ha timori o dubbi sulla sua sorte: si fa rappresentare infatti, nella scena del giudizio, risolutamente dal lato degli eletti.
Completano il poderoso saggio due appendici che l’a. ha affidato a esperti delle singole discipline: Riccardo Luisi si occupa con grande competenza e precisione dello zoccolo di finti marmi in cui si inserisce la serie dei vizi e delle virtù, indagando le ragioni di una perfetta illusione; mentre Attilio Bartoli Langeli pubblica il testo latino e la traduzione italiana delle ultime volontà dello Scrovegni, corredati da un ricco e puntuale commento. Il testamento – noto da anni, ma mai edito integralmente – dimostra con chiarezza quale fosse il legame tra la cappella e il suo committente: tra gli accorgimenti quasi comici con cui lo Scrovegni cerca di sottrarsi alla restituzione del maltolto, campeggiano le donazioni in favore della cappella dell’Arena, per garantire che essa sia officiata dai canonici agostiniani e i cittadini di Padova possano continuare a frequentarla. Per concludere con le parole dell’a., «facendo un uso caritatevole delle ricchezze accumulate [Enrico Scrovegni] le rimetteva in circolo, beneficiando i padovani di doni spirituali. (…) Chi si ricorderebbe oggi di Enrico se non ci fosse stato Giotto? In definitiva quelle pitture furono il migliore affare del grande finanziere».